Primo Levi : Piombo – ZOLFO, TITANIO, ARSENICO da radio 3 rai ed altro di Primo Levi

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Piombo

Il mio nome è Rodmund, e vengo di lontano. Il mio paese si chiama Thiuda; noi almeno lo chiamiamo così, ma i nostri vicini, e cioè i nostri nemici, ci chiamano con nomi diversi, Saksa,Nemet, Alaman. Il mio paese è diverso da questo: ha grandi foreste e fiumi, inverni lunghi, paludi, nebbie e piogge. I miei, voglio dire quelli che parlano la mia lingua, sono pastori, cacciatori e guerrieri: non amano coltivare la terra, anzi disprezzano chi la coltiva, spingono le greggi sui loro campi, saccheggiano i loro villaggi e fanno schiave le lor odonne. Io non sono né pastore né guerriero; non sono neppure un cacciatore, benché il mio mestiere non sia poi molto diverso dalla caccia. Mi lega alla terra, ma sono libero: non sono un contadino.
Mio padre, e tutti noi Rodmund in linea paterna, facciamo da sempre questo mestiere, che consiste nel
conoscere una certa pietra pesante, trovarla in paesi lontani, affocarla in un certo modo che noi conosciamo, e cavarne il piombo nero. Presso il mio villaggio c’era un giacimento grande: si dice che fosse stato scoperto da un mio proavo, che chiamavano Rodmund DentiAzzurri. È un villaggio di fabbri del piombo: tutti lo sanno fondere e lavorare, ma soltanto noi Rodmund sappiamo trovare la pietra, ed assicurarci che è vera pietra da piombo, e non una delle tante pietre pesanti che gli Dei hanno seminato nelle montagne per i ngannare l’uomo. Sono gli De iche fanno crescere sotto terra le vene dei metalli,ma le tengono segrete, nascoste; chi le trova, è quasi loro pari, e perciò gli Dei non lo amano, e tentano di confonderlo. Non amano noi Rodmund: ma noi non ce ne curiamo.
Ora, in cinque o sei generazioni il giacimento si è esaurito: qualcuno ha proposto di seguirlo sotto terra scavando gallerie, ed ha anche provato con suo danno; infine il parere dei più prudenti ha prevalso. Tutti gli uomini hanno ripreso i vecchi mestieri, ma io no: come il piombo, senza di noi, non vede la luce, così noi senza piombo non possiamo vivere. La nostra è un’arteche rende ricchi, ma fa moriregiovani. Qualcuno dice che questo avviene perché ilmetallo entra nel sangue e lo smagrisce a poco a poco; altri pensano piuttosto che sia una vendetta degli Dei, ma in ogni modo a noi Rodmund importa poco che la nostra vita sia breve, perché siamo ricchi, rispettati e vediamo il mondo. Infatti, il caso di quel mio proavo dai denti azzurri è eccezionale, perché era eccezionalmente ricco il giacimento che lui aveva scoperto: in generale, noi cercatori siamo anche viaggiatori. Lui stesso, mi hanno raccontato, veniva da molto lontano, da unpaese dove il sole è freddo e non tramonta mai, lagente abita in palazzi di ghiaccio, e nel mare nuotano mostri marini lunghi mille
passi.
Così, dopo sei generazioni di sosta, io ho ripreso a viaggiare, alla ricerca di pietre da fondere, o da far fondere da altre genti, insegnandogli l’arte contro oro; ecco, noi Rodmund siamo negromanti: mutiamo il piombo in oro.
Sono partito da solo, verso sud, quando ero ancora giovane. Ho viaggiato per quattro anni, di contradain contrada, evitando le pianure, risalendo le valli, battendo col martello, trovando poco o nulla: d’estate lavoravo nei campi, d’inver
no intrecciavo canestri o spendevo l’oro che mi ero portato con me. Da solo, ho detto:
a noi le donne servono per darci un figlio maschio , che la razza non si spenga, ma non ce le portiamo dietro. A che servirebbero? La pietra, non imparano a trovarla, e anzi, se la toccano quando hanno le loro regole, si scioglie in sabbia morta e in cenere. Meglio le ragazze che si incontrano per via, buone per una notte o per un mese, con cui si fabaldoria senza pensare al domani, come invece fanno le mogli. Il nostro domani, è meglio viverlo da soli: quando la carne comincia afarsi flaccida e pallida, il ventre a dolere, i capelli e i denti a cadere, le gengive a diventare grigie, allora è meglio essere soli.
