Against interpretation and other essays Susan Sontag openlibrary

Angela Scarparo
Libri dimenticati: “Contro l’interpretazione”

Against Interpretation – Shifter Magazine

A che serve l’arte

La filosofa americana Susan Sontag in una splendida raccolta di saggi attaccò anche Sartre nel nome della funzione sociale dell’estetica. A che serve la critica? Si può parlare di bene e male quando si analizza un’opera d’arte?

«… viola tutte le norme della decenza stabilite per i critici; la sua è critica per immersione senza linee di guida», dice Susan Sontag rivolta a Jean Paul Sartre nel suo saggio  “Genet di Sartre”, uno dei pezzi appartenenti alla raccolta, Contro l’interpretazione. Pubblicato in Italia la prima volta nel 1967 (e ristampato nel 1998 con la traduzione di Ettore Capriolo) questo bel libro è esaurito sul mercato italiano, ed è un peccato. Peccato perché l’autrice prende di petto una della questioni che più sembrano attraversare la nostra epoca, e cioè quella della validità del giudizio estetico. Esiste o no una verità, quando si parla di un’opera d’arte? E se sì, chi la stabilisce? Quale è il compito della critica?

susan sontag

Il libro è composto di 25 articoli, divisi in sezioni e di un’introduzione, scritta dall’autrice stessa, in occasione dell’ultima ristampa, a distanza cioè di trenta anni. Se nei primi due pezzi (“Contro l’interpretazione” e “Sullo stile”), scopo di Sontag è dimostrare l’arroganza di certe posizioni estetiche, oltre che la loro superfluità, (quella di Sartre, per esempio) negli altri sembra invece esercitare il proprio sapere allo scopo di esemplificare, puntellare, la validità del proprio impianto teorico. Nascono così recensioni (“L’age d’homme di Michel Leiris”), brevi saggi (“La critica letteraria di Gyorgy Lucaks”),  ritratti (“Ionesco”), esercizi critici in cui finalità ultima, ci dice l’autrice, è la “trasparenza” (transparency), intesa come « capacità di vedere le cose per quello che sono».

Forse il saggio più adatto a esprimere le istanze teoriche di questa grande saggista e che cosa intenda per “trasparenza”, è quello su Robert Bresson. Considerato più grande anche di Buñuel, l’autore di Pickpocket e di altri film straordinari, è apprezzato  per  il suo «stile spirituale», capace di «disciplinare le emozioni nel momento stesso in cui le suscita».  Accentuazione della parola rispetto all’immagine, scena punteggiata di intervalli, quasi totale assenza di suspence, recitazione degli attori fredda, gli elementi che caratterizzano il suo stile. Una sorta di minimalismo espositivo, di poverismo della narrazione, è ciò che lega il critico all’artista.

jean paul sartre

Torniamo adesso a Sartre. Come mai così tanta antipatia, così tanto astio da parte dell’autrice? Chi, come ha fatto Sartre, scrive cinquecentosettantré pagine di chiosa alla vita e alla produzione di Jean Genet, secondo lei maschera in realtà altre problematiche, che vanno oltre l’estetica, dice. Nel caso specifico, «La lunghezza e il tono inesorabile di Saint Genet (il saggio di Sartre si intitolava Santo Genet, commediante e martire, ndr) sono il realtà il prodotto di un’angoscia intellettuale», insiste.  L’opera d’arte è intraducibile, suggerisce, non c’è commento che tenga, l’esperienza artistica è unica.  È Sartre, dice la filosofa statunitense, che «non riesce a lasciare in pace il mondo», e deve a tutti i costi riempirlo di significati, «moraleggiare». Non che l’autrice non riconosca al filosofo esistenzialista di essere «uno psicologo di prim’ordine, meritevole di essere posto accanto a Dostoevskj, Nietzsche, e Freud». Ciò che gli contesta è l’esercizio di «un piacere intenso, e non molto socievole, che deve essere ripetuto in continuazione». L’esercizio ermeneutico in Sartre, si riduce secondo Sontag a una forma di piacere solipstico: «Masturbare l’universo è forse il tema di tutta la filosofia, di tutto il pensiero astratto», dice.

Quale è quindi il compito della critica? «Di esaminare la funzione formale dell’argomento», cioè lo stile di un’opera, spiega. Non a caso un intero, breve saggio, (“Sullo stile”) è dedicato a questo tema. L’artista è, riprendendo Nietzsche, non colui che imita la natura, ma colui che attraverso un atto di volontà, la ricrea. Lo stile è il modo attraverso cui un(a) artista lascia memoria di sé, del suo passaggio sulla terra: sono i segni,  i tempi, i luoghi, le modalità con cui costruisce la sua opera. Il critico è colui che studia le opere degli artisti, e le modalità con cui essi lasciano tracce di sé, nel mondo. Il presupposto da cui parte Sontag è che in un’opera d’arte, fra stile e contenuto non vi sia antitesi, né gerarchia.  Non serve, dice, l’indagine psicologica, né quella marxista, non servono l’analisi psicanalitica, né quella strutturalista. Da qui, l’attacco a Sartre.

Veniamo adesso al «compito morale», un’altra delle istanze teoriche della scrittrice e filosofa statunitense. È possibile parlare di bene e male, di giusto e sbagliato quando si analizza un’opera d’arte?  Le qualità proprie all’esperienza estetica  sono le stesse di una «reazione morale» alla vita, suggerisce lei. Sono l’intelligenza, la sensualità, l’attenzione, la generosità, la partecipazione intellettuale (fra le altre) a fare di una vita, una vita buona. Proprio come per un’opera riuscita.

Quanto di tutto ciò è valido ancora oggi, ci chiediamo noi? Se temi e modalità utilizzati in questi saggi possono sembrare superati o opinabili, resta in essi una capacità di analisi e di ironia, che non passa di moda. Resta l’invito, che l’autrice ribadisce nell’introduzione al libro, a non scambiare «l’elogio della cultura popolare», (quella che lei faceva trent’anni prima), con una forma di «ripudio della cultura alta e del suo bagaglio di serietà, profondità». Così come, “la denuncia di certi tipi di facile moralismo” che faceva allora, era «in nome di una serietà più vigile, meno compiacente», e non un invito al disimpegno. Non avrebbe immaginato quasi mezzo secolo prima, ci racconta nella bella introduzione che «l’idea di serio (e di onesto) sembra obsoleta, ‘irrealistica’ alla maggior parte della gente; e probabilmente anche malsana, qualora la si accetti come arbitraria decisione caratteriale».

Se ricordiamo oggi, adesso, questo libro esaurito e introvabile, è  per stare dietro a una delle speranze dell’autrice: «…che una nuova generazione di lettori possa contribuire al compito pressoché disperato di puntellare i valori su cui si fondavano quei saggi e quelle recensioni».

http://www.succedeoggi.it/2013/09/a-che-serve-larte/

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04 novembre 2011 | History

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Cover of: Against interpretation by Susan Sontag

Against interpretation
and other essays
Susan Sontag

Published 1966 by Dell Pub. Co. in New York .
Written in English.

Table of Contents

1.
Against interpretation —
On style — — 2.
The artist as exemplary sufferer —
Simone Weil —
Camus’ Notebooks —
Michel Leiris’ Manhood —
The anthropologist as hero —
The literary criticism of Georg Lukács —
Sartre’s Saint Genet —
Nathalie Sarraute and the novel — — 3.
Ionesco —
The death of tragedy —
Going to theater, etc. —
Marat/Sade/Artaud — — 4.
Spiritual style in the films of Robert Bresson —
Godard’s Vivre sa vie —
The imagination of disaster —
Jack Smith’s Flaming creatures —
Resnais’ Muriel —
A note on novels and films — — 5.
Piety without content —
Psychoanalysis and Norman O. Brown’s Life against death —
Happenings: an art of radical juxtaposition —
Notes on “Camp” —
One culture and the new sensibility.

