Persona

Svezia, 1967
di Ingmar Bergman, con Bibi Andersson, Liv Ulmann, Margaretha Krook, Gunnar Björnstrand

La pellicola scorre nel proiettore. Le immagini accelerate di un film muto si alternano ai richiami simbolici di un agnello sacrificato e di un chiodo impresso nel palmo di una mano; un bambino si risveglia nel lenzuolo, in una stanza bianchissima guarnita solo di un letto, appoggia la sua mano su uno schermo che riproduce il volto di una donna, Alma, l’infermiera le cui fattezze gradualmente trasmutano in quelle della paziente Elisabeth Voegler.
L’incipit di Bergman è innanzitutto una raccomandazione di matrice Brechtiana. La messa in quadro del dispositivo tecnico suggerisce che ciò a cui stiamo per assistere è un film. Ma da questa serie di immagini subliminali che si rincorrono e si accavallano si evince anche la presenza di altre due chiavi di analisi attraverso le quali leggere un film complesso, sebbene giocato sulla riduzione massima dei codici linguistici, sostanziata nella spogliazione degli elementi superflui.
Per cui si hanno due personaggi, una sola situazione e due soli ambienti: dopo la sequenza iniziale nella clinica in cui Elisabeth è ricoverata, la vicenda si svolge interamente in un’isola pressoché disabitata. Quest’ultima scelta testimonia il legame strettissimo che questo film ebbe nella parallela esistenza del regista svedese che proprio in concomitanza con la scrittura di Persona, scelse di ritirarsi nell’isola di Faro.
Le due chiavi di lettura sono quella spirituale e quella psicanalitica, a cui, ovviamente, va aggiunta la riflessione corposa sul mezzo cinematografico, sulle sue possibilità e sulle sue velleità.
I tre approcci, pur distinguendosi, inspessiscono il film della loro interdipendenza. Persona è un film che lavora dentro l’animo umano, nelle sue tensioni, nei suoi più remoti recessi. Bergman mostra il dispositivo del cinema, il suo “dentro”, proprio perché intende parlarci del “dentro” di un individuo, dei suoi strati profondi, della sua psiche scissa.
La tematica spirituale risulta meno evidente di quella psichiatrica ma si riallaccia ad essa, ne costituisce il prolungamento, l’ombra metafisica che riecheggia gli snodi fondamentali delle angoscie Bergmaniane fino a Il Silenzio. Qui ad essere muta è Elisabeth, capace solo di proferire suoni in quanto reazioni istintuali o per pronunciare la parola “nulla”; e il suo mutismo,il suo rifiuto dell’amore del proprio figlio, è assimilabile a quello di Dio verso il genere umano, proteso verso l’immagine divina, e speranzoso di un contatto che non arriva mai, così come il bambino all’inizio del film vanamente ricerca una congiunzione con la madre che però è solo immagine: irraggiungibile, irreale, una semplice proiezione di un desiderio irrealizzabile.
Un punto di vista solenne perché afferma e nega l’esistenza di Dio, la cui messa in dubbio è, per l’animo, una sosta necessaria nel suo itinerario di accrescimento e di presa di coscienza di sé. Il conflitto tra credenza e ateismo, uno dei fulcri della dialettica di Bergman come uomo e artista viene enunciato dalla lettura, sulla spiaggia, del brano di un libro che Alma sta leggendo: “L’ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l’angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede e del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della solitudine e della costante paura che ci possiede”.
Queste parole sono rifiutate da Alma e approvate da Elisabeth, ma si infilano come un coltello nell’inconscio della prima, sollecitando i sintomi della sua crisi latente.
Prima di procedere è necessario ricordare l’assunto basilare di Persona, il nucleo semantico e narrativo che, a seguito di una progressione psichica e linguistica, avrà il suo punto di approdo nella sovrapposizione dei volti delle due donne che, in un primissimo piano, si dissolvono l’uno nell’altro fino all’assemblazione di un viso composto dalla metà di quello di Alma e dalla metà di quello di Elisabeth. Bergman, dunque, non elabora la drammaturgia di due personaggi separati, ma si pone in due prospettive psicologiche della stessa persona che producono un continuo gravoso dislivello e una serie di dicotomie: artista/essere umano; maschera/persona; essere/sembrare; Io cosciente/inconscio.
L’identificazione Alma/Elisabeth trasforma dunque il colloquio ( in realtà inesistente, visto il mutismo ribelle di Elisabeth) in un soliloquio, in un autoesorcismo che attraverso l’espiazione vuole giungere al superamento di un nodo critico e cruciale; al dramma interiore di una sola persona, alla manifestazione di uno stato d’ansia vissuto dallo stesso Bergman, che, ipotesi non illogica, può essere considerato il protagonista invisibile del film. Quindi il livello metacinematografico si combina con quello autobiografico, in un’intensa analisi intrasoggettiva carica di duplicità, di dubbio, e di fratture.
