Hamnstad (Città portuale) 1948 – Persona (1966)

 

Hamnstad (Città portuale) > Ingmar Bergman

Hamnstad (Città portuale/Città nella nebbia)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1948)
recensione a cura di Leonardo Persia

Dopo i film acquei per la Sveriges Folkbiografer (Piove sul nostro amore, La terra del desiderio), opere sul viaggio come stato dell’essere, Bergman arriva, per stabilizzarsi, a Città portuale (titolo originale) o Città della nebbia (titolo italiano), che segna il ritorno alla Svensk Filmindustri di Crisi.

Entrambi i titoli della pellicola, su soggetto (romanzo) di Olle Lansberg, esprimono un sentimento liquido persistente, si tratti dell’acqua sospesa e condensata della nebbia oppure della struttura posta sul litorale del porto. La nebbia simbolica è quella afferente alla zona profonda e non del tutto a fuoco della psiche. Patina e oscurità, problemi che continuano a essere insolubili. È lo stato brumoso della coppia di amanti protagonisti del film, Berit e Gösta (Nine-Christine Jonsson e Bengt Eklund), il cui passato oscuro e indelebile, costituisce un (re)iterato motivo di sofferenza.

Ma in Bergman il negativo è positivo, così non solo i due si incontrano per via del tentato suicidio della donna al porto, ma è l’approdo-sfida (piuttosto che la fuga inquieta dei vecchi film) a definire l’opera, punto fermo della coppia proletaria, decisa a non lasciarsi travolgere dal disegno scritto della loro esistenza, fino ad allora viaggio perpetuo nella delusione e nel vuoto. «Se vai per mare vedi tante di quelle cose, ma hai sempre la sensazione che stai perdendo qualcosa». Lo dice Gösta, ma potrebbe essere anche il punto di vista di Bergman su una possibile scelta stilistica del suo cinema.

Il regista ricordava il film come quello in cui ebbe modo di sperimentare e apprendere definitivamente la tecnica, in un momento in cui, dopo tanti esercizi estetici più o meno provvisori, il giovane autore auspicava per sé un risultato stilistico definitivo. La vicenda dei due ragazzi adombra un dato autobiografico traslato, una volontà dei personaggi e del cineasta ancora più scoperto che altrove e forse, proprio per questo, meno ispirato e sincero.

Il dato artificioso si coglie nel soggetto in questione, che riprende, nel tentativo di migliorarla, una narrazione assai simile a quella de La terra del desiderio, l’opera primissima fase di cui, fino a quel momento, Bergman era rimasto maggiormente soddisfatto. Come rifacitura ufficiosa di quell’opera, il lavoro svela per primo il gusto del cineasta per la serializzazione, o per la ripresa di situazioni e personaggi, un work in progress di battute e di contesti, su cui poco si è riflettuto.

L’eccentrico autobiografismo si coglie nell’età del protagonista, più o meno la stessa del regista (classe 1918), che lui urla disperato a una prostituta, dopo aver lasciato Berit: «Lo sai quanti anni ho? Ventinove: non ci si crede, eh? Anch’io non riesco a crederci». In quanto al periodo di tempo passato per mare, Gösta riapproda in città otto anni dopo, un anno in più rispetto al protagonista dell’altra pellicola (venuto pure dall’India). Si vuole alludere probabilmente all’anno intercorso tra questo e il precedente film.

Il conflitto del vecchio personaggio con il papà diventa adesso scontro con la mamma da parte della ragazza di cui si l’uomo si innamora. Entrambi i personaggi schiaffeggiano, rispettivamente, padre o madre, genitori rivali che hanno riservato ai figli l’odio per loro stessi. Vi si coglie il risentimento edipico dell’autore, costante esistenziale e del suo cinema.

Non a caso, la scena più bella è un flashback di Berit da piccola, costretta ad assistere alle liti dei genitori. Si sveglia, li osserva, rimane attonita. Il papà la prende in braccio ma la madre cerca di strappargliela via. I due continuano a darsele, ognuno rivendicando per sé la bambina strattonata e stretta tra i due corpi. Quando la poverina riesce a fuggire e nascondersi sotto il letto, abbracciando una bambola (il rifugio bergmaniano nella finzione), ecco la madre pronta a trascinarla per i piedi, buttandole via il giocattolo e mettendosela in braccio, in una violenta ed egoistica simulazione di affetto, ripicca algida nei confronti del marito.

