GIUSEPPE ROVAN ICento anni: romanzo ciclico pdf ; Un secolo nel segno di Napoleone pdf

VI

Non è poco il dire, che, per ottanta pagine circa, un libro che i bibliotecarj metteranno sempre nel dipartimento della Phantasia, siasi occupato esclusivamente, e quasi ex cathedra, di storia vera e di politica vera, tirando in ballo il papa ed il suo potere temporale, e congiungendo non a caso il passato col presente; e citando, come un dottor della Sorbona, e Apostoli ed Evangelisti e santi Padri e pontefici galantuomini; e parlando del vecchio Napoleone Bonaparte, e delle sue insidie politiche e dei colpi e contraccolpi rivoluzionarj, ecc. ecc. Di queste ottanta pagine crediamo che i lettori gravi, e che tirano il rapè, ci vorranno essere grati, e tanto da credere che il nostro lavoro possa esser letto anche da quelli che hanno in odio le produzioni della fantasia. Ma la storia, la quale rifà la vita, per esser completa, deve rifarla di dentro e di fuori; e se quasi sempre, come un ciambellano, segue devota i re dell’azione e del pensiero, che vissero e furono proclamati in pubblico, e dei quali con atto pubblico si fece il trapasso alla posterità: come un benefattore deve poi entrare nelle dimore private a cercarvi quelle figure che vissero non abbastanza note o ignote all’universale, per indagare come la vita intima della società segua l’impulso della vita pubblica, e come persino le virtù, i vizj, gli affetti e le passioni ripetano da essa il modo di manifestarsi; chè non tutte le virtù nè tutti i vizj sono possibili in tutti i tempi, e il dramma domestico si atteggia senza volerlo all’epopea storica. Lasciamo dunque per ora le piazze e i teatri e i luoghi pubblici e gli uomini che operarono cose già divulgate dalla storia, e penetriamo nel silenzio di una privata dimora a vedere la progressione di un dramma domestico, che si modifica lungo il cammino, e piega a seconda dei pubblici avvenimenti.

Nel palazzo situato nella contrada della Spiga, appartenente al marito della contessina Ada, in una sala a terreno, verso il giardino rispondente al naviglio, in sul tramonto d’un giorno di marzo del 97, stavano tre donne. Quelle donne rappresentavano tre età e tre periodi diversi; ed erano precisamente la contessa Clelia V…, la contessina Ada… e donna Paolina S…

La prima aveva settantadue anni; la seconda quarantasei; la terza diciasette.

È pieno di tristezza quel momento in cui si vede nell’estrema decrepitezza una creatura umana, di cui siasi fatta conoscenza quand’era nello splendore della beltà.

Noi non abbiamo ancora potuto fare sul vero un tale esperimento, perchè bisognerebbe che avessimo almeno i nostri settant’anni; mentre invece, per sciagura nostra, ne siamo distanti al punto, da misurare con ispavento la vita lunga che ancora ci rimane a percorrere, se una saetta benigna non ci viene a cogliere strada facendo. Ma oltrechè un tale esperimento lo fecero altri, i quali ci hanno assicurato non esservi niente di allegro, noi lo abbiamo tentato confrontando di una medesima persona i ritratti eseguiti a periodi distanti, dove si vedeva riprodotta l’immagine fresca e ridente della cara giovinezza, e le alterazioni estreme della triste vecchiaja.

È doloroso a vedere, e nel tempo stesso non è senza un certo interesse l’osservare come il tempo, pur non toccando l’ossatura e il disegno di una faccia, la vada totalmente contraffacendo, imperversando sulla liscezza, sul colore, sugli accessorj: il lento processo della dissoluzione, esaminato su di una medesima faccia, è certo, caro il mio gaudente lettore, che turberebbe anche la tua allegria.