“Frattura” è una parola chiave in Persona. Essa si manifesta allo spasimo dopo il trauma di Alma susseguente alla lettura della lettera, in cui Elisabeth comunica alla dottoressa che la sua infermiera è un ottimo soggetto da studiare. E’ il momento in cui Bergman interrompe il racconto con la serie di immagini metacinematografiche. La pellicola si squarcia nel mezzo, specchio del rapporto asimmetrico delle due donne, ovvero della discrepanza tra due livelli dell’Io in uno stesso individuo.
La scoperta della lettera ha vìolato il regime d’armonia e Alma accusa violentemente Elisabeth di averle fatto rivelare aspetti privati mai confessati, di averglieli fatti approfondire solo per spiarla, per sfruttarne le debolezze. Il plausibile rimando al turbamento bergmaniano tra uomo e artista permette un ulteriore aggiustamento di mira a queste parole: Il lato umano accusa quello artistico di una dolorosa speculazione.
Il film entra nella fase decisiva ed è quindi tale frattura ad introdurla, come necessario punto di svolta per uno squilibrio altrimenti irrimediabile.
Il film drammatizza lo stato di smarrimento, mescolando sogno e realtà immaginata fino al punto di mettere in questione l’unita dell’Io; il rapporto tende ad assumere il carattere di una duplicazione che avviene attraverso uno scambio, un transfert.
Essenziale in tale senso è la sequenza dell’apparizione del marito dell’attrice, presenza impalpabile perché evocata, ma non riconducibile con precisione né all’una né all’altra donna.
Si tratta, forse, di una proiezione di Alma che rende corporeo il suo desiderio di essere Elisabeth, di trasformarsi in lei; ma potrebbe anche essere una materializzazione dell’autopunizione di Elisabeth, inflitta attraverso la volontaria apatia e la scelta del silenzio come sistema di vita: “Io sono gelida e corrotta, in me trovi solo menzogna e inganno” afferma la voce di Elisabeth all’uomo, ma è la proiezione di Alma ad abbracciarlo. Le due donne sono indistinguibili ormai: non si sa più che è la malata, chi la moglie, chi l’infermiera e chi la fautrice dell’incentivazione della visione.
Il motivo alla base del ricovero di Elisabeth è il conflitto dell’attore tra essere e sembrare; un dissidio che dà adito ad angoscia e paura e che supera i confini del dissidio ontologico della professione attoriale tra essere umano e personaggio per giungere a quello tra persona e maschera in un individuo.
La diagnosi della dottoressa è tanto didascalica quanto esplicativa: “…Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento.Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità…”
La vacanza sull’isola è il compromesso narrativo per attivare un trattamento terapeutico tra L’Io cosciente, Elisabeth e l’inconscio, Alma la cui energia, sepolta da qualche parte, si libera dai freni e viene liberamente a galla esternando un’afflizione sempre tenuta nascosta.
La sequenza della sovrapposizione dei primi piani e del monologo di Alma, infatti, marca l’oggettivazione di uno stato inconscio comune ad entrambe in riferimento al tema della maternità e del figlio.
Ambedue hanno messo in atto un brutale rifiuto del bambino: Alma mediante la scelta dell’aborto; Elisabeth rigettando l’amore di suo figlio tramite un testardo comportamento indifferente e il desiderio segreto che nascesse morto.
La maternità per Elisabeth significa ribrezzo per il proprio corpo che si deforma, paura di morire, del dolore, della responsabilità, di lasciare il teatro.
Il monologo di Alma è destinato a restaurare la verità sulle colpe di Elisabeth quando parla in terza persona, ma quando l’infermiera usa la prima persona, esso assurge a statuto d’accusa verso se stessa, che ella riesce finalmente ad effettuare solamente attribuendo all’altra la colpa dell’uccisione del bambino. Il diniego come difesa prende la forma della proiezione: si vede nell’altra ma si rifiuta di riconoscere il tratto comune; ma è proprio tale tratto comune a stabilire definitivamente l’unità e l’identità, approdando appunto nella fusione dei due volti.
Come si colloca l’immagine del bambino in tutto questo? Il piccolo è il tema ossessivo dominante ma rimosso che vaga nel subconscio. Egli si muove nella dimensione soggettiva dell’Io scisso, drammatizzato dalle due donne ed ha perciò uno carattere incerto, possiede la vita caduca dell’immagine, ed è un’altra immagine, quella materna, che egli riesce solo a vedere ma non a catturare.
Questa incapacità di andare oltre la visione, di essere solo immaginario, testimonia la sua incapacità di raggiungere la realtà: il bambino è il figlio rinnegato e rimosso al centro della discussione; ma anche il centro segreto e recluso del film. Il reale non può essere posseduto che attraverso il tatto e non con la vista. Bergman capisce e confessa il carattere ingannatore ed illusorio delle immagini e del cinema. Il controcampo in cui il bambino tocca l’obbiettivo della macchina da presa indica che noi spettatori siamo separati da lui così come lo sono le madri che lo hanno ripudiato e che sfuggono al suo abbraccio.
Il bambino che Alma non osa nemmeno menzionare è assente dal racconto, è stato soppresso diegeticamente. La sua unica possibilità di esistenza è all’interno del dispositivo, prigioniero di un flash subliminale, dove, tuttavia, continua ad operare come elemento generatore di una feroce frustrazione.