Edition Notes

Series A Delta book — 0038

Classifications

Library of Congress PN771 .S62 1966

The Physical Object

Pagination 304 p. ;
Number of pages 304

ID Numbers

Open Library OL24943063M
Internet Archive againstinterpret00sont

https://openlibrary.org/books/OL24943063M/Against_interpretation

Susan Sontag: Davanti al dolore degli altri : Susan Sontag

At the Same Time, Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e .

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Alla ricerca di un senso a questi giorni… by alzogliocchiversoilcielo.blog

venerdì 20 marzo 2020

Alla ricerca di un senso a questi giorni…


 
Intervista a Ivo Lizzola
Confini di Pierluigi Mele
del 20 marzo 2020
Ivo Lizzola è un professore universitario, è ordinario all’Università di Bergamo, ha riflettuto molto sui percorsi dedicati alla “cura” delle persone.

Ha elaborato un’etica della cura che tocca molteplici aspetti della persona (dai giovani drop out, ai carcerati). A lui chiediamo, in questa intervista, una riflessione sul “senso” di questi giorni tragici. A partire dalla sua esperienza in una zona tremendamente colpita come il bergamasco.

Oggi ancora pagine intere di necrologi su L’Eco di Bergamo. Dodici, come da due settimane. Che fanno numeri di certo più alti di quelli ufficiali. Un rosario di volti, di sguardi, di sorrisi; e costellazioni di famiglie, di prossimità. Storie, relazioni, progetti di vita, memorie, speranze, promesse, unicità… che quasi scivolano via in uno sciame. Come inghiottiti in un cielo che si è fatto stretto.
In una rapidità del finire che quasi nessuno spazio e possibilità lascia a racconti, consegne, lasciti, gesti, congedi. Bruciati. E ognuno spera siano almeno un poco serbati nella carezza sconosciuta di un infermiere, un medico, sfinito, sfinita. Pure lei o lui lontano e separato dai suoi cari, a loro protezione.
Cosa resta alfine, cosa regge di queste morti “affollate”, affidate, disperse? Altri popoli e luoghi del mondo hanno continuato a conoscere fino ad oggi nelle guerre e nelle carestie, siamo noi che le reincontriamo dopo generazioni, attoniti. Restano forse il segno, la traccia d’amore, le dedizioni e le promesse: poco più d’un seme.
Professore, in questi giorni, la pandemia che ha colpito l’Italia, in modo particolare la sua Bergamo, sta facendo interrogare in profondità l’ opinione pubblica italiana. Tra questi anche teologi e filosofi. Siamo alla ricerca di un senso a questi giorni. Nel giro di pochi giorni il nostro vivere è cambiato. Viviamo sospesi in momenti in cui fa da padrona l’incertezza sul futuro..
L’incertezza ci è entrata dentro, prima ci preoccupavamo del progetto e della previsione sul futuro, del possibile e del controllo. Affaccendati per assicurarlo, svilupparlo, sperimentare innovazioni, nuovi incontri. C’era scontatezza, diritto, merito, per alcuni anche successo … Vita dalle emozioni e dalle novità… scontate. Era il mio tempo, il futuro mio, frutto delle mie avventure e delle mie intenzionalità.
Bastava non stare troppo vicini alle realtà umane e sociali dove non si può che provare a vivere, nei margini e nei vuoti dei paesaggi interiori, nelle fratture esistenziali: l’illusione per molti era servita.
Ma la vita è precaria, flottant scriveva Paul Ricoeur, incerta e titubante. Ci si trova in vita prima d’ogni esercizio di volontà. E in una “certa necessità di esistere“ – scrive il filosofo. Ma la vita “poi sfugge, si sottrae al controllo”: non si regna su di essa”. Sí, occorre continuare a volerla, sceglierla, la si deve curare, coltivare, anche se poi, in qualche modo, ti lascia.
Stanno morendo tanti anziani e tanti grandi anziani. Le memorie, le continuità di tante storie locali, a volte la tenuta delle relazioni. Muoiono tante donne e tanti uomini comunitari, volontari, persone cariche di saperi e racconti. Testimoni.
Tanti, tutti insieme. Senza avere tempo di celebrarli, di narrarli, di tenerli un po’ nei rosari dei ricordi, dei debiti, delle Ave Maria tra persone raccolte attorno a loro. Come se una generazione venisse decimata. Di una comunità si strappassero radici. Come riseminare riprendendone le consegne?
Sono, anche, i giorni cui si fa esperienza della “distanza” : la distanza di un metro, il divieto di “toccare, di baciare , di abbracciare”. Paradossalmente per mostrare attenzione all’altro devi stare ben lontano. Gabriel Marcel diceva che il “corpo ricorda”. Stiamo sperimentando un’ altra “corporeità”?
C’è una distanza che è nei corpi e che è dei corpi che noi siamo. La sentiamo mordere, radicale: ci sono corpi sommersi e corpi salvati. Corpi esposti, tremanti; corpi in mani d’altri. Corpi rinchiusi e che si sentono vite senza riparo.
In questi giorni molti si sentono sommersi, presi dalla malattia non conosciuta e dagli apparati sanitari. Sentono di non appartenersi più. Gli altri, per ora salvati, da un lato temono di scivolare nel gorgo, dall’altro sentono il peso di una ingiustizia e di una colpa non imputabile.
Con studentesse e studenti, fascia d’età un po’ più protetta oggi, abbiamo riletto I sommersi e i salvati di Levi, le pagine sulla zona grigia, utili a leggerci dentro. Anche a trovare forme di disposizione e dedizione, semplici gesti buoni e giusti. Come quelli di Silvia che mi scrive: “Grazie per la lezione a distanza di ieri. Non ho preso parola perché ero un po’ in lotta con me stessa. Mi capita in questi giorni di sentire un po’ il peso della mia sensibilità, e un po’ di colpa. Come se fossi arrivata al limite, come se non potessi più sopportare di “sentire” o di “compatire”. Per uscirne mi sono dovuta inventare un modo per essere presente. Così mi sono svegliata presto, ho impastato le sfoglie e il pane e ho portato pane fresco ai miei anziani vicini e i croissant ad una mia amica che lavora al Pronto Soccorso, nel reparto Covid.
Mi sono sentita viva, bene. Credo lo farò anche domani”.
Il gesto “inutile” di Silvia che prova a stare presso l’angoscia dei vicini, e l’esposizione rischiosa dell’amica, mi ha ricordato la figura di Lorenzo, l’operaio italiano che Primo Levi ricorda in Se questo è un uomo. Gli aveva portato un pezzo di pane e avanzi di rancio per alcuni mesi, a lui, intoccabile.
“Con il suo modo piano e facile di essere buono”, scrive Levi, raccontava che esisteva un mondo altro, una possibilità di bene, di speranza , “ per cui metteva conto di conservarsi”. Distanza, profondo legame. Sì, il corpo ricorda!
Ma c’è un altro elemento di cui facciamo esperienza : quello della prossimità e della cura. Vengono in mente le parole di Albert Camus scritte nel suo romanzo un capolavoro, La Peste :”Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”. Oltre ai medici e infermieri, anche giovani che si offrono di portare la spesa agli anziani del proprio condominio o del proprio quartiere anche in zone altamente rischiose… È una bella picconata alla cultura dei muri e della indifferenza. È così?
In questi giorni nei quali la vulnerabilità e la fatica della speranza paiono lasciarci sospesi tra caso e necessità, in cui le domande sul vivere e sul morire restano aperte, pare restino solo degli esili fili della tessitura del mistero dell’incontro. Di un operoso, solidale e sollecito incontro tra le donne e gli uomini.
Dentro le “zone del rispetto” di questa inedita distanza-vicinanza, la cura di sé è cura dell’altro: qui resistono fili di senso, di sogni buoni, di dignità, di giustizia, di gratuità fraterna. Certo nulla ci garantisce che domani sperdimento, rescissione delle radici, cattive nostalgie, ricerca di nuovi idoli rilegittimino l’esercizio della forza tra le donne e gli uomini. Ma ricordiamo le parole di Simone Weil: “ Sembra di trovarsi in un impasse da cui l’umanità possa uscire solo con un miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli”.
Per far fronte al sottile e intimorito insinuarsi della distanza serve lucidità, cura del sentire l’altro, attenzione a chi stiamo diventando. Se così, allora non possiamo che accettare di chinarci di nuovo, con cura e con intelligenza attenuta, sulla vita, sui legami, sul lavoro, e sulle forme della vita comune che resiste e nasce. Sulla vita che a volte muore.
Tante e tanti si chinano, a volte intervenendo e più spesso impotenti tenendo viva una danza di sguardi più che di tocchi e carezze. “Eppure ho già visto tanta sofferenza in passato- mi dice Beppe, un amico medico- ma è come non avessi mai vissuto… qui c’è silenzio, ci si guarda”. Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una. Come salvare il nome proprio di ognuno.
Il dono, la gratuità sono dimensioni proprie d’ogni gesto nostro, nella professione, sul lavoro, a casa, negli incontri, nel gioco … lí o ci offriamo o ci serbiamo solo per noi stessi, per la nostra recita. La prossimità e la cura sono degli umili, dei debitori, dei provati; sono dimensioni di donne e uomini non innocenti, non perfetti, solo riconoscenti.
C’è anche, tragicamente, l’esperienza del dolore assoluto: la morte. Purtroppo tocca chi è già fragile. Il portare il proprio caro sulla soglia delle terapia intensiva e non vederlo più… Uno strazio assoluto, un senso di abbandono non oso immaginare cosa passa nella mente di quelle persone…
All’inizio del corso di laurea magistrale, normalmente faccio due dediche: quest’anno, neppure si parlava ancora della Cina, una l’ho fatta raccontando ai ragazzi del barbiere di Wuhan: avevo letto di quest’uomo che alla fine del suo turno di lavoro andava in quell’ospedale che hanno costruito in dieci giorni a fare un gesto semplicissimo: tagliare i capelli. Dicevo che dovremmo essere come il barbiere di Wuhan, senza sapere che quello in cui saremmo piombati poche settimane dopo. Quel gesto che gli permetteva di vivere, era prima di tutto il suo mestiere, improvvisamente significava di più, ritrovava il suo senso e la sua origine. I gesti della nostra quotidianità, che spesso “distruggiamo” nelle logiche dello scambio e del mercato, hanno dentro comunque il segreto di una cura che questa crisi sta portando in evidenza. Forse potremo riscoprire la profondità dell’affidamento e dell’offerta reciproci.