I maschi, nel film, sono deboli, sfuocati, pavidi e insicuri, privi di spessore e personalità, persino da un punto di vista drammaturgico. Sono pettegoli e vuoti, si consideri l’accoglienza che, da un tavolo da gioco, fanno al protagonista appena sbarcato. Il personaggio più interessante è l’amico incupito e deluso di Gosta, una caverna profonda di frustrazione e di isolamento dal mondo (dall’altro sesso), a cui giova probabilmente il rapido accenno riservatogli dallo script. Mantiene un tono misterioso ed economo, che ne esalta il ritratto. Anche nei film precedenti, soprattutto con le coppie, Bergman si era rivelato un maestro nel tratteggiare psicologie cupe e disperate en passant, quasi sempre più riuscite di quelle dei personaggi principali, evidentemente inficiati da residui letterari manieristici.

Nei tratti di quest’uomo si ravvisa ancora l’ambiguità produttiva dei personaggi negativi bergmaniani. È lui, con le sue contraddizioni, a spingere il protagonista, ancora indeciso, tra le braccia dell’amata («Va sempre tutto a rotoli, è tutto orribile. Sempre e solo egoismo» – «Non c’è nulla che non possa durare?» – «Non chiederlo a me» – «E allora a chi?» – «Idiota! Chiedilo alla tua ragazza. Se hai bisogno di stringere una mano, allora stringi la sua. Nessun altro si offre volontario».)

La centralità del personaggio di Berit attesta una volontà dell’autore di soffermarsi sulle figure femminili La ragazza è la vittima sacrificale di una genitrice dura e bigotta, che la precipita in un calvario di assistenti sociali e case di correzione (a gestione femminile), aggravato dalla presenza di altre virago, madri dei fugaci fidanzati della donna, i maschi mosci di cui sopra. La psiche femminile è perlustrata nelle opposte ma complementari sfumature di vittima e carnefice, di sottomissione e alienazione (le scene al riformatorio, tra fumo e droghe), di durezza indotta e di aridità sentimentale.

L’aspetto simbolico dell’acqua condensata definisce pure questo aspetto di involuzione e non sbocco della personalità, un elemento che meritava un maggiore approfondimento, ma che riesce ad essere persuasivo per l’abilità dell’autore nel tratteggiare rapidamente le figure minime e minori di cui si è detto. Sintetiche e affilate le scene di mistificazione religiosa al correzionale. Ma un personaggio come Gertrud, destinata a morire per un aborto clandestino, è una concessione a un cinema di denuncia che non appartiene al regista.

Deciso a fermarsi in uno stile proprio, ma ancora indeciso su quale debba essere questo stile, Bergman spinge adesso il pedale sul dato sociale mutuato dal neorealismo affermatosi anche fuori dai confini italici. Un Rossellini di superficie è il suo modello. Sperimenta la carta degli esterni e interni autentici, porto e cantieri, fabbriche e balere, una sala cinematografica e le stanze occupate dagli operai. La colata nera che caratterizza la bella fotografia di Gunnar Fischer e il dominio armonico della tecnica non bastano. È il debito con il solito realismo poetico di Marcel Carné, e la sostanziale estraneità all’aspetto sociologico delle cose (vedi pure i successivi La vergogna e L’uovo del serpente) a togliere aria all’opera.

Di certo il regista si trova a un bivio, proprio come i due amanti nel finale di Piove sul nostro amore. Ha raggiunto la “felicità” della propria vocazione e tuttavia ne è spaventato. Si legga in tal senso la battuta di Berit: «Penso che sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Ora che so che cos’è la felicità, la vita non potrà che peggiorare».

Il film va preso quindi come programma d’intenti. Vale come ricapitolazione e per l’idea di approdo che ne è alla base. Segna la fine di un incerto quanto promettente (e non privo di pregio) periodo di prove stilistiche. Il film successivo è quello che sancisce, per la critica e lo stesso regista, la nascita di un autore. Prigione sarà indicato come la sua prima opera davvero personale, il primo compiuto tentativo di costruire un proprio mondo delle idee.