http://www.offscreen.it/cult/persona.htm



La maschera del sé riflesso in Persona di Ingmar Bergman

Liv Ullmann in Persona (1966)

Liv Ullmann in Persona (1966)

di ANTONELLA PIERANGELI

La pellicola s’addentra nel proiettore, mentre immagini accelerate di un film muto si alternano ai richiami orrorifici di un agnello sgozzato e di un chiodo impresso a forza nel palmo di una mano. Un bambino, in una stanza bianchissima con un solo letto, appoggia la mano su uno schermo in cui si materializza il volto di una donna, Alma, l’infermiera, le cui fattezze gradualmente trasmutano in quelle della paziente, Elisabeth Voegler.L’incipit di Persona è un’lluminazione di matrice brechtiana. La messa in quadro del dispositivo tecnico suggerisce che ciò a cui stiamo per assistere è un film. Ma questa serie di immagini subliminali che si rincorrono e si accavallano, sono soltanto la sostanziata anticipazione di un film complesso, roccioso, tutto costruito e realizzato nella spoliazione degli elementi superflui.

Due i personaggi, una sola la situazione e due soli gli ambienti. Dopo la sequenza iniziale, nella clinica in cui Elisabeth è ricoverata, la vicenda si svolge interamente in un’isola pressoché disabitata (la stupenda e desolata Fårö,  ritiro superbo e malinconico del regista, che in parallelo con le riprese scelse di viverci per sempre).

Nella grigia luce di Persona, Bergman scarnifica il dispositivo del cinema, ci mostra il suo “dentro”, proprio perché intende parlarci del “dentro” di un individuo, dei suoi strati profondi, della sua psiche scissa. Ci parla della sua ansia di separazione dal mondo, inscenando un dramma scarno, di una bellezza metafisica che lavora dentro l’animo umano, nelle sue tensioni, nei suoi più remoti recessi. Il suo Sé riflesso si annida nella trasmutazione di un personaggio nell’altro, di un volto nell’altro, in un gioco di doppia lettura spirituale e psichiatrica. Tuttavia, mentre la tematica spirituale nell’orchestrazione narrativa risulta meno evidente di quella psichiatrica, nel profondo del suo snodarsi si riallaccia ad essa, ne costituisce il prolungamento, l’ombra metafisica che riecheggia gli snodi fondamentali delle angosce bergmaniane fino a Il Silenzio.