Sono arrivato in un posto da cui, nei giorni sereni, si vedeva a sud una catena di montagne. A primave
ra mi sono rimesso in cammino, deciso a raggiungerle: ero pieno di noia per quellaterra appiccicosa e molle, buona a nulla, buona a far ocarine di coccio, priva di virtùe di segreti. In montagna è diverso, le rocce, che sono le ossa della terra, si vedono scoperte, suonano sotto le scarpe ferrate, ed è facile distinguere le diverse qualità: le pianure non fanno per noi. Io chiedevo in giro dov’era il valico più agevole; chiedevo anche se avevano piombo, dove lo comperavano, quanto lo pagavano: più caro lo pagavano, più cercavo nelle vicinanze. Qualche volta, non sapevano neppure che cosa fosse, il piombo: quando gli mostravo il pezzo di lastra che mi porto sempre nella bisaccia, ridevano a sentirlo così
tenero, e per derisione mi domandavano se al mio paese si fanno di piombo anche i vomeri e le spade. I
l più delle volte, però, non riuscivo né a capirli né a farmi capire: pane, latte, un giaciglio, una ragazza, la direzione da prendere l’indomani, e basta.
Ho superato un largo valico in piena estate, col sole che a mezzogiorno era quasi a picco sulla mia testa, eppure c’erano ancora chiazze di neve sui prati. Poco più in basso c’erano greggi , pastori e sentieri: si vedeva il fondo della valle, tanto in basso che sembrava ancoraimmerso nella notte. Sono disceso, trovando villaggi, uno anzi piuttosto grande, sul torrente, dove imontanari scendevano a scambiare
bestiame, cavalli, formaggio, pellicce, e una bevanda rossa che chiamavano vino. Mi scappava da ridere
a sentirli parlare: il loro linguaggio era un barbugliare rozzo e indistinto, un bar-bar animalesco, tanto che c’era da stupirsi a vedere che invece avevano armi ed attrezzi simili ai nostri, alcuni anzi anche più ingegnosi ed elaborati. Le donne filavano come da noi; costruivano case di pietra, non tanto belle ma solide: alcune invece erano di legno , sospese a qualche palmo dal suolo perché appoggiavano su quattro o sei ceppi dilegno sormontati da dischi di pietra liscia; credo che questi ultimi servano ad impedire l’ingresso dei topi, e questa mi è sembrata un’invenzione intelligente. I tetti non erano di pa
glia, ma di pietre larghe e piatte; la birra non la conoscevano.
Ho visto subito che in alto, nelle pareti della valle, c’erano fori nella roccia e colate di detriti:
segno che anche da quelle parti c’era qualcuno che cercava. Ma non ho fatto domande, per
non destare sospetti; un forestiero come me ne doveva già destare fin troppi.
Sono sceso al torrente che era abbastanza impetuoso (mi ricordo che aveva l’acqua torbida e bianchiccia,  come se ci fosse mescolato del latte, cosa che dalle mie parti non si è mai vista), e mi sono messo con pazienza ad esaminare le pietre: questa è una delle nostre malizie, i sassi dei torrenti vengono di lontano, e parlano chiaro a chi sa capire. C’era un po’ di tutto: pietre focaie, sassi verdi, pietre da calce, granito, pietra da ferro, perfino un po’ di quella che noi chiamiamo galmeida, tutta roba che non mi interessava; eppure, avevo come un chiodo in testa che in una valle fatta come
quella, con certe striature bianche sulla roccia rossa, con tanto ferro in giro, le pietre
da piombo non dovevano mancare.Me ne andavo giù lungo il torrente, un po’ sui massi, un po’ guadando dove si poteva, come un cane da caccia, con gli occhi inchiodati a terra, quando ecco, poco sotto alla confluenza di un altro torrente più piccolo, ho visto un sasso in  mezzo a milioni di altri sassi, un sasso quasi uguale a tutti gli altri, un sasso bianchiccio con dei granelli neri, che mi ha fatto fermare, teso ed immobile, proprio come un bracco che punta. L’ho raccolto, era pesante, accanto ce n’era un altro simile ma più piccolo. Noi è difficile che ci sbagliamo: ma a buon conto l’ho spezzato, ne ho preso un frammento come una noce e me lo sono portato via per saggiarlo. Un buon cercatore, uno serio, che non voglia dire bugie né agli altri né a se stesso, non si deve fidare delle apparenze, perché la pietra, che sembra morta, invece è piena d’inganni: qualche volta cambia sorte addirittura mentre la scavi, come certi serpenti che cambiano colore per non farsi scorgere. Un buon cercatore, dunque, si porta dietro tutto: il crogiolo d’argilla, la carbonella, l’esca, l’acciarino, e un altro strumento
ncora che è segreto e non vi posso dire, e serve appunto a capire se una pietra è buona o no
A sera mi sono trovato un posto fuori mano, ho fatto un focolare, ci ho messo sopra il crogiolo ben stratificato, l’ho arroventato per mezz’ora e l’ho lasciato raffreddare. L’ho rotto, ed eccolo, il dischetto lucido e pesante, che si incide con l’unghia, quello che ti allarga il cuore e fa sparire dalle gambe la stanchezza del cammino, e che noi chiamiamo “il piccolo re”.