Or, venendo a donna Clelia, un tale esame potevasi fare guardando il suo ritratto ad olio, opera del pittore Porta, che pendea da una parete della sala, ed era lo stesso innanzi al quale abbiam visto addormentarsi in torbido sogno il conte colonnello V…. Ella non contava che ventidue anni quando avea posato innanzi al pittore. Erano dunque trascorsi cinquant’anni; mezzo secolo! una piccola bagatella. Nè tuttavia potea dirsi che il tempo distruttore avesse cavato tutto il partito possibile della sua forza crudele. No, la dissoluzione non aveva fatto miracoli; perchè i capelli bianchi anche nella giovinezza per la polvere di cipro, erano rimasti foltissimi, e le loro onde argentine scaturivano da una cuffia tagliata a foggia di camauro; i sopraccigli si erano conservati neri; bensì, come avviene nella tarda età, cresciuti in foltezza e diventati ispidi, adombravano cupamente l’occhio infossato, e imprimevano a tutta la faccia una terribilità indescrivibile; così quella cara trasparenza del colorito, che, nella prima gioventù, comunica una tal quale bellezza perfino alle tinte più aborrite, si era cangiata nella rigida opacità della cartapecora; il mento e la bocca, siccome dicemmo altre volte, di linee severe e ricordanti il profilo napoleonico, ma che nell’età prima avevano esercitato un fascino strano per il contrasto colle altre parti floridissime di quella bella donna, avevano raggiunta la massima angolosità. Tutto quel complesso poi di disegno, di colore, d’espressione, d’atteggiamento, era tale, che imponeva altrui un rispetto, il quale sarebbe stato disgustoso e pesante, se dopo il primo urto non vi fosse letto il riassunto di un’intera vita di pensieri, di sventure e d’affanni.

Questa vegliarda severa stava seduta a lato di un tavolino sul quale era dischiuso un libro; portava gli occhiali d’ebano inforcati sul naso e, tenendo alzati gli occhi al disopra delle lenti, guardava fissa da qualche tempo la figlia della propria figlia, della contessina Ada, ai freschi e leggiadri quindici anni della quale, che appena contava allorchè la vedemmo l’ultima volta, se ne erano aggiunti trentuno; il che vuol dire che, nel 97, aveva quarantasei anni: età incomoda e nojosa tanto per gli uomini che per le donne; chè i primi hanno cessato di amare, le seconde di essere amate, messe in discredito dai reumatismi, dalla gotta incipiente, e dall’età critica. Tuttavia, se questa è la regola generale, le eccezioni non mancano; e in quanto alla contessa Ada, se non avesse avuto tutt’altro per la testa, ben avrebbe potuto suscitare ancora qualche simpatia in coloro, almeno, che per bizzarria, sono capaci di anteporre le bigie giornate d’autunno e la cascata delle foglie ai soli sfacciati del giugno e del luglio. Essa, nella persona, serbava intatta la leggiadria d’un tempo, e nel volto mobilissimo aveva qualcosa che in parte nascondeva quell’età.

Anzi, a spiegarci meglio, quel volto, per la mobilità accennata, era così ineguale, che pareva cangiare età ad ogni lieve guizzo di muscoli. Certo che non avremmo consigliato mai la contessina Ada ad esporsi al perfido sole di mezzodì, e molto meno ai fatali riverberi di un muro tinto in giallo, chè allora il lavoro che il tempo aveva fatto su quella faccia, saltava fuori da tutte le parti, e tradiva cento macchiette cutanee, e qualche ruga ribelle ai lati e sotto gli occhi, e qualcosa come di pesto e di frollo e di sciupato nelle guancie, serbanti però sempre la giovanile pozzetta; ma tutti questi guasti scomparivano, appena un raggio propizio di luce pittorica avesse investito quel volto, o un riflesso benefico di qualche tenda serica, azzurra o rossa; o, meglio di tutto, quell’albore annacquato che è in una camera illuminata di notte da una lampada. Allora pareva quasi che, per incanto, si togliesse il melanconico sipario degli anni quarantasei, per iscoprire il sotto tessuto di una faccia di trent’anni al più. Nel momento in cui l’abbiamo sorpresa per farne la descrizione, siccome era verso sera, e, se non c’era il sole vivo, non c’era nemmeno nè la luna nè la fiamma di candela, mostravasi così mezz’a mezzo, tra gli estremi che abbiamo delineato, e piuttosto più vicina ai trenta che ai quaranta; perchè in quel punto era concitata dall’arte, e da qualche cosa di più forte ancora. Seduta innanzi al pianoforte, stava provando la musica della Marsigliese che teneva aperta sul leggio, e si esaltava nell’interpretazione di essa.