Certo si muore sempre soli. Ci si lascia, ma ci si può lasciare accanto, in mani care, sentendosi di qualcuno. In questi giorni madri e padri sono morti senza aver più visto figli e figlie, da loro separati. Quanto è vero quel desiderio di ognuno di sentire ancora, infine, il tocco di quando siamo nati, accolti dal palmo di una mano, che ci ha sorretti, puliti, dondolati. Così siamo stati “messi al mondo”. Speriamo di sentire quel palmo sul volto morendo. Oggi per molti, per troppi non si dà.
Non ci resta che sperare, ed è struggente pensare che qualcuno là in una stanza di una Terapia intensiva si ricordi di quella cura e che porti il suo palmo sul nostro, pure se è sconosciuto. Che lo faccia in nome di quella concreta umanità che si è manifestata proprio in quella persona, nella sua vita che adesso finisce. Non possono esserci i parenti? Però ci sei tu, e allora carezzalo, tienigli la mano. Solo questo può lenire la fatica, per chi lo ha amato, della distanza. Quando noi fossimo sicuri di questo, potremmo ringraziare comunque la vita, il fatto che siamo gli uni dagli altri.
È possibile che la solitudine inevitabile non sia un abbandono straziante ma un affidamento; non sia la solitudine dell’abbandono ma un incontro tra poveri.
Anche la Chiesa è colpita dalla Pandemia. Da credente che effetto le fa la domenica senza messa?
“Viene il tempo, ed è questo, in cui si adorerà il Padre in spirito e verità” (Gv, 4) dice Gesù alla Samaritana vicino al pozzo di Giacobbe. È il Vangelo di tre giorni fa. Al di là delle contese su quale tempio, quale monte… Vivere una sorta di pulizia dello spirito, di ritorno alla Parola, d ritrovamento nell’interiorità è il tempo che ci è dato. Che è sempre tempo opportuno.
Quando i riti, i luoghi comunitari, i gesti e le parole scambiate, cantate e “danzate “ insieme, torneranno, forse saranno più capaci (capax: accoglienti, recettive, piene) di serbare e risuonare del dolore e della gioia, dell’ombra e della tenerezza, della fatica e della speranza, della morte e della vita nelle quali la Promessa del Padre si è mantenuta, ha resistito.
La pandemia che entra e scuote coscienze e scelte, pensieri e relazioni, i modi del vivere insieme, e del vivere soli con se stessi, forse chiederà alla Chiesa di aprire al suo interno e sui suoi confini (quelli dove incontra e dialoga con attese, speranze e disorientamenti di tanti uomini) una stagione di riflessione, ascolto, scelta: un Sinodo?. Come una preghiera, corale ed aperta.
Per la fede che sfida porta questa pandemia?
Scriveva Etty Hillesum nel settembre del ’42 “Non potremmo insegnare alle persone che è possibile ‘lavorare e continuare ad avere una vita interiore produttiva e fiduciosa andando al di là delle angosce e dei rumori di fondo che ci assalgono?” Occorre lasciare maturare dentro l’essenziale, mentre tanti, tante cercano in cosa avere fede in questo passaggio. In cosa confidare? Da dove i sostegni per la speranza? Quali gesti e presenze ci si offrono come dono e fraternità? A cosa siamo chiamati?
In noi e tra noi “c’è dell’altro, oltre il bisogno di credere. Si dice, in noi e tra noi, una parola della vita… quasi un sussurro, che può cogliere forse chi vive una fede nuda. Ricordi le pagine di Romano Guardini?
Quando il gesto si accompagna alla charis, alla grazia, l’uomo diviene “un pertugio attraverso il quale Dio e la creazione si guardano”. Così Weil.
Provi davvero la debolezza del credere, credito aperto, speranza di speranza, convincimento non certificabile. Abbandono che attende braccia.
Per l’occidente questa pandemia mette in crisi i suoi miti basati sull’individualismo invincibile.. È così?
Chissà se toccare l’inutile, l’incerto, l’inefficace ci preparerà a tornare a sentire più in profondità il gratuito. La sua energia delicata e decisiva.
È stato recentemente pubblicato (da Castelvecchi) un piccolo testo di Walter Benjamin Esperienza e povertà. È utile per un tempo in cui riuscire così a cominciare da capo, cominciare dal nuovo; a cavarsela con poco, a costruire dal poco, mentre i saperi di prima o toccano il limite o si rivelano futili, se non menzogneri.
Occorrerà, in qualche modo, forse “liberarsi dalle esperienze” quelle ricche, che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano (anche le ingiustizie, i cinismi e le disponibilità) per provare a creare una vita comune in cui fare risaltare una certa povertà ”quella esteriore e alla fine anche interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente”.
Donne e uomini che sentono “un’esistenza che in ogni piega basta a se stessa, nella maniera più semplice”. Dall’indigenza – toccata nella soffocante ricchezza di cose e opportunità e disponibilità per alcuni, nell’esclusione di molti – alla “povertà” di nuove narrazioni, di inizialità essenziali perché capaci di serbare il cuore di consegne antiche e la cura per il futuro di altri. In un esodo esigente, dai cammini non scontati.
Lì potremo riseminare il bisogno di credere, che in questo tempo è così provato, viene così sfibrato, si tende come la corda di un arco sul punto di rottura. E legando, il bisogno di credere, al desiderio e al compito di sapere, di conoscere, d’essere responsabili.
La politica cerca di rispondere con i suoi mezzi a questa crisi. E le risposte in Europa sono state di due tipi: quella italiana, seguita poi da altri paesi, e quella cinica e sostanzialmente menefreghista di Johnson (che ora sta cambiando idea), il premier inglese. Quale lezione sta dando questa pandemia alla politica?
Parto da lontano. Riflettevo in questi giorni in cui il futuro pare entrato in dissolvenza sul fatto che il sentimento del futuro (e del tempo) ce lo eravamo già giocati. Nella festa del “consumatore globale”, futuro, sogno, mito e rito sono sciolti: lo dice bene Bauman ne Il teatro dell’immortalità. Nulla nasce, non si cerca inizio, non si sperano ci lei nuovi e terre nuove. Al più si “innova”.
La politica si trova ora di fronte alla questione del futuro, non del riparo del presente, alla necessità di un ripensamento profondo, di un riorientamento radicale. Deve pensare alla vita, a partire dalla salute, e a una convivenza che la curi, la coltivi, la faccia fiorire. Accorgendosi che ogni vita è vita comune, è vita gli uni degli altri, di uni dagli altri. Ed è chiaro che le politiche sono efficaci quando si appoggiano, interpretano, orientano scelte e pratiche di vita attente e responsabili, capaci di dedizione e di offerta (anche se oggi si dice sacrificio, e si dice male, ha ragione Luigino Bruni ).
La politica oltre al linguaggio dovrà cambiare sguardo: non si tratterà di chiudere una parentesi, ma di sapere insieme ridisegnare una convivenza nuova, nella quale sobrietà, veglia reciproca, coltivazione di ciò che vale, attenzione alle fragilità, uso dei saperi e dei poteri, siamo ritessuti tra le generazioni, tra le culture. Cura della vita comune, della vita nuova. Progettare e costruire come coltivazione della promessa: di dignitá, di riconoscimento, di cura, nessuno escluso. Inizio, l’iniziare è sempre gesto generoso, è offerta, è incontro. Sull’a venire.
Serviranno politici capaci d’essere umili, con il senso della realtà, con capacità di visione e di ascolto. Capaci di richiamo e orientamento. Testimoni e con cura genitoriale.
Ultima domanda Professore. torniamo al punto di partenza : siamo alla ricerca di un senso a questi giorni… Esiste?
C’è chi ha evocato l’inevitabilità di una certa “selezione naturale” dei fragili, dei vecchi, dei disabili. Che spesso sono anche poveri e marginali. Usando toni che Julia Kristeva definirebbe da “derattizzatori del terzo millennio”, nuovi promotori del merito, della eccellenza, del vitalismo, della purezza.
C’è anche chi ha ripreso le immagini del “flagello di Dio”, della punizione e del castigo, della purificazione: il resto dei perfetti resterà intoccato. I messianismi capovolti che tante vittime hanno già fatto si appropriano del virus.
Ma l’umanità ha già mostrato, anche attraversando catastrofi, che ha reagito alla logica della selezione naturale con la fraternità e la pietà, quella feriale e semplice dei tanti operatori sanitari e della cura oggi. Una umanità che alla sofferenza dura e “ingiusta” accosta la attenzione alle vittime, anche degli altri, lontana.
Nel tempo della paura e dell’angoscia non emergono solo le tensioni fraterne e solidali. Nell’emergenza sembrano cavarsela meglio gli indifferenti, ci dicono gli antropologi e gli psicologi delle crisi. La stessa Zambrano in L’agonia dell’Europa , annota che “ogni disastro consente alla gente di manifestarsi nella sua cruda realtà: è strumento di rivelazione”. Rivela anche la forza del risentimento, della separazione dall’altro. Eppure da lì si svela anche come l’uomo (e lei parla proprio dell’uomo europeo) sia una creatura a cui non basta nascere una sola volta: può, anzi “ha bisogno di essere riconcepito” la speranza è “il suo fondo ultimo”, la nuova nascita.
Dobbiamo ancora pensare, sentire l’esperienza che la vita sta disegnando dentro di noi, tra noi, del nostro tempo. Fare attenzione, dobbiamo fare attenzione: “l’educazione all’attenzione è la cosa più importante” scriveva Simone Weil; e ancora “che cos’è la cultura? Educazione all’attenzione” Anzitutto attenzione allo sventurato.”