A questo punto non è che uno sia a posto: anzi, il più del lavoro è ancora da fare. Bisogna risalire i
l torrente, e ad ogni biforcazione cercare se la pietra buona continua a destra o a sinistra. Ho risalito per un bel po’ il torrente più grosso, e la pietra c’era sempre, ma era sempre molto rara; poi la valle si restringeva in una gola talmente profonda e ripida che non c’era neanche da pensare a risalirla. Ho chiesto ai pastori, lì intorno, e mi hanno fatto capire, a gesti e a grugniti, che non c’era proprio modo di aggirare lo scoscendimento, ma che, ridiscendendo nella valle grande, si trovava una stradina, larga così, che superava un valico a cui loro davano un nome come Tringo e scendeva a monte della gola, in un luogo dove c’erano bestie cornute che muggivano, e quindi (ho pensato io) anche pascoli,
pastori, pane e latte. Mi sono messo in cammino, ho trovato facilmente la stradina e il Tringo, e di qui sono disceso in un bellissimo paese.
Proprio di fronte a me che scendevo, si vedeva d’infilata una valle verde di larici, e in fondo montagne tutte bianche di neve in piena estate: la valle terminava ai miei piedi in una vasta prateria punteggiata di capanne e di armenti. Ero stanco, sono sceso e mi sono fermato dai pastori. Erano diffidenti, ma conoscevano  (fin troppo bene) il valore dell’oro, e mi hanno ospitato per qualche giorno senza
farmi angherie. Ne ho approfittato per imparare qualche parola della loro lingua: chiamano “pen” le montagne, “tza” i prati, “roisa” la neve d’estate, “fea” le pecore, “bait” le loro case, che sono di pietra nella parte bassa, dove tengono le bestie, e di legno sopra, con appoggi di pietra come ho già detto, dove vivono loro e tengono il fieno e le provviste. Erano gente scontrosa, di poche parole, ma non avevano armi e non mi hanno trattato male.
Essendomi riposato, ho ripreso la ricerca, sempre col sistema del torrente, ed ho finito con l’infilarmi in una valle parallela a quella dei larici, lunga stretta e deserta, senza pascoli né foresta. Il torrente che la percorreva era ricco di pietra buona: sentivo di essere vicino a quello che cercavo. Ci ho messo tre giorni, dormendo all’addiaccio: anzi, senza dormire affatto, tanto ero impaziente; passavo le notti a
scrutare il cielo perché nascesse l’alba.
Il giacimento era molto fuori mano, in un canaloneripido: la pietra bianca affiorava dall’erba stenta, a portata di mano, e bastavascavare due o tre palmi per trovare la pietra nera, la più ricca di tutte, che io non avevo ancora mai vista ma mio padre mi aveva descritta. Pietra compatta, senza scoria, da lavorarci cento uomini per cento anni. Quello che era strano, è che qualcuno lì ci doveva già essere stato: si vedeva, mezzo nascosto dietro una roccia (che certo era stata messa lì apposta), l’im
bocco di una galleria, che doveva essere molto antica, perché dalla volta pendevano stalattiti lunghe come le mie dita. Per terra c’erano paletti di legno infracidito e frammenti d’ossa, pochi e guasti, il resto dovevano averlo portato via le volpi, infatti c’erano tracce di volpi e forse di lupi: ma un mezzo
cranio che sporgeva dal fango era certamente umano.