Leonardo Persia

http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=19843

 

Bergman e Persona

Nell’intervallo di tempo che va dal 1956 al 1963 Ingmar Bergman diviene una delle colonne portanti del cinema mondiale in virtù delle sue immagini fortemente simboliche, pregne di modernismo, dei suoi contenuti saturi di religione e psicologia, del suo bisogno di trasfigurare in immagini i propri disagi personali. Sono in questi anni che la “persona” del regista svedese comincia a formarsi pienamente, i suoi tratti distintivi si elevano all’ennesima potenza attraverso l’esistenzialismo de “Il settimo sigillo”, l’autobiografia de “Il posto delle fragole”, al tema del viaggio e della fede ne “La fontana della vergine”, fino alla trilogia del silenzio costituita dai film “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” e “Il silenzio”. Proprio in questo periodo che vede la Weltanschauung del regista raggiungere l’acme di una lunga carriera, la sua fragilità emotiva si incrina pericolosamente in concomitanza dell’insuccesso commerciale di “A proposito di tutte queste… signore”. La decade d’oro si interrompe bruscamente anche per la critica che comincia a giudicare il suo operato ridondante ed egli, di riflesso, precipita in una profonda depressione psichica. Malattia che lo porta a rinchiudersi nella solitudine e nell’abulia più totale sino a quando nel 1965 (ri)prende vita un nuovo progetto. L’importanza di un film come “Persona” nasce da qua, dal bisogno interiore di imprimere in pellicola i sentimenti di un uomo distrutto che trova nel cinema quell’azione salvifica in grado di risollevarlo, dal bisogno di esprimere (ancora una volta) il senso dell’isolamento e la caducità del genere umano. Più semplicemente, dal bisogno di comunicare i suoi (nostri) problemi. “L’ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l’angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della nostra condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede, del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede”. In queste parole che la giovane infermiera Alma legge all’attrice/paziente Elisabeth, è racchiusa tutta l’essenza del cinema bergmaniano.

Persona e Persona

Ma l’idea che porta alla nascita di “Persona” è anche un’altra, ossia quella di dedicare un film al mondo attoriale, in particolar modo femminile, che sia contenitore di sogni, visioni e riflessioni sulla condizione dell’artista (è proprio Alma a confermarlo ad Elisabeth “Io provo una grande ammirazione per gli artisti, credo che l’arte di recitare abbia enorme importanza nella vita, specialmente per chi non sa superare da solo le sue difficoltà”), non a caso il film si incentra sull’improvviso mutismo di un’attrice, Elisabeth Vogler, avvenuto nel bel mezzo della rappresentazione dell’Elettra e affidata alle cure della giovane inserviente Alma. Proprio il nome dell’opera teatrale introduce lo spettatore in una delle chiavi di lettura più manifeste all’interno del film, la psicoanalisi (si pensi anche solo al titolo del film, “Persona” deriva dal latino e significa maschera, personaggio). La sequenza nella quale i volti delle due donne finiscono per confondersi l’uno con l’altro rientra nel conflitto tra l’essere e il sembrare profetizzato dalla dottoressa ad Elisabeth e di chiara impronta junghiana (“Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere […] Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”), pensiero che sarà recepito anche dalla giovane Alma (“E’ tanto importante non mentire, dire la verità, avere accenti sinceri? […] Mi chiedo se la tua pazzia non sia la peggiore di tutte. Tu reciti la parte della persona sana. E lo fai tanto bene che tutti ti credono. Tutti tranne me”).

Anche la religione rientra prepotentemente tra le chiavi di lettura del film, né può essere altrimenti in un film bergmaniano che si rispetti. Oltre alle criptiche e subliminali immagini di apertura che ritraggono la famigerata mano inchiodata, l’agnello sgozzato e il ragno nero (ritorna alla mente “Come in uno specchio” nel quale Dio appare proprio nelle sembianze di un aracnide) il messaggio più importante è legato alla figura femminile di Alma (anima), anello di congiunzione, e anzi, incarnazione a tutti gli effetti del finale de “Il silenzio”, quando il piccolo Johan legge sul treno la parola “hadjak” (anima, appunto); la fede è vista come il percorso spirituale che Alma intraprende alla scoperta di sé, tra paure, confessioni e sensi di colpa. In questo senso “Persona” ribadisce ancora una volta (e più di prima) l’angoscia del nostro tempo per la solitudine e per le paure incontrate nel cammino, foriere di un’alienazione e di un’incomunicabilità tali da portare a quell’esasperazione che neanche la fede più audace ha la possibilità di spiegare. Come spiegare infatti alla povera Elisabeth il perché di un gesto così estremo come quello sostenuto da un monaco buddista che si dà fuoco durante la guerra in Vietnam? Come spiegare a sé stessa quella foto nella quale è ritratto il suo unico figlio, non voluto e rinnegato, ancora tra le grinfie della guerra nazista?

