Musik i mörker (Musica nel buio)

Musik i mörker (Musica nel buio)
di Ingmar Bergman (Svezia/1948)
recensione a cura di Leonardo Persia

Dopo i precedenti film sull’amore, il produttore Lorens Marmstedt impose a Bergman un film d’amore. Da un romanzo di Dagmar Edqvist, co-autore col regista della sceneggiatura. Qualcosa di meno aspro e più riconciliato, un’opera di genere con la tematica corrente del reduce di guerra, spaesato e menomato, secondo la moda di Hollywood del periodo. Agli stilemi di questa tendenza sono improntate le prime immagini sul fronte, dove il protagonista Bengt (il solito Birger Malmsten) cade ferito mentre si azzarda a uscir fuori dal seminato, nel tentativo di accarezzare un cane.

La sua ingenuità di pianista sensibile catapultato in un mondo violento è già tutta in questa scena, a cui segue una sequenza onirica da film noir se non addirittura da horror. Mulinelli d’acqua, sprofondamento in una fanghiglia da cui escono coppie di mani minacciose. Ma anche sovrimpressioni di una riva del mare e, soprattutto, un lento risalire a galla da un acquario con pesci esotici e sirena. Mentre un martello batte su un’incudine, ovvero le inevitabili difficoltà dell’esistenza, sovrasta lo schermo un occhio enorme, a imporre subito il tema dell’opera (il graduale apprendimento a vedere, cioè il capire e il maturare, da parte di un uomo che ha perduto la vista).

La metafora si restringe immediatamente nel dato realistico: il dolore alle tempie di Bengt e la facoltà di vedere che lo sta abbandonando. Ma nonostante le apparenze, il frasario fluente e romantico da film d’amore, le belle immagini contraddistinte, quando non buie, dal chiarore bergmaniano nel quale Rohmer ravviserà uno stato paradisiaco dell’essere, tutto il film contiene un profondo segno simbolico dissimulato nella trama. Il giovane regista insiste a voler scorgere la luce nelle tenebre, il suono della vita (più ampio significato della musica, comunque presente, del titolo) scatenato dal suo opposto, o perlomeno da ciò che possa ricordare la morte: in questo caso la menomazione agli occhi del protagonista. Quando lo vediamo sul letto d’ospedale, ripreso dall’alto, con la sorella al suo capezzale, abbiamo un preannuncio delle future pagine dell’autore in cui qualcuno osserva faccia a faccia la (propria) morte attraverso quella altrui, quasi sempre un congiunto.

Anieta, la sorella di Bengt è, da questo momento in poi, il primo essere umano a cambiare atteggiamento nei confronti dell’uomo. Al gioco bara per farlo vincere e lui, umiliato, subito glielo rinfaccia. È l’atteggiamento protettivo e possessivo di molte eroine bergmaniane, incuranti della infelicità del presunto oggetto d’amore. Evidente la gelosia di Anieta verso l’ex fidanzata del fratello, dissoltasi, dopo l’incidente, nel chiassoso vuoto di divertimento e mondanità giovanili, più volte richiamato nel film come opposizione frivola alla sofferenza (è probabilmente lo stesso mondo in cui si rifugiava Bengt quando sano). Ed evidente pure il sussulto che ha l’orfana Ingrid (Mai Zetterling), quando scopre che il ragazzo presso cui presta servizio è cieco. Amore come quello che, nel precedente La terra del desiderio, Alice sognava per il marito capitano e puttaniere, in odor di cecità.

La mutilazione fisica di Bengt rivela quella morale e invisibile degli altri, nonché la propria. Il giovane è classista e superbo. Si accorge del lato erotico di Ingrid, quando lei, intenta a lavare il pavimento, cammina a quattro zampe. “Non è il mio cane: è un agnellino”. La ragazza gli si sottomette, gli prende il dito in bocca, come appunto fanno i suoi agnellini intenti a succhiare il latte, e quando il giovane afferma di aver sviluppato per compenso l’odorato, lei chiede un anticipo di stipendio per comprare saponette e profumi (il classismo degli odori).