Questa è una cosa difficile da spiegare, ma è già successa più di una volta: che qualcuno, chissà quando, venendo di chissà dove, in un tempo remoto magari prima del diluvio, trova una vena, non dice niente a
nessuno, cerca da solo di cavare la pietra, ci lascia le ossa, e poi passano i secoli. Mio padre mi diceva che, in qualunque galleria uno scavi, trova le ossa dei morti.
Insomma, il giacimento c’era: ho fatto le mie prove , ho fabbricato così alla meglio una fornace lì all’aperto, sono sceso e tornato su con la legna, ho fuso tanto piombo da poterlo portare in spalla e sono tornato a valle. Alla gente dei pascoli non ho detto niente: ho ripreso il Tringo e sono sceso nel grande villaggio dall’altra parte, che si chiamava Sales. Era giorno di mercato, e mi sono messo in mostra col
mio pezzo di piombo in mano. Qualcuno ha incominciato a fermarsi, a soppesarlo e a farmi domande che capivo a mezzo: era chiaro che volevano sapere a cosa serviva, quanto costava, da dove veniva. Poi si è fatto avanti un tale conl’aria svelta, con un berretto di lana intrecciata, e ci siamo intesi abbastanza bene. Gli ho fatto vedere che quella roba si batte col martello: anzi, seduta stante ho trovato un
martello e un paracarro, e gli ho fatto vedere quanto è facile ridurlo in lastre e fogli; poi gli ho s
piegato che coi fogli, saldandoli su di un lato con un ferro rovente, si possono fare tubi; gli ho detto che i tubi di legno, per esempio le gronde di quel paese Sales, perdono e marciscono, gli ho spiegato che i tubi di bronzo sono difficili da fare e che quando si usano per l’acqua da bere fanno venire il mal di
ventre, e che invece i tubi di piombo durano in eterno e si saldano l’uno sull’altro con facilità. Un
po’ alla ventura, e facendo una faccia solenne, ho tirato anche il colpo di spiegargli che
con un foglio di piombo si possono anche rivestire le casse dei morti, in modo che questi non fanno i vermi, ma diventano secchi e sottili, e così anche l’anima non si disperde, che è un bel vantaggio; e sempre col piombo si possono fondere delle statuette funebri, non lucide come il bronzo, ma appunto, un po’ fosche, un po’ velate, come si addice ad oggetti di lutto. Siccome ho visto che queste questioni gli interessavano molto, gli ho spiegato che, se si va oltre le apparenze, il piombo è proprio il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere , e cadere è dei cadaveri, perché
il suo stesso colore è smorto-morto, perché è il metallo del pianeta Tuisto, che è il più lento dei pianeti, cioè il pianeta dei morti.
Gli ho anche detto che, secondo me, il piombo è una materia diversa da tutte le altre materie, un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la
cenere di chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco. Queste sono cose che io penso veramente, non è che me le sia inventate per stringere l’affare. Quell’uomo, che si chiamava Borvio, stava a sentire a bocca aperta, e poi mi ha detto che doveva proprio essere come io dicevo, e che quel pianeta è sacro ad un dio che nel suo paese si chiama Saturno
, e viene dipinto con una falce. Era il momento di venire al sodo, e mentre lui stava ancora rimuginando i miei imbonimenti gli ho chiesto trenta libbre d’oro, contro la cessione del giacimento, la tecnologia della fusione e istruzioni precise sugli usi principali del metallo. Lui mi ha controfferto delle monete di bronzo con sopra un cinghiale, coniate chissà dove, ma io ho fatto l’atto di sputarci sopra: oro,
e niente storie. D’altronde, trenta libbre sono troppe per uno che viaggia a piedi, tutti lo sanno, e io sapevo che Borvio lo sapeva: così abbiamo concluso per venti libbre. Si è fatto accompa
gnare al giacimento, il che eragiusto. Tornati a valle, mi ha consegnato l’oro: io
ho controllato tutti i venti lingottini, li ho trovati genuini e di buon peso, ed abbiamo
fatto una bella sbornia di vino per solennizzare il contratto.