Ma intanto, che la nonna guardava come perscrutando non sappiamo che cosa, e la mamma passava al cembalo la Marsigliese, donna Paolina, che tale era il nome della figliuola di donna Ada (non si meravigli il lettore di sentire ancora i titoli sonanti di marchese, di conte e contessa e don e donna in un tempo che i titoli di nobiltà erano stati messi inesorabilmente al bando dalla Libertà e dalla così detta Eguaglianza; perchè nell’intimo della vita domestica, dal periodo della loro invenzione fino ad oggi, non furono mai sospesi nemmeno un minuto; e i servitori e le cameriere e i cocchieri hanno sempre continuato a dare del don e della donna e del conte e della contessa ai loro padroni, perchè era una questione di pane come un’altra. Anche fuori delle pareti casalinghe, e anche fuori della schiera infelice delle fantesche e dei servitori propriamente detti, i servi dilettanti e devotissimi di tutto il mondo, e i pagnottisti perpetui hanno sempre continuato anch’essi a dare i titoli a chi toccavano per diritto di blasone, anche in piazza, anche in teatro; ad una condizione però, già s’intende, che nessuno dei democratici sfogati li sentissero, perchè le bastonature erano in voga, e la prudenza e il parlare sommesso erano consigliati dalla pubblica intimidazione; e qui mettiamo il claudite alla parentesi, che ci portò fuori affatto di traccia), dunque donna Paolina (che così venne chiamata al fonte battesimale, perchè la nonna e la madre vollero perpetuare in essa la cara memoria di donna Paola Pietra; ed ecco un altro claudite), donna Paolina dunque, essendo aperto un finestrone che dava nel giardino, perchè il marzo non era freddo e si voleva usufruttare l’ultima luce, stava appoggiata ad una spalla di esso, in una posa tutta sua particolare e, diremo, affatto maschile, perchè aveva il tergo appoggiato a un punto del muro che non era sufficiente per concederle di star ritta in piedi; onde, colle gambe tese e i piedi puntati al basso del muro opposto, segnava una diagonale.

Or venendo alla descrizione di quella fanciulla, vorremmo che il lettore l’avesse veduta cogli occhi proprj, per capacitarsi che non è già per amore di convenzionalismo che noi regaliamo a tutti i nostri giovani personaggi una bellezza incomparabile; ma sibbene perchè se quella fanciulla era bella veramente, non è in nostro diritto di contraffarla e peggiorarla per intento di varietà; la varietà è infinita in natura, anche senza incomodare la scrofola e la rachitide.

A misurarla dunque, così a calcolo d’occhio, quella fanciulla poteva essere alta come un uomo di statura regolare; ma siccome aveva la testa leggera ed il collo non corto, e le mani ed i piedi piccoli, ed una vita che si poteva stringere in due mani, e la vesta lunga, così potea sembrar alta fino all’eccedenza; alta e sottile e lunga come una frusta; se non che le maniche di seta strette, come allora voleva il costume, rivelavano un braccio sviluppato e denso; e le sottane di levantina che, per quella strana positura di lei, cascando mollemente, profilavano le sue gambe tese, lasciavano trapelare forme così aitanti, da parere un’esagerazione per una ragazza di anni diciasette. Quando ci si permettesse il confronto, suggeritoci dal più gretto naturalismo, noi diremmo, che se colei, invece di una fanciulla, fosse stata una puledra, ben poteva valere i duecento mila franchi della Katinka di Abdul-Megid. Ma donna Paolina, che da un pezzo stava immobile in quella strana positura, concentratissima com’era in un pensiero, di slancio si rizzò in piedi, e fece due o tre passi, aggirandosi intorno a sè, sciolta ed elastica e come snodata.

La contessa Ada, in quel punto, continuando a provare sul cembalo la Marsigliese, s’era concitata nell’esecuzione, e facendo intera l’emissione della voce, espresse con accento verace tutta la concitazione selvaggia di quel grido di guerra.

La fanciulla si fermò di colpo; diede manifestamente un guizzo. Quella musica, quelle parole, quel grido le avean messo addosso l’inferno.

Caduta la notte, si recarono i lumi. Dopo qualche tempo venne gente in quella casa, e si vegliò fino oltre le undici. Tutto quanto avvenne in quelle ore per noi è affatto indifferente, bensì terremo dietro a donna Paolina quando, dato il bacio della notte felice alla nonna e alla mamma, prese un lume, e, accompagnata dalla cameriera, si recò nella sua camera da letto.

Muta si lasciò ravviare e intrecciare e mettere nella rete i capelli; muta lasciò che partisse insalutata la cameriera.

