Winter Light – Luci d’inverno Ingmar Bergman

Trama del film
Tomas Ericsson è il pastore protestante in una piccola cittadina; un giorno, durante una messa, si rende conto di non trovare più alcuna giustificazione alla propria fede. Parlando con i pochi fedeli rimasti, capisce di non poter dare loro né le risposte che cercano, né alcun conforto, perché niente di tutto questo sente di ricevere da Dio. Jonas Persson, ossessionato da una guerra atomica, si suicida dopo un inutile colloquio col pastore. Più tardi, parlando con Algot, il sagrestano, Tomas intravede una luce: se sarà sufficiente ad illuminare il suo inverno non viene risolto. Nella chiesa vuota, Tomas dà inizio alla funzione.

Recensione “Luci d’inverno”

a cura di Glauco Almonte
Luci d’inverno è il secondo film della trilogia del silenzio, tra Come in uno specchio e Il silenzio; il problema della fede, del bisogno di avvertire la presenza di un Dio, viene qui presentato attraverso la crisi spirituale di chi, per il proprio ruolo, dovrebbe invece aiutare gli altri a trovare la retta via. Tomas Ericsson, non un alter ego del padre di Bergman, ma sicuramente una proiezione dei suoi dubbi sulla figura paterna, percorre il proprio travaglio spirituale nel breve giro d’una giornata: dal momento in cui la sua fede si scopre vuota alla (presunta) via d’uscita, la sua sofferenza morale è accompagnata da un costante malessere fisico, ed i tentativi di Marta, innamorata di lui, di lenirne il dolore non fanno altro che acuirlo. Ma quando, alla fine, inizia la messa, il suo volto sembra disteso, sereno: quale che sia, ha trovato una risposta.
L’itinerario interiore del pastore si svolge attraverso continui confronti con i personaggi che gli ruotano attorno: con loro, come con Dio, v’è una comunicazione inutile (Nattvardsgästerna, il titolo, vuol dire ‘i comunicandi’, giocando tra comunione e comunicazione), nessuno è in grado di ascoltare, di capire il prossimo, meno che mai di aiutarlo. Con la morte della moglie Tomas ha perso l’unico motivo per cui viveva, e come adesso non riesce a trovarlo in Dio, così non riesce a darlo agli altri; ai dubbi dei fedeli aggiunge i suoi, il suo Dio ‘privato’, che evidentemente vive in un mondo diverso dalla realtà non risponde né a lui né per lui: “Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Non è l’esistenza o meno d’un Dio che lo tormenta, ma il suo silenzio.
La morte di Jonas rischia di tramutare in certezze i suoi dubbi: l’inutilità del vivere umano, la sua incapacità di aiutare gli altri. L’illuminazione giunge inaspettata, mentre ascolta controvoglia le parole del sagrestano, le ennesime d’una giornata di auto-distruzione; Gesù, uomo, ha sofferto le sue stesse pene quando, abbandonato anche dagli apostoli, morente, si ribella al silenzio di Dio: le sue parole sono quelle di Tomas, è uguale il dubbio, identica la passione.
Tra la prima e l’ultima sequenza qualcosa nel pastore è cambiato, la sua stanca fede ereditata non c’è più: se al suo posto ve ne sia una rinnovata, finalmente consapevole, o l’altrettanto appagante coscienza del nulla, non viene detto. Ogni interpretazione è lasciata allo spettatore, Bergman si guarda bene dal prendere una posizione; il dubbio esiste, a disposizione di tutti: ognuno cerchi la propria risposta.
L’equivalenza tra le due possibilità è accentuata dalla fotografia, di Sven Nykvist: il cielo è perennemente coperto da una coltre compatta di nuvole e nebbia, eppure i volti dei personaggi sono sempre illuminati; né il pallido sole nordico, né il silenzio divino sembrerebbero in grado di superare l’ostacolo di nuvole e disincanto. Se Bergman si sbilancia un momento e lascia intravedere il proprio punto di vista, è durante la prima messa: “lodiamo il signore”, dice Tomas. Subito, l’inquadratura cade sul vino e le ostie, quindi sul crocifisso: dei simboli materiali d’un concetto inesplicabile, un simulacro incapace di comunicare. È questo, Dio.

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I sentimenti sono il fondamento della nostra mente. Damasio

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