Era anche una sbornia d’addio. Non è che quel paese non mi piacesse, ma molti motivi mi spingevano a riprendere il cammino. Primo: volevo vedere i paesi caldi, dove si dice che crescono gli olivi e i limoni. Secondo: volevo vedere il mare, non quello tempestoso dadove veniva il mio avo dai denti azzurri, ma il mare tiepido, di dove viene il sale. Terzo: non serve a niente avere l’oro e portarselo sulla
gobba, col terrore continuo che di notte, o durante una sbornia, te lo portino via. Quarto e complessi
vo: volevo spendere l’oro in un viaggio per mare, per conoscere il mare e i marinai , perché i marinai hanno bisogno del piombo, anchese non lo sanno.
Così me ne sono andato: ho camminato per due mesi, scendendo per una grande valle triste, fino a che questa è sboccata nel piano.
C’erano prati e campi di grano, e un odore aspro di sterpi bruciati che mi ha fatto venire nostalgia d
el mio paese: l’autunno, in tutti i paesi del mondo, ha lo stesso odore, di foglie morte, di terra che riposa, di fascine che bruciano, in somma di cose che finiscono, e tu pensi “per sempre”. Ho incontrato una città fortificata, grande come da noi non ce n’è, alla confluenza di due fiumi; c’era un mercato
di schiavi, carne, vino, ragazze sudice, solide e scarmigliate, una locanda con un buon fuoco, e ci ho
passato l’inverno: nevicava come da noi. Sono ripartito a marzo, e dopo un mese di cammino ho trovato il mare, che non era azzurro ma grigio, muggiva come un bisonte, e si avventava sulla terra come se la volesse divorare: al pensiero che non aveva mai riposo, non l’aveva mai avuto da quando c’è il
mondo, mi sentivo mancare il coraggio. Ma ho preso ugualmente la strada verso levante, lungo la spiaggia, perché il mare mi affascinava e non mi potevo staccare da lui.
Ho trovato un’altra città, e mi ci sono fermato, anche perché il mio oro volgeva alla fine. Erano pescatori e gente strana, che veniva per nave da vari paesi molto lontani: comperavano e vendevano, di notte si accapigliavano per le donne e si accoltellavano nei vicoli; allora anch’io mi sono comperato un coltello, di bronzo, robusto, colla guaina di cuoio, da portare legato alla vita sotto i panni. Conoscevano
il vetro, ma non gli specchi: cioè, avevano soltanto specchietti di bronzo levigato, da quattro soldi,
di quelli che si rigano subito e falsano i colori. Se si ha del piombo, non è mica difficile
fare uno specchio di vetro, ma io gli ho fatto cadere il segreto molto dall’alto, gli ho
raccontato che è un’arte che solo noi Rodmund conosciamo, che ce l’ha insegnata una dea che si chiama
Frigga, e altre sciocchezze che quelli hanno bevuto come acqua.
Io avevo bisogno di soldi: mi sono guardato intorno , ho trovato vicino al porto un vetraio che aveva l’aria abbastanza intelligente, e mi sono messo d’accordo con lui. Da lui ho imparato diverse cose, prima fra tutte che il vetro si può soffiare: mi piaceva tanto, quel sistema, che me lo sono perfino fatto
insegnare, e un giorno o l’altro proverò anche a soffiare il piombo o il bronzo fuso (ma sono troppo liquidi, è difficile che riesca). Io invece ho insegnato a lui che, sulla lastra di vetro ancora calda, si può colare il piombo fuso, e siottengono degli specchi non tanto grandi, ma luminosi, senza difetti, e che si conservano per molti anni. Lui poi era abbastanza bravo, aveva un segreto per i vetri colorati, e gettava delle lastre variegate di bellissimo aspetto. Io ero pieno d’entusiasmo per la collaborazion
e, ed ho inventato di fare specchi anche con le calotte di vetro soffiato, colandogli il piombo dentro o spalmandolo di fuori: a specchiarcisi dentro, ci si vede molto grandi o molto piccoli, oppure anche tutti storti; questi specchi non piacciono alle donne, ma tutti i bambini se li fanno comperare. Per tutta
l’estate e l’autunno abbiamo venduto specchi ai mercanti, che ce li pagavano bene: ma intanto io parlavo con loro, e cercavo di raccogliere più notizie che potevo su di una terra che molti di loro conoscevano.