Ci sono esperienze che possono essere risvegli. Esperienze limite, immaginali e di scelta, di intuizione conoscitiva e di conversione, e durano un passaggio. Per aprire un nuovo inizio quel passaggio deve diventare una soglia, che introduca a un nuovo viaggio, sorretti dalla speranza in una “ulteriorità”, in un nuovo inizi.

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2020/03/alla-ricerca-di-un-senso-questi-giorni.html

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Cuba vigila ma non si chiude. E aiuta gli altri by ilmanifesto

«Tranquillo Roberto, tra un po’ mandiamo i nostri medici e medicinali a darvi una mano in Italia».

Il mio vicino di casa, che nei giorni scorsi era passato da una sentita preoccupazione per la sorte dei miei famigliari nella penisola messa in ginocchio dal Covid-19 a un vago sospetto che i miei amici italiani fossero una sorta di untori, adesso sfoggia l’orgoglio un po’ guascone, caratteristico dei cubani, per il fatto che una piccola isola possa andare in soccorso a nazioni più ricche e potenti.

In sostanza ha ragione. I responsabili della sanità cubana stanno scegliendo il personale medico «per rispondere alle richieste di aiuti di altre nazioni, tra le quali l’Italia». Una brigata medica è stata inviata in Venezuela – da ieri mercoledì in quarantena nazionale per far fronte al corona virus – e altri medici sono stati inviati in Nicaragua, le due nazioni hermanas più vicine a Cuba . Ma richieste di aiuti sono giunte anche da nazioni non certo schierate sulla stessa lunghezza d’onda socialista.

L’ultima è venuta dall’Inghilterra. La nave da crociera MS Braemar è giunta nel porto di Mariel dopo essere rimasta vari giorni in mare con quasi 900 persone tra passeggeri e personale di bordo perché respinta da varie nazioni, compresi ex colonie (Bahamas) e amici fraterni (Usa), perché a bordo vi erano cinque casi confermati di Sars Cov-2 e più di una decina in isolamento – compreso il medico di bordo – per sospetto contagio. Il governo cubano ha accettato la richiesta di aiuto ed era previsto che ieri (mercoledì) i passeggeri – malati e non – fossero trasferiti all’aereoporto dell’Avana dove quattro voli charter organizzati dalle autorità di Londra li porteranno direttamente in Inghilterra (tra i croceristi vi sono anche cittadini italiani).

Il Ministero di salute pubblica (Minsap) «ha preparato tutti i mezzi necessari, sia materiali che umani e tecnologici per condurre un’evacuazione rapida, sicura ed efficiente». In questo periodo così pericoloso «applichiamo i criteri di solidarietà e cooperazione conforme alla tradizione umanista e solidaristica che caratterizza il nostro popolo» ha affermato José antonio Fernandez, portavoce del Ministero degli Esteri.

Vallo a spiegare a Donald Trump che anche in quest’occasione ha dimostrato di considerare i “cugini” europei come vuoti a perdere – oltre che di voler rubar loro un possibile vaccino made in Germany.

L’operazione di salvataggio della Braemar –nonostante gli evidenti pericoli- ha avuto una buona approvazione popolare. Molti dubbi e anche contestazioni invece ha suscitato invece la decisione del governo di tenere aperti gli aeroporti dell’isola per gli stranieri.

 

Non sarebbe più opportuno difenderci riducendo quanto più possibile i contatti con zone infettate? Lo sostengono in molti. In un’epoca di globalizzazione non sono già troppi i pericoli di contagio esterno per aggiungervi anche una misura che va in controtendenza rispetto alla politica di isolamento attuata da molte nazioni?

A queste – e altre – domande e sollecitazioni si sforzano di rispondere le autorità sia politiche che sanitarie con una campagna di informazione che, secondo il presidente Díaz-Canel deve basarsi su criteri di trasparenza e diffusione. José Raúl de Armas, capo del Dipartimento di malattie infettive del Minsap ha informato che «Cuba dispone di un algoritmo diagnostico capace di individuare 17 virus respiratori, incluso il Sars Cov-2, e tre laboratori di biologia molecolare all’Avana, Villa Clara (centro dell’isola) e Santiago (oriente)». Tutti i pazienti sospetti di essere malati di coronavirus sono isolati e studiati per «poter scartare un possibile contagio da questi 17 virus». Al 17 marzo «sono stati ricoverati per controlli epidemiologici 389 pazienti, dei quali 147 sono stranieri; 24.853 sono monitorati dalla sanità pubblica di primo intervento».