In Persona ad essere muta è Elisabeth, capace solo di proferire suoni in quanto reazioni di puro istinto o per pronunciare la parola “nulla” (e il suo mutismo, il suo rifiuto dell’amore del proprio figlio, è assimilabile a quello di Dio verso il genere umano), come il bambino della sequenza iniziale ricerca una congiunzione con la madre che invece è solo un’immagine: infinitamente irreale, una semplice proiezione di un desiderio irrealizzabile perché irraggiungibile è il suo oggetto.

Un silenzio solenne perché afferma e nega l’esistenza di Dio, la cui messa in dubbio è, per l’animo umano, una stasi necessaria al suo itinerario di presa di coscienza di sé. Il silenzio di Dio e l’incapacità dell’uomo ad avere certezze sulla sua esistenza, uno dei fulcri della dialettica di Bergman come uomo e artista, vengono enunciati dalla lettura, sulla spiaggia, del brano di un libro che Alma sta leggendo: “L’ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l’angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede e del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della solitudine e della costante paura che ci possiede”.

Queste parole sono rifiutate da Alma e approvate da Elisabeth, ma s’incastrano con violenza nell’inconscio della prima, sollecitando i sintomi della sua crisi latente. L’io è ignoto a se stesso e il meccanismo di individuazione è inconsapevole, non servono maschere e finzioni perché è il fondamento stesso dell’essere che viene meno: il singolo frana e si perde.

I volti-maschera delle due donne, infatti, passano repentinamente da volto primo-piano intensivo a volto primo-piano riflessivo ogni volta che i tratti sfuggono al contorno, si mettono a lavorare per conto loro e formano una serie autonoma di espressioni che tende verso un limite e varca una soglia. Siamo dunque davanti a un volto cangiante, doppio, che si esprime soltanto “figurativamente”, sotto il dominio di un pensiero fisso o tremendo, ma inalterabile e senza divenire, in qualche modo eterno. Ecco il motivo per cui Persona è irreparabilmente maschera, insieme velamento e svelamento del singolo.  Ma certamente non basta, attraverso il volto primo-piano, Bergman porta l’attenzione sull’immagine-affezione, fa in modo che l’immagine divenga tracimazione di tempo e spazio: “brucia l’icona”. Il volto dunque è muto e raramente ha occhi; in altre parole non è importante che si riferisca all’Altro: guarda la cinepresa che diventa uno specchio. Lo stesso Deleuze osserva che non è importante stabilire se in Persona si tratti di due personaggi distinti o di uno solo che si sdoppia; non si recupera il senso del film ricostruendo l’ambigua relazione che si instaura tra Alma ed Elisabeth ma, lo si rintraccia piuttosto, di nuovo e sempre, nei fotogrammi e nell’inquadratura che cambia, si amplifica nel volto senza interrompere bruscamente la sequenza del film. Più che di interruzioni si potrebbe parlare di una vera e propria opera di “violenza fisica” sulla pellicola che viene tagliata, strappata, bruciata e fatta risorgere come se nulla fosse accaduto. Lo sfondo quasi scompare per lasciare il posto allo spazio neutro da cui emerge il volto primo-piano. Lo specchiarsi nella cinepresa di Elisabeth e Alma dà l’idea di come il volto sia per Bergman “pars pro toto”; sineddoche del disfacimento del singolo,  verità del volto che sta dunque nel suo passare, che è già un “non è più” e contemporaneamente un “non ancora”.

Il carattere di sospensione del volto non comporta la mancanza di individuazione ma semplicemente l’istantaneità dell’apparizione: in Persona il grido di dolore del singolo è stretto nella morsa del silenzio, per questo è più incisivo. Il prender fuoco di alcuni fotogrammi è da intendersi metaforicamente come un irrefrenabile desiderio di annientamento esistenziale. Non ci si chiede più se Dio possa o debba assistere alle vicende umane, perché Dio ormai è scomparso; è scomparso per lasciare il posto alla preminenza del volto.