Era stupefacente osservare come quella gente, che pure passava in mare metà della sua vita, avesse ide
e così confuse circa i punti cardinali e le distanze; ma insomma, su un punto erano tutti d’accordo, e cioè che navigando verso sud , chi diceva mille miglia, chi ancora dieci volte più lontano, si trovava una terra che il sole aveva bruciata in polvere, ricca di alberi ed animali mai visti, abitata da
uomini feroci di pelle nera. Ma molti avevano per certo che a metà strada si incontrava una grande isola detta Icnusa, che era l’isola dei metalli: su quest’isola si raccontavano le storie più strane, che era abitata da giganti, ma che i cavalli, i buoi, perfino i conigli e i polli, erano invece minuscoli; che comandavano le donne e facevano la guerra, mentre gli uomini guardavano le bestie e filavano la lana; che questi giganti erano divoratori d’uomini, e in specie di stranieri; che era una terra di puttanesimo,
dove i mariti si scambiavano le mogli, ed anche gli animali si accoppiavano a casaccio, i lupi con le gatte, gli orsi con le vacche; che la gravidanza delle donne non durava che tre giorni, poi le donne partorivano, e subito dicevano al bambino: “Orsù, portami le forbici e fai luce, che io ti tagli il cordone”. Altri
ancora raccontavano che lungo le sue coste ci sono fortezze di pietra, grandi come montagne; che tutto
in quell’isola è fatto di pietra, le punte delle lance, le ruote dei carri, perfino i pettini delle donne e gli aghi per cucire; anche le pentole per cucinare, e addirittura che hanno pietre che bruciano, e le accendono sotto a queste pentole; che lungo le loro strade, a sorvegliare i quadrivi, ci sono mostri
pietrificati spaventosi a vedersi. Queste cose io le ascoltavo con compunzione, ma dentro di me ridevo
a crepapelle, perché ormai il mondo l’ho girato abbastanza, e so che tutto il mondo è paese: del resto, anch’io, quando ritorno e racconto i paesi dove sono stato, midiverto a inventare delle stranezze; e qui se ne raccontano di fantastiche sul mio paese, per esempio che i bufali da noi non hanno le
ginocchia, e che per abbatterli basta segare alla base gli alberi a cui si appoggiano di notte per rip
osare: sotto il loro peso, l’albero si spezza, loro cascano distesi e non si possono rialzare più.
Sul fatto dei metalli, però, erano tutti d’accordo; molti mercanti e capitani di mare avevano portato
dall’isola a terra carichi di metallo greggio o lavorato, ma erano gente rozza, e dai loro discorsi era difficile capire di che metallo si trattasse: anche perché non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c’era una gran confusione di termini. Dicevano per
esempio “kalibe”, e non c’era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo
. Altri chiamavano “sider” sia il ferro, sia il ghiaccio, ed erano così ignoranti da sostenere che il ghiaccio delle montagne, col passar dei secoli e sotto il peso della roccia, si indurisce e diventa prima cristallo di rocca e poi pietra da ferro.
Insomma, io ero stufo di mestieri da femmina, e in quest’Icnusa ci volevo andare. Ho ceduto al vetraio
la mia quota dell’impresa, e con quel danaro, più quello che avevo guadagnato con gli specchi, ho trovato un passaggio a bordo di una nave da carico: ma d’inverno non si parte, c’è la tramontana, o il maestrale, o il noto, o l’euro, pare insomma che nessun vento sia buono, e che fino ad aprile la cosa
migliore sia starsene a terra, ubriacarsi, giocarsi la camicia ai dadi, e mettere incinte le ragazze del porto.
Siamo partiti ad aprile. La nave era carica di anfore di vino; oltre al padrone c’era un capociurma, quattro marinai e venti rematoriincatenati ai banchi. Il capociurma veniva da Kriti ed era un gran bugiardo: raccontava di un paese dove vivono uomini chiamati Orecchioni, che hanno orecchie così smisurate che ci si avvolgono dentro per dormire d’inverno, e di animali con la coda dalla parte
davanti che si chiamano Alfil e intendono il linguaggio degli uomini.