Quello che più preoccupa la gente comune è la scarsezza di generi essenziali per l’igiene – saponi, detersivi, alcol e gelatine, mascherine – dovuta in gran parte all’implacabile guerra commerciale-economica e finanziaria condotta dall’amministrazione Trump per strangolare l’isola e provocare un cambio di governo.

Nemmeno in un periodo di conclamata pandemia i falchi di Washington e di Miami sono disposti a allentare lo strangolamento. Anzi soffiano sul fuoco della paura e di un possibile malcontento

Francisco Silva del Ministero del commercio interno ha informato che il governo e il sistema produttivo dell’isola sono impegnati in un intenso sforzo per aiutare le misure di controllo e prevenzione: rifornimento e commercializzazione di prodotti per l’igiene, produzione e distribuzione di soluzioni clorate per lavare le mani dei lavoratori e le superfici dei centri di lavoro e nelle scuole in primis e poi per i cittadini e le case. Più di 500 punti nell’isola sono stati abilitati alla commercializzazione del cloro in modo che i cittadini possano preparare in casa le soluzioni di disinfettanti. 129 centri di produzione sono impegnati a fabbricare mascherine che saranno messe in commercio e distribuite ai vari organismi.

Le scuole restano aperte a tutti i livelli con la raccomandazione – lo stesso vale per i lavoratori – che coloro che presentano un qualsiasi sintomo di problemi respiratori si presentino ai centri di assistenza – medico di famiglia, policlinici di quartiere, ospedali – che valuteranno il loro stato. Una serie di ospedali vengono preparati per far fronte a un massiccio sistema di controllo e di eventuali ricoveri.

Come in Italia, Cuba ha un’alta percentuale di anziani (“prodotto” della sanità pubblica generalizzata e gratuita): il 20,8% della popolazione (oltre 2 milioni di persone) ha più di 60 anni. È il maggior gruppo a rischio ha informato Alberto Fernández Seco, capo del Dipartimento adulto mayor del Minsap. «Il 15% di questi anziani vivono soli, per questo le indagini attive per prevenire i contagi si rivolgono a questo segmento di popolazione».

500 Case degli anziani distribuite nell’isola hanno a disposizione un medico e infermieri che ogni giorno seguono i semiinternati (permessi di visita ridotti, specie per gli stranieri). A queste si aggiungono 293 Case dei nonni, istituzioni sociali e non assistenziali ma con a disposizione trabajadores sociales – giovani che fanno lavoro sociale remunerato – istruiti per individuare sintomi di infezione respiratoria.

«La popolazione può stare tranquilla perchè la copertura medica è garantita a tutti i livelli di attenzione e per tutta la popolazione» ha insistito Fernández Seco. La capacità di affrontare situazioni di emergenza e di malattie infettive del sistema di salute cubano è ormai provata. Anche all’estero: partecipazione di medici cubani per affrontare il virus dell’ebola in Africa e il colera a Haiti, oltre a decine e decine di missioni all’estero in mezzo mondo. Cuba dispone anche di medicinali di produzione propria, come l’Interferón Alfa 2B ricombinante, un antivirale impiegato anche dai cinesi per combattere il coronavirus.

La popolazione, però, è tuttaltro che tranquilla. Ma la campagna battente del governo e la condizione di dover fare di necessità virtù – scarsezza di beni di consumo alimentari, trasporti deficitari – fa sì che la paura la si lascia a casa e le strade sono sempre affollate con poche persone che sfoggiano una mascherina, spesso artigianale.

Le code ai negozi sono generalizzate, almeno dove si vende qualcosa di utile o appetibile ma non vi sono sintomi di accaparramento. Se non quelli “normali” dovuti al fatto che, non essendoci un mercato all’ingrosso, tutti i ristoranti e i bar privati comprano a man bassa nei negozi dove va anche il padre di famiglia (con un budget assai inferiore).

Inoltre vi è la speranza che sia vero che il virus si debilita a temperature superiori ai 28 gradi: il sole del tropico non si arrende.

Il presidente Díaz-canel ha ribadito anche ieri che è necessaria disciplina e fiducia e collaborazione col sistema di salute pubblica. Nei prossimi giorni si potrà verificare la validità della strategia del governo cubano.

https://ilmanifesto.it/cuba-vigila-ma-non-si-chiude-e-aiuta-gli-altri/

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Sul Campo Vergine Il mostro bussa alla porta – di Mike Davis – by francosenia.blog

Sul Campo Vergine

Il mostro bussa alla porta

– di Mike Davis –

Il Coronavirus [*1] è quel vecchio film che abbiamo visto più volte da quando nel 1995 il libro di Richard Preston, “The hot zone. Area di contagio. La vera storia del virus Ebola“, ci ha presentato il demone sterminatore nato in una misteriosa grotta piena di pipistrelli in Africa Centrale, noto col nome di Ebola. Questo è stato solo il primo di tutta una serie di nuove patologie che hanno fatto irruzione nel «campo vergine» (è questo il termine appropriato) dell’inesperto sistema immunitario dell’umanità. Dopo il virus Ebola, è seguita l’influenza aviaria che l’uomo ha contratto nel 1997, e la SARS, comparsa alla fine del 2002. In entrambi i casi, la malattia è comparsa prima a Guangzhou [Canton, Cina], un polo manifatturiero mondiale. Ovviamente, Hollywood ha preso tutte queste epidemie ed ha prodotto una serie di film per provocarci e spaventarci: “Contagion” (2011), diretto da Steven Soderbergh, si distingue per la sua precisione scientifica e per la sua spaventosa anticipazione dell’attuale caos. Oltre ai film e ai tanti romanzi lugubri, centinaia di libri e di articoli scientifici hanno risposto a ciascuna epidemia, molti di essi sottolineando spesso il deplorevole stato di prevenzione e preparazione delle emergenze a livello globale per individuare e reagire a queste nuove malattie.