Assistiamo inermi, paralizzati alla desertificazione di personaggi immobili, lo sguardo lontano dalla cinepresa. Tutti gli elementi della scena hanno per così dire necessità di un sfondo-significato nel quale situarsi, siano essi i personaggi, una finestra chiusa, una luce bassa, un’ombra. La riflessione non è più un atto conoscitivo individuale ma risulta essere esito di una nuova consapevolezza. La frontalità del volto non ha bisogno di altro e dell’Altro. Il volto stesso diviene soglia e al tempo stesso limite invalicabile. La soglia rappresentava un’apertura verso l’Altro-da-sé e permaneva sempre in esso. Ora il limite è nel volto stesso che immobile passa, e dunque Dio forse viene meno “attraverso” il volto, dissolvendosi nel fondo bianco.

Per proseguire ci serviremo del coraggio di Alma che dice: “Tutta questa angoscia che ci portiamo appresso, i nostri sogni traditi, la crudeltà inspiegabile, l’angoscia di estinguerci, il doloroso renderci conto delle nostre condizioni terrene hanno lentamente cristallizzato la nostra speranza in una salvezza ultra-terrena”. La speranza in un mondo che non sia questo non esiste più. La sovrapposizione delle due donne è da considerarsi come la visibilità del neutro, lo sdoppiamento esalta la direzionalità dello sguardo. Il bianco e nero accecante dentro cui affonda l’intero film è il colore dell’interiorità, la frantumazione dell’individuo è conseguenza della completa smaterializzazione di qualsiasi fondamento: del fuoco dei fotogrammi di Persona qui rimane solo la cenere. Il singolo precipita e viene assorbito dallo sfondo.

Scarnificare il silenzio della psiche:  è dunque questo l’assunto basilare di Persona, il nucleo semantico e narrativo che, a seguito di una dolorosa progressione psichica e semiotica, avrà il suo punto di approdo nella sovrapposizione dei volti delle due donne che, in un primissimo piano, si dissolvono l’uno nell’altro fino all’assemblaggio di un viso composto dalla metà di quello di Alma e dalla metà di quello di Elisabeth.

Bergman, dunque, non elabora la drammaturgia di due personaggi separati, ma si pone in due prospettive psicologiche della stessa persona che producono un continuo gravoso dislivello e una serie di dicotomie: artista/essere umano; maschera/persona; essere/sembrare; Io cosciente/inconscio. L’identificazione Alma/Elisabeth trasforma dunque il colloquio (in realtà inesistente, visto il mutismo ribelle di Elisabeth) in un soliloquio, in un autoesorcismo che attraverso l’espiazione vuole giungere al superamento di un nodo critico e cruciale: il dramma interiore di una sola persona, la manifestazione di uno stato d’ansia vissuto dallo stesso Bergman, che, ipotesi non illogica, può essere considerato il protagonista invisibile del film. Quindi il livello metacinematografico si combina con quello autobiografico, in un’intensa analisi intrasoggettiva carica di duplicità, di dubbio, e di fratture.

“Frattura” è ancora una volta parola chiave in Bergman. Essa si manifesta allo spasimo dopo il trauma di Alma susseguente alla lettura della lettera in cui Elisabeth comunica alla dottoressa che la sua infermiera è un ottimo soggetto da studiare. E’ il momento in cui Bergman interrompe il racconto con una serie di immagini metacinematografiche. La pellicola si squarcia nel mezzo, specchio del rapporto asimmetrico delle due donne, ovvero della discrepanza tra due livelli dell’Io in uno stesso individuo. La scoperta della lettera ha violato il regime d’armonia e Alma accusa violentemente Elisabeth di averle fatto rivelare aspetti privati mai confessati, di averglieli fatti approfondire solo per spiarla, per sfruttarne le debolezze. Il film entra allora nella fase decisiva ed è quindi tale frattura ad introdurla, come necessario punto di svolta per uno squilibrio altrimenti irrimediabile. Drammatizzando lo stato di smarrimento, mescolando sogno e realtà immaginata fino al punto di mettere in questione l’unità dell’Io, il rapporto tende ad assumere il carattere di una duplicazione che avviene attraverso uno scambio, un transfert. Un “vomito” psichico.