Dopo si spogliò adagio adagio, sempre fantasticando e osservando macchinalmente il ritratto di suo padre, che pendeva dalla parete di contro al letto; il qual padre, lo diremo così di fuga e rimettendo le indispensabili spiegazioni e dilucidazioni ad altro tempo, era il conte Achille S…, ricchissimo patrizio milanese, il quale, dopo essersi mangiato un lauto patrimonio, fatta l’eredità di un secondo, sposò impaziente e furente di passione la contessa Ada, per amareggiare poi tosto di cento infedeltà il talamo nuziale e la pace di quella povera donna, innamorata fino all’infelicità. Sciupato il secondo patrimonio, strano e bisbetico qual era, aveva abbandonato e casa e moglie e figliuola, ed era corso a prestare i suoi servizi militari fin dal 92 nell’esercito di Francia. Fatta una terza eredità, aveva lasciato l’esercito; ma i parenti avendolo interdetto per prodigalità, indispettito tornò a riprendere il suo grado nell’esercito del Reno, dove trovavasi ancora. Più giovane della contessa Ada, l’avea sposata, vedovo già da due volte e dopo aver fatta l’infelicità di molte e molte donne; chè, ad onta della sua torbida fama, aveva sempre esercitato sul sesso debole un fascino irresistibile.

Questo era il padre di donna Paolina, osservando il cui ritratto, ella s’era venuta a grado a grado spogliando. E qui i giovani lettori non isperino una descrizione, chè ci preme troppo la calma del loro sangue.

Soltanto diremo che, quando mise il ginocchio, oh che ginocchio!!! sul letto, a un tratto balzò giù, e tratto un cassettone di un guardaroba, ne levò…. che cosa? Un elmo con criniera; un’assisa verde coi risvolti bianchi; un pajo di calzoni di daino bianco; un pajo di stivali; una sciabola.

Ma a chi appartenevano? a lei. Ma in che modo? ecco.

Nel carnevale, al collegio dond’ella era uscita pochi mesi prima, s’eran date alquante rappresentazioni comiche; di quelle che un certo professor Ghedini Mirocleto allora scriveva apposta pei collegi, press’a poco come sarebbero oggi quelle del Genuino.

Fra quelle commedie, che noi abbiamo letto, e che sono d’una miseria incomparabile, esso ne aveva scritto in quel tempo una d’occasione, che s’intitolava Il dragone benefico; una bestialità in punto e virgola, ma che era piaciuta alla direttrice del collegio, la quale pregò donna Paolina, allieva emerita, ad assumere la parte del protagonista. La fanciulla accettò, col permesso della nonna e della mamma, e ottenne che le si facesse fare un vestito completo da dragone. Quando comparve sul palco scenico abbigliata a quel modo, gli spettatori, che non eran tutti donne, andarono in visibilio. Però donna Paolina prese maggior stima di se stessa, e s’innamorò di quell’abbigliamento militare; e se ne innamorò per una ragione più pericolosa di quello che pare. Allorchè dunque trovavasi sola, ed era sicura di non essere scorta, si dilettava a rivestire quelle armi, e se ne compiaceva orgogliosamente, guardandosi nella specchiera che teneva nella camera da letto; ma pazienza fosse qui tutto! il peggio è che quel vestito le suggerì…

A pensare che una simile inezia doveva essere la cagione di conseguenze tristissime, davvero che c’è da rimanere increduli; ma nel carnevale istesso avea visto più d’una volta il capitano Baroggi. Oh non l’avesse mai veduto! Noi che sappiamo quel che avvenne dopo, non possiamo vincere la commozione. E ora, o lettore, fermando lo sguardo a contemplare il leggiadro spettacolo di questo dragone che sta specchiandosi, preparati a stupire; e se hai il dono delle lagrime, anche a piangere.