Caos numerico
Insomma, il Coronavirus entra dalla porta di casa nostra come un mostro già familiare. Il sequenziamento del suo genoma (peraltro molto simile a quello di sua sorella ampiamente studiata, la Sars) è stato un gioco da ragazzi. Tuttavia ancora mancano le informazioni più importanti. Mentre i ricercatori lavorano giorno e notte per identificare l’epidemia, devono affrontare tre enormi sfide. In primo luogo, la continua scarsità di kit diagnostici per l’infezione virale, soprattutto negli USA e in Africa, ha impedito la proiezione di stime accurate di quelli che sono i parametri chiave, come il tasso di riproduzione, la consistenza della popolazione infettata e la quantità di infezioni a carattere benigno. l risultato è stato un assoluto caos numerico. Alcuni paesi, tuttavia, dispongono di dati più affidabili riguardo l’impatto del virus su certi gruppi. E le informazioni sono spaventose. L’Italia, ad esempio, registra un tasso di mortalità del 23% tra le persone di età superiore ai 65 anni di età; in Inghilterra, per questo gruppo, il dato è pari al 18%. L’«influenza corona» sottovalutata da Trump rappresenta un pericolo senza precedenti per la popolazione delle persone anziane, con un potenziale bilancio di mortalità di milioni di persone. In secondo luogo, come avviene con le influenze stagionali, il virus muta nella misura in cui attraversa popolazioni che hanno differenti composizioni per età e per condizioni di salute. La varietà che gli statunitensi hanno più probabilità di contrarre, è già leggermente diversa da quella identificata nell’epidemia originale di Wuhan. Le future mutazioni del virus possono sia essere benigne, così come possono alterare quella che è la distribuzione della virulenza, la quale attualmente sta crescendo in maniera vertiginosa a partire dalle persone di 50 anni di età. L’«influenza corona» di Trump rappresenta un pericolo mortale per almeno un quarto degli statunitensi anziani che hanno un sistema immunitario debole o hanno problemi respiratori cronici. In terzo luogo, anche se il virus rimane stabile e subisce poche mutazioni, è possibile che il suo impatto sui più giovani differirà radicalmente nei paesi poveri e tra i gruppi ad alta povertà. Si consideri l’esperienza globale dell’influenza spagnola del 1918-19, che si stima abbia ucciso circa l’1-2% dell’umanità. Negli Stati Uniti e in Europa Centrale, il virus originale del H1N1 aveva un tasso di letalità più elevato tra i giovani adulti, e la spiegazione che solitamente veniva fornita per questo è che il loro sistema immunitario, relativamente più forte, finiva per reagire troppo fortemente all’infezione ed attaccava cellule polmonari, portando così ad una polmonite virale e ad uno shock settico. Tuttavia, più recentemente, alcuni epidemiologi hanno ipotizzato che gli adulti più anziani potevano aver acquisito una «memoria immunitaria» grazie ad un’epidemia precedente avvenuta negli anni 1890 che li avrebbe protetto. In ogni caso, è noto che il virus H1N1 aveva trovato una nicchia privilegiata negli accampamenti dell’esercito e nelle trincee delle battaglie, dove causò la morte di decine di migliaia di giovani soldati. Questo divenne un fattore importante nella battaglia tra imperi. Si è arrivati ad attribuire il collasso della grande offensiva tedesca, nella primavera del 1918, e pertanto l’esito della guerra, al fatto che gli alleati, a differenza del loro nemico, sono stati in grado di rifornire i loro eserciti malati con le truppe statunitensi appena arrivate. L’influenza spagnola, nei paesi poveri aveva già un profilo differente. Raramente si tiene conto del fatto che il 60% di mortalità globale (e questo rappresenta almeno 20 milioni di morti) si è verificato a  Punjabi, Pompéia, e in altre parti dell’India Occidentale, dove le esportazioni di grano verso l’Inghilterra e le brutali pratiche di requisizione coincisero con una siccità generalizzata. Le carestie alimentari che ne conseguirono spinsero milioni di poveri sull’orlo della fame. Queste popolazioni divennero vittime di una sinistra sinergia tra la malnutrizione – che sopprimeva la risposta immunitaria all’infezione – e i dilaganti focolai di polmoniti virali e batteriche. In un altro caso simile, l’Iraq sotto occupazione inglese, dopo molti anni di siccità, di colera e di penuria di cibo, oltre che ad una epidemia generalizzata di malaria, venne stimata la morte di un quinto della popolazione.
Questa storia – soprattutto quelle che sono state le conseguenze sconosciute dovute alle interazioni con la malnutrizione e le infezioni già esistenti – ci dovrebbe allertare sul fatto che nelle dense ed insalubri favelas dell’Africa e dell’Asia meridionale il Covid-19 può prendere una strada diversa e più letale. Dei casi che ora ci vengono segnalati nel Lagos, a Kigali, Addis Abeba e Kinshasa, nessuno sa (né lo saprà per molto, a causa della mancanza di test diagnostici) sotto quale forma entrerà in sinergia con le condizioni sanitarie locali e con le altre malattie presenti nella regione. Il pericolo costituito da questo fenomeno per le popolazioni povere di tutto il mondo, sta venendo quasi del tutto ignorato dai media e dai governi occidentali. L’unico articolo pubblicato che argomenta in tal senso, sostiene che dal momento che la popolazione urbana dell’Africa è la più giovane del mondo, la pandemia dovrebbe avere su di essa solo un lieve impatto. Ma alla luce dell’esperienza del 1918, questo appare solo come una sciocca estrapolazione. Così come lo è la supposizione che la pandemia, come avviene con l’influenza stagionale, si ridurrebbe a contatto con i climi più caldi. (Tom Hanks ha appena contratto il virus in Australia, dove adesso è estate.)

Una Katrina medica
È possibile che da qui a un anno guarderemo ammirati al successo che ha avuto la Cina nel contenere la pandemia, e che rimarremo inorriditi di fronte al fallimento degli Stati Uniti. (Sto facendo qui, l’eroica supposizione che l’affermazione fatta dalla Cina secondo cui il tasso di trasmissione del contagio sta diminuendo rapidamente è più o meno precisa). L’incapacità delle nostre istituzioni a tenere chiuso il Vaso di Pandora, ovviamente, non sorprende nessuno. Dal 2000 non abbiamo fatto altro che continuare ad assistere a continui collassi sulla linea del fronte sanitario. Sia la stagione influenzale del 2009, quanto quella del 2018, per esempio, hanno avuto l’effetto di sovraccaricare gli ospedali di tutto il paese, mostrando la scioccante carenza di posti letto negli ospedali dopo venti anni di tagli alla capacità sanitaria, a causa della massimizzazione dei profitti (la versione del settore ospedaliero nella gestione dell’inventario just-in-time). La crisi risale all’offensiva corporativa che portò Reagan al potere e trasformò i leader del Partito Democratico nei suoi portavoce neoliberisti. Secondo l’American Hospital Association, tra il 1981 ed il 1999, il numero di letti ospedalieri ha subito un pauroso declino del 39%. L’obiettivo era quello di far aumentare i profitti attraverso un aumento del “censimento” (calcolato a partire dal numero dei letti occupati). Ma l’obiettivo di arrivare a gestire un tasso di occupazione dei letti del 90% significava far sì che gli ospedali non avessero più alcuna capacità di assorbire un flusso di pazienti in situazioni di epidemia e di emergenza medica. Gli ospedali privati e di carità hanno chiuso le porte, e la carenza di personale infermieristico, provocata anch’essa dalle logiche di mercato, hanno devastato quelli che erano i servizi sanitari nelle comunità più povere e nelle aree rurali, trasferendo l’onere sugli ospedali pubblici sotto-finanziati e sulle istallazioni mediche del Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti. Se già in tali istituti le condizioni dell’assistenza di emergenza non sono nemmeno in grado di far fronte a quelle che sono le infezioni stagionali, come ci si può aspettare che riescano ad affrontare un imminente sovraccarico di casi critici?
Nel nuovo secolo, nel settore privato, la medicina emergenziale ha continuato a subire riduzioni a causa dell’imperativo di preservare il «valore per gli azionisti», cercando di aumentare i dividendi ed i profitti a breve termine, e nel settore pubblico attraverso l’austerità fiscale e i tagli nei bilanci statali e federali di prevenzione e di preparazione alle emergenze. Il risultato di tutto questo è che ci sono disponibili 45.000 letti in Terapia Intensiva per affrontare quella che sarà la valanga prevista di casi gravi e critici di Coronavirus. (In confronto, i sudcoreani dispongono di tre volte più letti rispetto a quelli che ci sono per ogni mille americani). Secondo una ricerca svolta da Usa Today, «solo otto Stati avrebbero letti d’ospedale sufficienti a poter trattare il milione di americani, che sono sui 60 o più anni di età e che potrebbero ammalarsi di Covid-19». Nel frattempo, i repubblicani hanno respinto tutti gli sforzi di ricostruire la rete di sicurezza distrutta dai tagli di bilancio della recessione del 2008. Oggi, i dipartimenti sanitari comunali e statali – la prima (e vitale) linea di difesa – dispongono di equipe ridotte del 25% rispetto a quelle della crisi finanziaria di dodici anni fa. Inoltre, nell’ultimo decennio, il budget dei Centri di Controllo e Prevenzione delle Malattie ha subito, in termini reali, un taglio del 10%. Recentemente, il New York Times ha riportato che «il 21% dei dipartimenti sanitari comunali registrano riduzioni nei loro budget per quello che è l’anno fiscale 2017». Trump ha chiuso anche la sede dell’Ufficio per la Pandemia della Casa Bianca, un istituto che era stato creato da Obama dopo l’epidemia di Ebola del 2014 al fine di garantire una risposta nazionale rapida e ben coordinata di fronte alle nuove epidemie. Ci troviamo nella fase iniziale di una Katrina medica. Disinvestendo nella prevenzione e nel prepararsi all’emergenza medica, proprio nel momento in cui tutti le valutazioni degli esperti raccomandano un’espansione generalizzata di tali capacità, finiamo per trovarci in una situazione in cui ci vengono a mancare sia le forniture di base che gli operatori sanitari pubblici e i letti di emergenza, Le riserve nazionali e regionali di forniture ospedalieri vengono stoccate in misura assai inferiore a quelle che sono le linee guida epidemiologiche. Per questo motivo, la mancanza dei kit per il test diagnostico ha coinciso con una carenza critica di equipaggiamenti protettivi di base per gli operatori sanitari. Le infermieri militanti, vale a dire, la nostra riserva nazionale di coscienza sociale, garantiscono che tutti noi comprendiamo quali sono i gravi pericoli provocati da un inadeguato immagazzinamento di materiale protettivo essenziale, come le mascherine facciali N95. Sono loro a ricordarci che gli ospedali sono diventati ambienti ideali per i microrganismi resistenti agli antibiotici, come il “Clostridioides difficile” che può diventare un agente secondario assai mortale nei reparti ospedalieri sovraffollati. Ancora più vulnerabili, in quanto invisibili, sono quelle centinaia di migliaia di operatori di case di riposo e quei team di assistenza a domicilio che operano in condizioni di sotto-pagamento e di sovraccarico di lavoro.