Essenziale in tale senso è la sequenza dell’apparizione del marito dell’attrice, presenza impalpabile perché evocata, ma non riconducibile con precisione né all’una né all’altra donna. Si tratta, forse, di una proiezione di Alma che rende corporeo il suo desiderio di essere Elisabeth, di trasformarsi in lei ma nello stesso tempo materializzazione dell’autopunizione di Elisabeth, inflitta attraverso la volontaria apatia e la scelta del silenzio come sistema di vita: “Io sono gelida e corrotta, in me trovi solo menzogna e inganno”, afferma la voce di Elisabeth all’uomo, ma è la proiezione di Alma ad abbracciarlo. Le due donne sono indistinguibili ormai: non si sa più chi è la paziente, chi la moglie, chi l’infermiera e chi l’autrice della visione. Lo stesso  motivo alla base del ricovero di Elisabeth è il conflitto dell’attore tra essere e sembrare, che supera i confini del dissidio ontologico della professione attoriale tra essere umano e personaggio per giungere a quello tra persona e maschera. La diagnosi della dottoressa è tanto didascalica quanto esplicativa: “…Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità…”

La vacanza sull’isola è il compromesso narrativo per attivare un trattamento terapeutico tra l’Io cosciente, Elisabeth e l’inconscio mentre Alma, la cui energia è sepolta da qualche parte, si libera dai freni e viene liberamente a galla esternando un’afflizione sempre tenuta nascosta. La sequenza del monologo di Alma, infatti, marca l’oggettivazione di uno stato inconscio comune ad entrambe in riferimento al tema della maternità e del figlio. Ambedue hanno messo in atto un brutale rifiuto del bambino: Alma mediante la scelta dell’aborto, Elisabeth rigettando l’amore di suo figlio tramite un comportamento indifferente e il desiderio segreto che nascesse morto. La maternità per Elisabeth significa ribrezzo per il proprio corpo che si deforma, paura di morire, del dolore, della responsabilità, di lasciare il teatro. Il monologo di Alma è dunque destinato a restaurare la verità sulle colpe di Elisabeth quando parla in terza persona, ma quando l’infermiera usa la prima persona, esso assurge a statuto d’accusa verso se stessa, che ella riesce finalmente ad effettuare solamente attribuendo all’altra la colpa dell’uccisione del bambino. La negazione come difesa prende allora la forma della proiezione: si vede nell’altra tuttavia rifiutandosi di riconoscerne il tratto comune; ma è proprio tale tratto comune a stabilire definitivamente l’unità e l’identità, approdando appunto nella fusione dei due volti.

Come si colloca l’immagine del bambino in tutto questo? E’ semplicemente il tema ossessivo dominante ma rimosso che vaga nel subconscio. Egli si muove nella dimensione soggettiva dell’Io scisso e del Sé riflesso, drammatizzato dalle due donne. Questa incapacità di andare oltre la visione, di essere solo immaginario, testimonia la sua impossibilità ad incarnarsi nel reale: il bambino è il figlio rinnegato e rimosso al centro della discussione, ma anche il centro segreto e recluso della frustrazione e della nevrosi. E’ una realtà corporea mai raggiunta nella psiche. E’ il rifiuto della “propagazione” del Sé. E’ la sconfitta. E’ quel reale che non può essere posseduto dai nostri sensi: Bergman lo capisce e ne soffre, confessa il carattere illusorio delle immagini e del cinema, l’unico vero Sé riflesso, irreale e ingannatore.

L’estrema possibilità di esistenza in vita, di resistenza al silenzio della psiche da parte dell’artista come creatore è all’interno del dispositivo cinematografico, prigioniero di un flash subliminale, in cui, tuttavia, egli continua ad operare come elemento generatore e disgregante di una feroce disputa con la propria doppiezza.

 

http://criticaimpura.wordpress.com/2011/02/06/la-maschera-del-se-riflesso-in-persona-di-ingmar-bergman/

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.