Cento anni: romanzo ciclico

Cento anni: testo – IntraText CT

UN SECOLO NEL SEGNO DI NAPOLEONE: I «CENTO ANNI» DI GIUSEPPE ROVANI

Cento anni, il più ambizioso romanzo di Giuseppe Rovani (1818-1874), copre un secolo di vita italiana ed europea: il grande affresco prende le mosse dai primi fervori libertari e illuministi,

abbraccia la stagione napoleonica e si conclude sulle note tragico-sublimi della caduta della Repubblica di Venezia (1849). A lungo considerato uno zibaldone di aneddoti pettegoli e curio-sità erudite, il capolavoro di Rovani poggia in realtà su una struttura narrativa ben precisa: le vicende dei personaggi delineano un percorso di liberazione dai vincoli gentilizi che tocca l’a-pice nelle conquiste democratiche della rivoluzione di Napoleone, e che lascia intravedere una

classe borghese defnita dai criteri di merito del talento artistico. Il risultato è una ricognizione nostalgica degli anni a cavallo tra Sette e Ottocento: un periodo storico in cui gli artisti si muovono da primattori, e l’esempio del soldato che diventa imperatore è garanzia di mobilità sociale.

Cento anni

, the most ambitious novel by Giuseppe Rovani (1818-1874), covers an entire

century of Italian and

European life: from the Enlightenment to the downfall of the Re-

public of Venice (1849). Too often disregarded as overowing

with anecdotes and erudition, Rovani’s masterpiece actually lies on a very neat narrative path, the common thread among its main characters’ lives being the emancipation from the old aristocratic regime (thanks to Napoleon) and the establishment of a bourgeoisie of young artists

 

2. DALLA TRUPPA ALLA TEPPA, DAL SETTE ALL’OTTOCENTO

Diversamente dalle prime opere, la vicenda non si svolge sul limitare di un precipizio tragico, nel quale l’eroe è destinato a consumare i suoi ultimi giorni, bensì mette a fuoco un percorso di liberazione che, seppur in vista di una conclusione tragico-sublime (la caduta di Venezia), addita ai lettori le norme democratiche di vita soppresse dal tracollo della rivoluzione napoleonica: cuore del romanzo è l’ascesa di due stirpi milanesi, i Baroggi e i Suardi, dall’oscurità miserabile alla fama dell’arte e delle armi.

All’alba della modernità urbano-borghese, comincia a farsi strada un’idea di

mobilità sociale prima impensabile: la convivenza pacifica entro le mura cittadine s’incrina quando i fgli rifutano di continuare i mestieri dei padri, minando alle basi una millenaria spartizione del potere politico. Rovani rievoca il lungo processo di emancipazione a partire da un antefatto di crudeltà inaudita, la condanna a morte della «truppa studentesca», rea di goliardate che «mettono a buon umore» tutta Milano: alcuni studenti rapiscono il «nano guardaportone» di un patrizio borioso, il quale pretende e ottiene dal Senato una punizione sproporzionata. L’apologo dei liceali al patibolo, metafora estrema dello scontro sociale e generazionale, delinea uno sfondo tragico che mette in risalto, per contrasto, l’esemplificazione romanzesca del merito borghese.

…..

La tesi secondo cui i fremiti di libertà riportano nel Settecento illuminista

una prima gloriosa vittoria, è svolta con la messa in scena di tre situazioni correlate di amore contrastato: la liaison tra la contessa Clelia e il tenore Amorevoli, le nozze tra Lord Crall e Paola Pietra, e l’unione di Lorenzo Bruni con la ballerina Gaudenzi. Sull’onda di un’euforia che culminerà nella stagione napoleonica – quella cioè del soldatino che diventa imperatore – la passione vince l’ostacolo, e il bilancio dello scontro tra ambizioni e realtà si chiude per lo più in attivo. Donna Paola fugge dal monastero, sposa un lord inglese e  diventa la santa patrona laica della città di Milano; Clelia vive una storia d’amore, benedetta a Venezia dal chiaro di luna, col tenore Amorevoli; Lorenzo Bruni, infine, impalma la ballerina di cui era tutore, e la salva così dalle perdizioni della danza.

In parallelo, ha inizio la caparbia progressione in società di Andrea Suardi detto il Galantino, ex lacchè responsabile del furto del testamento del Marchese F…, che toglierà a Giulio Baroggi, figlio naturale e squattrinato del vecchio patrizio,l’unica chance di ereditarne il patrimonio.