La divisione in classi
L’epidemia ha portato immediatamente alla luce la netta divisione di classe nell’assistenza sanitaria, che “La Nostra Rivoluzione” ha messo nell’Agenza nazionale. In breve: coloro che dispongono di un buon piano sanitario, e che hanno anche la possibilità di poter lavorare, o insegnare, da casa si trovano comodamente isolati, purché seguano le linee guida della sicurezza. I funzionari pubblici e gli altri gruppi di lavoratori sindacalizzati che godono di una copertura dignitosa dovranno fare delle scelte difficili, e dovranno scegliere tra reddito e protezione. Nel frattempo, milioni di lavoratori a basso reddito del settore dei servizi, lavoratori agricoli, disoccupati e senzatetto verranno dati in pasto ai lupi. Anche se alla fine Washington si renderà conto del disastro dei test e fornirà un adeguato numero di kit per le diagnosi, coloro che non hanno un’assicurazione sanitaria dovranno comunque pagare medici o ospedali per poter fare i test. Le spese mediche familiari saliranno alle stelle, nel momento in cui milioni di lavoratori staranno perdendo il loro posto di lavoro insieme ai piani sanitari che fornivano loro i datori di lavoro. Può esserci a questo punto un sostegno più forte ed urgente di questo alla proposta di estendere a tutti il Medicare?
Ma, come sappiamo tutti, una copertura universale che possa essere minimamente efficace richiede anche una copertura universale per quelle che sono le assenze retribuite per motivi di salute. Attualmente, il 45% della forza lavoro si vede negato tale diritto: tutte queste persone sono pertanto praticamente costrette a trasmettere l’infezione o a rinunciare al loro reddito mensile. Allo stesso modo, 14 Stati governati dal Partito Repubblicano si sono rifiutati di attuare l’Affordable Care Act [*3], che estende il Medicaid ai lavoratori poveri. È per questo che un texano su quattro, per esempio, non dispone di copertura, e se ha bisogno di cure può contare solo sul pronto soccorso dell’ospedale municipale. Le contraddizioni mortali dei piani sanitari privati nell’era della pestilenza, sono forse ancora più visibili nel settore dell’assistenza a domicilio che gestisce 2,5 milioni di americani anziani, molti dei quali dipendono dal Medicare. La situazione ha costituito per molto tempo uno scandalo nazionale. Si tratta di un settore altamente competitivo, capitalizzato a partire da salari bassi, carenza di personale e di riduzione illegale dei costi. Secondo il New York Times, 380.000 pazienti delle case di cura muoiono ogni anno a causa della negligenza e l’incuria di queste strutture per quel che riguardano le procedure di base per il controllo delle infezioni. Molte di queste case di cura – in particolare, negli Stati del Sud del paese – considerano che sia più economico pagare le multe per le violazioni sanitarie piuttosto che assumere altro personale e formarlo in maniera adeguata. Non stupisce che il primo epicentro comunitario di diffusione sua stato il Life Care Center, una casa di riposo a Kirkland, che si trova alla periferia di Seattle. Parlando con Jim Straub, un vecchio amico che è anche leader sindacale nelle case di riposo della regione di Seattle, e che attualmente sta scrivendo per The Nation un’articolo sull’argomento. Egli ha definito la struttura come «una delle peggio equipaggiate, a livello di personale, di tutto la Stato» e ha descritto tutto il sistema di case di cura del Washington come «il più sotto-finanziato del paese – un’assurda oasi che soffre di austerità in quello che è un mare di soldi dell’industria dell’alta tecnologia». Inoltre, ha sottolineato come i funzionari della sanità pubblica stessero ignorando il fattore cruciale che spiega il rapido tasso di diffusione della malattia dal Life Care Center alle altre dieci case di cura vicine: «i lavoratori delle case di riposo che si trovano nel mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti, di regola lavorano in più posti di lavoro, e in genere si tratta di più case di riposo». Egli sostiene che le autorità non sono state in grado di scoprire quali fossero i luoghi di questi secondi lavori, e in questo modo hanno perso qualsiasi controllo sul contagio del Covid-19. E a tutt’ora non c’è ancora nessuno che proponga di retribuire il lavoratori esposti in modo che possano restare a casa. Ora, come ci avverte l’esempio di Seattle, ci sono decine, forse centinaia di case di riposo in tutto il pase che probabilmente diverranno focolai di Coronavirus, e molti degli operatori in queste case di riposo che percepiscono il salario minimo sceglieranno ragionevolmente di restare a casa per proteggere le proprie famiglie. In una situazione del genere, il sistema potrebbe entrare in collasso – e nessuno si aspetta che la Guardia Nazionale venga ad occuparsi della sostituzione dei raccoglitori di urina.