In una sequenza esemplare allo specchio poi, più che guardarsi, Ingrid sperimenta la tattilità delle proprie lentiggini, cercando d’immaginare la pura sensazione del cieco nel toccarle. L’eros amplifica l’interiorità di entrambi, con lui meno cupo e la ragazza che inizia a sentire di più il proprio corpo (anche attraverso una scena di nudo), sviluppando una maggiore consapevolezza di sé. Eppure, parlando con la zia tifosa della relazione, Bengt sbotta: “Posso aspirare alla mano di una donna servizio?”. Ingrid ascolta, si offende e fugge via: situazione alla Cime tempestose, con la medesima indomita passione impossibile da estirpare.

A questo punto la situazione evolve in un ribaltamento di ruoli. L’ex contadinella si dà allo studio, inizia una scalata borghese, benché ora frequenti un ragazzo socialista. Bengt sperimenta al contrario il mondo e le sue ingiustizie, le umiliazioni e le frustrazioni da vita sociale, l’invidia e la competitività che regna sul posto di lavoro. Impiegato come pianista in uno dei locali alla moda frequentati dalla prima ragazza (incontro imbarazzato dei due), capisce il lato “operaio” del divertimento con un datore di lavoro considerato il diavolo da un collega (Gunnar Björnstrand). Residuo del precedente simbolismo bergmaniano, il personaggio difatti arretra come fosse un demone al cospetto di Dio, quando Bengt gli dice chiaro e forte, quasi dostoevskiano: “Lei mi parla come se io avessi violentato una bambina”. Riferendosi alla scazzottata scambiata con un ragazzo bene che gli aveva sottratto dei soldi, approfittando della cecità.

Tutto il film assume allora le valenze di un’educazione alla vita, al sentimento e alla “vista”, vertendo sulla progressiva sparizione dei residui borghesi di Bengt, ancora presenti nel modo in cui si scandalizza alla proposta di un lavoro di insegnante per bambini ciechi (come se lui non lo fosse). Bellissima la scena alla stazione, quando, arrivata la moglie di un amico con gli stessi problemi di vista, il giovane resta completamente emarginato. Tali momenti sconfessano il mito dell’esperienza come elemento di comprensione del mondo e dell’handicap (o dell’emarginazione) come accesso privilegiato al sentimento di solidarietà. Viene escluso che un escluso possa automaticamente capire un altro escluso.

E tuttavia il film individua proprio in un’esperienza fortemente meditata il cammino per la salvezza. È davvero più arioso e ottimista dei precedenti, senza che ciò pesi come un compromesso. Affiora in maniera più netta l’Ingmar Bergman cantore dell’opposto di tutte le cose, ravvisabile persino in una semplice battuta: “Dove c’è un pastore devoto, c’è un sagrestano ateo, o addirittura il contrario”.

Non è soltanto la coppia che, con lo scambio dei ruoli, riesce ad esprimere in pieno l’interscambio degli opposti coincidenti, ognuno completamento dell’altra fino a creare un’unità assoluta (“Luce e buio sono parole senza significato per noi”). Ai pugni presi dal nuovo fidanzato di Ingrid, su un ponticello metaforico dove un attimo prima aveva meditato il suicidio, Bengst reagisce con gratitudine perché “è la prima volta che vengo trattato da essere umano”.

Il protagonista si libera proprio mediante la piccola morte dell’handicap. Mentre Ingrid capisce davvero sé stessa dopo l’apprendistato borghese. La scena in cui il giovane, senza alcuna supponenza di classe o di professionismo, le fa ascoltare come va suonata al piano una partitura che lei appena strimpella, è indicativa soprattutto per chi conosce l’opera del Bergman maturo (Sinfonia d’autunno o l’ultimo Sarabanda), dove tali lezioni saranno solo un pretesto per umiliare il meno dotato.

Persino la solita figura del prete burocrate (vedi quella del precedente Piove sul nostro amore) si scioglie nell’autentica comprensione degli sposini. E c’è la zia di Bengst, Beatrice, presentata subito come megera bigotta (ravvisa nel suicidio di un funzionario corrotto il peccato mortale, senza minimamente considerare la disperazione dell’uomo), che subito dopo però, non solo accusa di superbia il nipote a causa del classismo nei confronti della servitrice, ma sintetizzerà il pensiero bergmaniano: “Nel disegno divino ci sono anche le sofferenze”. O viceversa, come nella battuta sul pastore. Proprio quello che con lucida sincerità mostra il film. La ricerca della musica nelle tenebre. Del divino nel (sub)umano.

Leonardo Persia

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