Per chi nasce nei bassifondi del consorzio civile, la vita è dura: la scalata sociale del Galantino copre un arco di tempo lunghissimo, pari almeno a quello che occorre alla schiatta dei Baroggi per arrivare dal mestiere di sottotenente della «Ferma dei Tabacchi» (Giulio) alla qualifica prestigiosa di rivoluzionario che «[applica] l’ingegno alle lettere e alle arti» (Giunio), passando per l’incarico di capitano dei dragoni (Geremia). Anzi, il traguardo arriverà soltanto nella Libia d’oro, dove si legge che il figlio omonimo di Suardi, ricchissimo ereditiere, è diventato pittore, musicista e servitore alla corte dello Zar: in realtà è un carbonaro che lavora sotto copertura, disposto a sacrificarsi per liberare l’Europa dai tiranni che la opprimono


Seppure non nello stesso libro, le Bildung dei Baroggi e dei Suardi finiscono percoincidere: il risultato è una sublimazione artistica e drammatica del poco onorevole retaggio dei padri. Ma la lentezza estenuante con cui questi homines novi assurgono a ruoli di potere, e la triste conclusione delle loro azioni (Andrea Suardi junior sarà deportato in Siberia dopo il fallimento della congiura), denunciano lo spegnersi dei lumi settecenteschi, l’affieevolirsi della spinta democratica che, tempo addietro, aveva favorito l’incontro di un giovane tenore romano con la figlia di una delle più severe famiglie milanesi: dopo il 1815, bisogna ricominciare da capo.

Ecco allora palesarsi una nuova cornice generazionale, speculare alla scolaresca d’esordio: la Compagnia della Teppa. Sono i giovani lombardi che fecero «granrumore […] dal 1818 al 1821» (p. 977), i successori delle masnade dfi studenti della Milano settecentesca: sono loro, i primi a reagire alla mortificazione civile e i-tellettuale che segue l’adolescenza del mondo moderno

 

4. TRA FORMAZIONE ED EMARGINAZIONE: IL GALANTINO E I BAROGGI

La parabola del Galantino, come giustamente osserva Silvana Tamiozzo Goldmann, è davvero «il percorso più lungo»: copre un arco di ottantacinque

anni, durante il quale il personaggio, da lacchè di una famiglia milanese diventa prima giocatore d’azzardo, poi banchiere e latifondista. A dfferenza dei Bruni, longevi sì ma in fondo rapsodici, Andrea Suardi è una presenza costante nel libro, anche a livello delle scelte di genere: dopo un prologo squisitamente settecentesco (funzionale alla messa a fuoco di Lorenzo e Giocondo), i Cento ani si divido-no tra il romanzo di formazione di Giulio, Geremia e Giunio, e il corrispettivo di emarginazione che fa capo al Galantino. Costui, infatti, pur vantando meriti fuori dall’ordinario («straordinaria svegliatezza di mente», «memoria prodigiosa», forza fisica e bellezza), intraprende un cammino formativo alla rovescia, lungo

il quale ogni conquista dell’adultità è un passo in avanti sul terreno del crimine: «d’uomo assalito qual egli era, pensò di farsi assalitore» (p. 143). Dalle già sanguinarie risse adolescenziali (botte, bastonate, coltellate) si arriva così, all’altro capo del romanzo, allo sfruttamento per fni economici della rivoluzione napoleonica: «la natura insomma aveva largiti a lui tutti i suoi doni, ma egli aveva condotto le cose in modo da convertirli tutti in altrettante armi d’offesa» (p. 144). Il Galantino, al pari del più giovane Baroggi, è figlio naturale, non riconosciuto, del marchese F., ma la sua orfanità assume le forme di un’esclusione classista tra le mura del palazzo paterno. Mentre Giulio vive con la madre, lontano dai fasti del patriziato, Andrea lavora alle dipendenze del padre e, grazie alla «straordinaria velocità delle sue gambe», vince le corse tra servi delle case più prestigiose, guadagnandosi i regali, le attenzioni e le «carezze» dei «gran signori». Senonché, alle soglie della maturità (diciassette anni), dopo esser stato acclamato come «celebrità del suo ceto», il giovane si rende conto che, al di là di un’affettuosa ma in fondo disimpegnata benevolenza, nulla riserva per lui l’avvenire presso i marchesi F.: la reazione a tale scoperta è il rovesciamento delle qualità native in una condotta vendicativa e antisociale.

Dopo l’espulsione dalla casa paterna, ha inizio una «vita scioperata», divisa tra il desiderio di rivalsa e le ansie di ravvedimento, frustrate dalla miopia dei concittadini. La tecnica utilizzata per rappresentare le ambizioni del Galantino è l’intreccio, ormai noto, dei rovelli sentimentali e nuziali, ma lo svolgimento è in parte inedito: oltre a porsi come emblema del disaccordo tra sogni e realtà, il matrimonio che «non s’ha da fare» diventa, nella storia di Suardi, un’occasione(mancata) per riportare il figliol prodigo al consorzio civile.