Solidarietà internazionale
Ad ogni passo della sua micidiale avanzata, la pandemia promuove la difesa di una politica di copertura universale e di assenza retribuita dal lavoro. Mentre Biden si concentra su come scalfire la popolarità di Trump, i progressisti devono unirsi, come propone Bernie, per riuscire a vincere la Convention grazie al suo programma Medicare for All. Insieme, i delegati di Bernie Sanders e Elizabeth Warren devono svolgere il loro ruolo nel Fiserv Forum a Milwaukee, a metà Luglio [*2], ma tutti noi, nelle strade, abbiamo un compito altrettanto importante, a cominciare subito dalle lotta contro gli sfratti, contro i licenziamenti e contro i datori di lavoro che si rifiutano di retribuire i lavoratori assenti (Avete paura del contagio? Rimanete a 2 metri di distanza dal compagno più vicino, e garantite così comunque una potente immagine per la TV. Ma dobbiamo dimostrare nelle strade). Com’è noto, la copertura universale è solo un primo passo. È a dir poco deludente che ai dibattiti sulle primarie del Partito Democratico, né Sanders né Warren abbiano richiamato l’attenzione su come le grandi aziende farmaceutiche [Big Pharma] abbiano rinunciato ad investire nella ricerca e nello sviluppo di nuovi antibiotici ed antivirali. Delle maggiori 18 imprese farmaceutiche, ben 15 hanno abbandonato completamente il campo. Farmaci cardiaci, tranquillanti e trattamenti dell’impotenza maschile sono alcuni fra i prodotti più redditizi del settore, ma di questi non fanno parte la difesa contro le infezioni ospedaliere e le tradizionali malattie letali tropicali, come la malaria. Il vaccino universale contro l’influenza, vale a dire, un vaccino mirato  a quelle che sono le parti immutabili delle proteine di superficie del virus, è già da decenni una possibilità, ma non è abbastanza redditizio da essere considerato una priorità. Man mano che retrocede la rivoluzione degli antibiotici, accanto alle nuove infezioni ricompariranno le vecchie patologie e gli ospedali diverranno degli ossari. E perfino uno come Trump può mettersi opportunisticamente a lottare contro i costi assurdi dei farmaci prescritti. Ciò che ci serve, tuttavia, è una visione più audace che rompa i monopoli farmaceutici e fornisca al pubblico una produzione di farmaci vitali (una volta le cose stavano così: durante la Seconda Guerra Mondiale, l’esercito convocò Jonas Salk ed altri ricercatori per sviluppare il primo vaccino antinfluenzale). Come ho scritto 15 anni fa nel mio libro, “The Monster at Our Door, The Global Threat of Avian Flu“, «L’accesso ai farmaci vitali, tra i quali vaccini, antibiotici e antivirali, dovrebbe essere un diritto umano, universale e gratuito. Se i mercati non forniscono incentivi per produrre tali medicine a costi ragionevoli, il settore pubblico e quello no profit devono prendersi la responsabilità di produrle e distribuirle. La vita dei poveri deve sempre venire prima dei profitti delle multinazionali farmaceutiche [Big Pharma]».
L’attuale pandemia conferisce ulteriore forza a tale argomentazione: la globalizzazione capitalista si manifesta ora come biologicamente insostenibile e un’infrastruttura sanitaria pubblica internazionale diventa una necessità. Ma una simile infrastruttura non esisterà mai in assenza di movimenti popolari in grado di rompere il monopolio Big Pharma e liberare la salute dalla sua condizione di fonte di profitto. Tutto questo esige un progetto socialista indipendente per la sopravvivenza umana che vada oltre un Secondo New Deal. A partire dal movimento Occupy, i progressisti hanno messo all’ordine del giorno la lotta contro le disuguaglianze economiche e di reddito, e questo è stato un grande risultato. Ma ora i socialisti devono fare il passo successivo e lottare, avendo come obiettivi immediati le industrie farmaceutiche, per la proprietà sociale e per la democratizzazione del potere economico. Ma si deve essere in grado di valutare onestamente le nostre debolezze politiche e morali. Per quanto io abbia visto con entusiasmo un’evoluzione a sinistra di una nuova generazione, e il ritorno della parola “socialismo” nel discorso politico, nel movimento progressista c’è un elemento inquietante di solipsismo nazionale che è simmetrico al nuovo nazionalismo di destra. Si tende a parlare solo della classe operaia americana e della storia radicale degli Stati Uniti (dimenticando forse che Eugene V. Debs era un internazionalista fino al suo ultimo capello). Si arriva perfino ad una versione di sinistra del tormentone «America First».
Di fronte a questa pandemia, i socialisti devono cogliere tutte le occasioni per ricordare agli altri l’urgenza della solidarietà internazionale. Concretamente, dobbiamo mobilitare i nostri amici progressisti, e i loro ideali politici, al fine di rivendicare un massiccio aumento nella produzione di kit diagnostici, di attrezzature di sicurezza e di farmaci vitali da distribuire gratuitamente ai paesi poveri. Spetta a noi garantire che il Medicare per Tutti divenga tanto una politica estera quanto una politica interna degli Stati Uniti.

Mike Davis Pubblicato il 16/3/2020 su BlogDaBoitempo

NOTE:

[*1] – Si è fatta molta confusione per quanto riguarda la terminologia scientifica: Il Comitato Internazionale di Tassonomia dei Virus, ha denominato il virus SARS-CoV-2. La denominazione COVID-19 si riferisce invece all’epidemia.
[*2] – L’autore fa qui riferimento alla Convenzione Nazionale Democratica del 2020, la quale definirà quale sarà il candidato scelto dal Partito per affrontare Donald Trump nelle elezioni presidenziali di quest’anno. La disputa, com’è noto, attualmente è tra Joe Biden e Bernie Sanders, e il sostegno della base della candidata progressista Elizabeth Warren appare come un fattore cruciale per la vittoria di Sanders.
[*3] – L’«Patient Protection and Affordable Care Act» è la «Legge Federale di Protezione e Cura del Paziente», denominata «Obamacare», approvata dal Presidente degli Stati Uniti nel marzo del 2010.

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Raoul Vaneigem: La rinascita dell’umano è la sola crescita che ci conviene: scarica il documento

Raoul Vaneigem: La rinascita dell’umano è la sola crescita che ci conviene

Due realtà si combattono e si urtano con violenza. Una è la realtà della menzogna. L’altra è la realtà di quel che è vissuto quotidianamente dalle popolazioni.

1Le mazzate che la libertà porta all’idra capitalista che la soffoca fanno fluttuare di continuo l’epicentro delle perturbazioni sismiche. I territori mondialmente defraudati dal sistema del profitto sono in preda a un afflusso improvviso di movimenti insurrezionali. La coscienza è obbligata a inseguire ondate successive di avvenimenti, a reagire a degli sconvolgimenti costanti, paradossalmente prevedibili e inopinati.Due realtà si combattono e si urtano con violenza. Una è la realtà della menzogna. Beneficiando del progresso delle tecnologie, essa s’impegna nel manipolare l’opinione pubblica a favore dei poteri costituiti. L’altra è la realtà di quel che è vissuto quotidianamente dalle popolazioni.

Da un lato delle parole vuote partecipano al gergo degli affari, dimostrano l’importanza delle cifre, dei sondaggi, delle statistiche; architettano dei falsi dibattiti la cui proliferazione maschera i veri problemi: le rivendicazioni esistenziali e sociali. Le loro finestre mediatiche riversano ogni giorno la banalità delle truffe e dei conflitti d’interesse che ci riguardano unicamente per le loro conseguenze negative.

Le loro guerre di devastazione redditizia non sono le nostre, non hanno altro scopo che dissuaderci dal combattere la sola guerra che ci riguarda, quella contro la disumanità mondialmente propagata.

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https://www.nautilus-autoproduzioni.org/wp-content/uploads/2020/02/Vaneigem-larinascita-dellumano6.pdf

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La Grande Guerra by carmillaonline

di Alessandra Daniele

I tre stadi dell’elaborazione del trauma in Italia:

  1. Rifiuto
  2. Mercato
  3. Golpe

L’avvocato Giuseppe Conte, che nessuno ha mai votato, nessuno ha mai eletto, nessuno nemmeno conosceva prima che diventasse premier, è apparso a reti unificate ed ha decretato lo stato d’assedio in tutto il paese, nel plauso unanime di maggioranza, opposizione, Confindustria, e media mainstream.
Chiusura obbligatoria su tutto il territorio nazionale di scuole, università, musei, cinema, teatri, ristoranti, alberghi, discoteche, stadi, e di quasi tutti i negozi.
Ma non delle fabbriche.
Stop al campionato di calcio e alla celebrazione delle messe.
Ma non ai cantieri.
Parlamento ridotto al minimo. Elezioni amministrative e referendum rimandati a settembre.
Vietato spostarsi, vietato riunirsi, vietato uscire di casa se non per fare la spesa, o andare al lavoro per contribuire allo sforzo bellico, come si dice in tempo di guerra.
Vietato assentarsi.
E vietato ammalarsi, perché il nostro sistema sanitario non può curarci tutti, non ha i fondi, il personale, le attrezzature, i posti letto.
Se ci ammaliamo in troppi, ai medici toccherà scegliere chi salvare, come in tempo di guerra.
Come siamo arrivati a questo punto?
Un passo alla volta.
Un taglio alla volta.
Una Sanità pubblica dissanguata dai tagli al bilancio, trattata per decenni come una Bad Company da rottamare.
Rifiuto in nome del Mercato.
Guai ad ammettere le inevitabili conseguenze di decenni di politiche criminali.
Guai a spaventare i turisti, gli investitori, la Borsa.
Poi golpe bianco, mentre il contagio è già fuori controllo, e l’Europa ci sbatte la porta in faccia, nel vano tentativo di evitare una sorte analoga che gli sta già capitando.
Golpe “necessario”, ben riconoscibile sotto la mascherina, ma che in pochi osano contestare apertamente, perché l’alternativa fa più paura.
Pestilenza.
Il Cavaliere dell’Apocalisse che governa il mondo in una coalizione di larghe intese con Guerra, Carestia e Morte.

La Grande Guerra

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