Il cinema e Persona

Ma di “Persona” colpiscono altresì la propedeuticità delle immagini e la sua estetica. “La sola cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film”, ecco spiegato perché il titolo doveva assumere in un primo momento la denominazione di “Cinematografo”. Proprio come i primi dettagli che Bergman offre allo spettatore, ossia un proiettore che viene acceso, la pellicola che scorre. L’intero prologo di “Persona” è un inno alla storia del cinema, finanche un compendio di sperimentalismo che sfocia nel subliminale (il pene eretto), in sovraesposizioni, in un simbolismo fortemente emotivo che richiama l’inconscio collettivo junghiano (di cui sopra). L’evoluzione sonora che accompagna le immagini in modo ipnotico e netto, fino alle visioni fortemente traumatiche, è così fluida e tagliente da richiamare un certo genere che fa dello shock sonoro un principale cavallo di battaglia, l’horror. Parlando di estetica è impossibile ignorare la fotografia di Sven Nykvist (collaboratore bergmaniano di lunga data) magistrale nel chiaroscuro e nello studio dei due volti femminili (Elisabeth che passa dalla sua stanza a quella di Alma, immagine sottolineata da un fortissimo contrasto di luce e che rende smarrito anche lo spettatore, indeciso se ciò che ha appena visto sia realtà o solamente il frutto di un’allucinazione originata dallo stato di dormiveglia della giovane infermiera). Puramente estetiche sono anche le interpretazioni di Bibi Andersson e Liv Ullman, l’una persa nella confusione delle sue parole, emesse senza soluzione di continuità, l’altra, per contro, racchiusa in uno stato di afonia paralizzante che contravviene al verbocentrismo della pellicola.

Propedeuticità dicevamo. A quasi mezzo secolo dall’uscita di “Persona” sono stati tantissimi i film e i registi che hanno cercato di ripercorrere le tematiche affrontate da Bergman, dal soggetto femminile (“Identificazione di una donna” di Antonioni), alla psicoanalisi e al sogno. Nel 2001 David Lynch realizzò “Mulholland Drive”, capolavoro fortemente influenzato dai caratteri bergmaniani di “Persona”. Se il sogno per il regista svedese è la ricerca disperata di dare un senso all’esistenza, mostrando l’inquietudine di chi non ha ancora aperto gli occhi (Alma, che inizialmente ha come massima aspirazione un mediocre matrimonio ed una vita innocua) per Lynch è la volontà di dar voce alle oppressioni di una realtà da incubo, fagocitata dal potere. Alma/Diane e Elisabeth/Camilla sono ulteriori sdoppiamenti di una stessa ideologia (il mestiere di attrice, l’analisi introspettiva femminile, il sentimento di amore-odio, l’omosessualità, la disillusione e l’incomunicabilità, la morte) seppure i temi lynchiani siano prospetticamente più improntati sul surreale e sul nonsense.

Affine alla visionarietà di Buñuel e all’onirismo di Fellini (quest’ultimo considerato come un fratello), il cinema di Ingmar Bergman raggiunge con “Persona” la vetta della sua filmografia, proprio perchè giunge nel momento in cui è la sua di “persona” ad essere rapita dall’ispirazione e dalla depressione, la stessa che lo affliggerà anche nei primi anni settanta durante la produzione di un altro grande capolavoro, “Sussurri e grida”. Un male doloroso ed intimamente introspettivo, “prova della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede”.

http://www.ondacinema.it/film/recensione/persona.html


 

Spasimo ,Hets, Torment 1944 – Ingmar Bergman: Intro and Torment (1944)

http://www.controappuntoblog.org/2013/05/24/spasimo-hets-torment-1944-ingmar-bergman-intro-and-torment-1944/

Musik i mörker (Musica nel buio)

http://www.controappuntoblog.org/2013/01/01/musik-i-morker-musica-nel-buio/

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