La vicenda è speculare a quella di Geremia, il capitano dei dragoni che, grazie all’unione con la nobile Paolina V., ribadisce in società la promozione ottenuta sotto le armi. Al Galantino, che non è soldato e nemmeno artista, un tale riconoscimento non sarà mai concesso: i pregiudizi nei suoi confronti rendono vano qualsiasi tentativo di conciliare la redenzione con l’avanzamento sociale, e finiscono per accrescere il livore del lacchè, la sua propensione a nuove, ardite, azioni criminose. Tanto più che al danno segue la beffa, perché ilnon expeditall’ascesa dell’ex sguattero proviene da quelle stesse persone che hanno usufruito, con profitto, delle aperture illuministe: in particolare dalla contessa Clelia, responsabile, in due occasioni, del fallimento dei piani da lui escogitati per uscire dai bassifondi milanesi.

Ladri i nonni e ladri i padri, disonesta l’aristocrazia, priva di scrupoli la neonata classe borghese: il nuovo ordine che nasce dalla ceneri dell’Antico Regime non conosce figure positive che non siano modellate sull’esempio di Napoleone, di cui i Baroggi personificano la parabola a cavaliere tra Sette e Ottocento. Lo sfortunato Giulio, guardia della «Ferma dei Tabacchi», lascia intravedere la futura iconografia del soldato in carriera (tra i rozzi fermieri, egli svetta aitantecome un vero militare) ; mentre il figlio Geremia, uffciale napoleonico a tutti gli effetti, sarà nientemeno che un «Ganimede stivalato»: bellissimo, e naturalmente incline alla strage di cuori. Per analogia con il mortale di cui svariate divinità s’invaghirono perdutamente, la metafora esemplifica la mistura di omoerotismo e misoginia che sostanzia la figura del secondo Baroggi : qualità che non richiedono il contravveleno delle frustrate, come nel caso del Galantino, perché funzionali alla mobilità sociale e, di concerto, alla concordia tra i sessi. La proposta di civiltà che Napoleone ha consegnato alla Storia è insomma desiderabile in quanto capace di coniugare aspirazioni e realtà, sottomissione e soddisfazione della donna: «gli speroni hanno un potere irresistibile sui nervi delle donne, tanto maritate che zitelle» (p. 636).

Niente speroni, invece, per Giunio, il quale incarna l’involuzione geopolitica che segue la disfatta di Bonaparte.

Un secolo nel segno di Napoleone: i “Cento anni” di …

ROVANI, Giuseppe

Enciclopedia Italiana (1936)

di Guido MAZZONI

ROVANI, Giuseppe. – Romanziere, nato il 12 gennaio 1818 a Milano, morto ivi il 26 gennaio 1874. Fu discepolo del pariniano Giuseppe Pozzone, e anche da lui poté fino dai primi studî apprendere particolari notizie sul Settecento lombardo. Si guadagnò alcun tempo la vita come istitutore di nobili giovanetti, il che valse a introdurlo nell’alta società lombarda e veneta.

Volontario nella guerra del 1848, e poi esule, compilò un volume sul Manin per i Documenti della guerra santa in Italia editi a Lugano; nondimeno il governo imperiale lo riammise al modesto ufficio che innanzi egli aveva occupato nella Biblioteca di Brera, con tenue stipendio ch’egli arrotondava scrivendo su periodici letterarî articoli critici, che piuttosto che ponderati giudizî sono improvvisazioni, più tardi aspramente rimproverategli da G. Carducci. Il R. attese anche alla pubblicazione di opere divulgative, dove alla materia altrui seppe talvolta aggiungere assai, con varia cultura e con valentia: la Continuazione degli ultimi trent’anni (18241854) alla Storia della rigenerazione della Grecia di F.-L. Pouqueville (Milano 1854), Le arti e le scienze in Italia, ecc. Capace di far più e meglio, si diede a scrivere romanzi storici, ch’era il genere allora in voga: Lamberto Malatesta (Milano 1843), Manfredo Pallavicino (ivi 1845), Valenzia Candiano (Napoli 1846), La Libia d’oro (Milano 1868), Cento anni (ivi 1869; varie ristampe: 1885;1934), Giulio Cesare (ivi 1876), e altri scritti minori. Lavorò altresì per il teatro (Bianca Cappello, Simone Rigoni) senza felici successi. La sua riammissione in servizio governativo e l’aver egli accettato di farsi storiografo del viaggio dell’imperatore in Lombardia, nel 1857, lo resero sospetto ai liberali e perfino inviso ai più accesi. Oltre di che, sofferse dolori familiari e si trovò oppresso dai debiti; e sciaguratamente si diede all’assenzio. Morì in una casa di salute, dove s’era ricoverato nel Natale del 1873.

Non è da credere che proprio si meritasse l’acre severità di molti che non avevano, come lui, combattuto per l’Italia; ed è da compiangere per le sciagure che negli ultimi anni lo torturarono; nondimeno l’uomo non apparisce, quale lo vorremmo, in una vita tutta dignitosa; e così vorremmo che le innegabili sue facoltà artistiche, specialmente di narratore, si manifestassero chiare e costanti anche fuori dell’opera migliore, Cento anni, nella quale emergono cospicue di franchezza e d’ingegnosità non meccanica soltanto. I suoi doni innati appariscono già in Lamberto Malatesta, di cui l’argomento è il vivere della Toscana alla fine del Cinquecento; e in Valenzia Candiano (tema riguardante Venezia nel Cinquecento, ch’era suggerito al R. dal Pozzone); appariscono anche in Manfredo Pallavicino (su Milano e Roma nel Cinquecento); e si ritrovano, dopo il romanzo Cento anni, ma diminuite, nelle “scene romane”, La giovinezza di Giulio Cesare, e in La Libia d’oro, “scene storico-politiche” che si possono considerare come un seguito ai Cento anni, perché vi hanno parte principalissima due personaggi già quivi rappresentati (la materia concerne il Congresso di Vienna e le società segrete).

Ai Cento anni non mancarono censure; ma neppure gli difettarono lodi autorevoli e ragionate, perché la composizione n’è di molto valore, la curiosità vi abbonda, lo stile vi si gusta più sobrio e più semplice mentre conserva scioltezza e vivezza. Il raffronto con Le Confessioni di un italiano del Nievo, pubblicate prima dei Cento anni, s’impone per la palese derivazione di una parte almeno del concetto generale; ma il romanzo del R. ha pregi suoi proprî, che lo rendono uno dei racconti moderni italiani, di gran mole, degni di lettura e di critica benevola. Comprende un secolo, dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento; il filo principale si annoda intorno alla figura di un mozzo di stalla, Andrea Suardi detto il Galantino, che nella Lombardia settecentesca riesce a salire di grado in grado a ricco banchiere; e intorno alla figura di un ufficiale della Repubblica Cisalpina e poi del Regno Italico, Geremia Baroggi, con accanto la donna innamorata di lui, che lo segue in guerra travestita da dragone; e poi intorno ai discendenti loro, nei casi del Risorgimento. Le avventure, desunte da tradizioni orali e parzialmente da manoscritti (anche degli archivî), hanno più della cronistoria che del romanzo, nel raggruppare con abilità molte persone e molti aneddoti dentro una serie di scene che di volta in volta piacciono, pur non appagando chi desideri uno stile davvero artistico; e, purtroppo, saziando presto chi cerchi meglio che un immediato e superficiale piacere. Brava è l’esecuzione di alcuni ritratti d’uomini illustri o caratteristici; acuta talvolta l’intuizione psicologica. Il Tommaseo notava frasi potenti accanto a metafore barocche, e raccomandava al R. uno stile più parco, un linguaggio più corretto. Tuttavia la complessa rappresentazione di un trapasso importante nella vita nazionale, tra il sec. XVIII e il XIX, è conseguita come era nelle intenzioni dell’artista; e rimane non solo dilettevole e insieme utile in sé, ma anche significativo documento delle coscienze e dei gusti del tempo.

Bibl.: B. Croce, La letteratura della nuova Italia, 3ª ed., Bari 1929, I, p. 111 segg.; L. Russo, I narratori, Roma 1923, p. 57 segg.; P. Nardi, La scapigliatura, Bologna 1924, p. 17 segg.; G. Mazzoni, L’Ottocento, 2ª edizione, Milano 1934.

http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-rovani_%28Enciclopedia-Italiana%29/

Le donne che leggono sono pericolose | controappuntoblog ..

 

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.