Devo confessare che ho stentato ad avvezzarmi a vivere sulla nave: ti balla sotto i piedi, pende un po’ a destra e un po’ a sinistra, è difficile mangiare e dormire, e ci si pestano i piedi l’un l’altro per mancanza di spazio; poi, i rematori incatenati ti guardano con occhi così feroci da farti pensare che, se non fossero appunto incatenati, ti farebbero a pezzi in un momento: e il padrone mi ha detto che delle volte succede. D’altra parte, quando il vento è propizio, la vela si gonfia, e i rematori alzano i remi, sembra proprio di volare, in un silenzio incantato; si vedono i delfini saltare fuori dall’acqua, e i marinai sostengono di capire, dall’espressione del loro ceffo, il tempo che farà domani. Quella nave era bene impiastrata di pece, e tuttavia si vedeva tutta la carena sforacchiata: dalle teredini, mi spiegarono.
Anche nel porto avevo visto che tutte le navi alla fonda erano rosicchiate: non c’è niente da fare, mi ha detto il padrone, che era anche il capitano. Quando una nave è vecchia, la si sfasciae si brucia; ma io avevo una mia idea, e così anche per l’ancora. È stupido farla di ferro: si mangia tutta di ruggine, non dura due anni. E le reti da pesca? Quei marinai, quando il vento era buono, calavano una rete che aveva galleggianti di legno, e sassi per zavorra. Sassi!  se fossero stati di piombo, avrebbero potuto
essere quattro volte meno ingombranti. Chiaro che non ne ho fatto parola con nessuno, ma, l’avrete capito anche voi, pensavo già al piombo che avrei cavato dal ventre dell’Icnusa, e vendevo la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato
Siamo arrivati in vista dell’isola dopo undici gior ni di mare. Siamo entrati in un piccolo porto a forza di remi: intorno, c’erano scoscendimenti di granito, e schiavi che scolpivano colonne. Non erano giganti, e non dormivano nelle proprie orecchie; erano fatti come noi, e coi marinai si intendevano abbastanza bene, ma i loro sorveglianti non li lasciavano parlare. Quella era una terra di roccia edi vento, che mi piacque subito: l’aria era piena di  odori d’erbe, amari e selvaggi, e la gente sembra
va forte e semplice.
Il paese dei metalli era a due giornate di cammino: ho noleggiato un asino col suo conducente, e questo è proprio vero, sono asini piccoli (non però come gatti, come si diceva nel continente), ma robusti e resistenti; insomma, nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello. Per esempio, ho visto che era giusta anche la faccenda delle
fortezze di pietra: non sono proprio grosse come montagne, ma solide, di forma regolare, di conci commessi con precisione: e quello che è curioso, è che tutti dicono che “ci sono sempre state”, e nessuno sa da chi, come, perché e quando sono state costruite. Che gli isolani divorino gli stranieri, invece, è una gran bugia: di tappa in tappa, mi hanno condotto alle miniere, senza fare storie né misteri,
come se la loro terra fosse di tutti.
Il paese dei metalli è da ubriacarsi: come quando un segugio entra in un bosco pieno di selvaggina, che salta di usta in usta, trema tutto e diventa come stranito. È vicino al mare, una fila di colline che in alto diventano dirupi, e si vedo no vicino e lontano, fino all’orizzonte, i pennacchi di fumo delle fonderie, con intorno gente in faccende, liberi e schiavi: e anche la storia della pietra che brucia è vera, non
credevo ai miei occhi. Stenta un po’ ad accendersi, ma poi fa molto calore e dura a lungo. La portavano là  di non so dove, in canestri a dorso d’asino: è nera, untuosa, fragile, non tanto pesante.
Dicevo dunque che ci sono pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano
in tracce bianche, viola, celesti: sotto quella terra ci dev’essere un favoloso intrico di vene. Mi sarei perso volentieri, a battere scavare e saggiare: ma sono un Rodmund,e la mia pietra è il piombo. Mi sono subito messo al lavoro.
Ho trovato un giacimento al margine ovest del paese , dove penso che nessuno avesse mai cercato: infatti non c’erano pozzi né gallerie né discariche, e neppure c’erano segni apparenti in
superficie; i sassi che affioravano erano come tutti gli altri sassi. Ma poco sotto il piombo c’era: e questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori ^crediamo di trovare il metallo con gli occhi,
l’esperienza e l’ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido. Forse avviene per noi come per gli acquari, che non sanno che cosa li guida all’acqua, ma qualcosa pure li guida, e torce la bacchetta fra le loro dita.
Non so dire come, ma proprio lì era il piombo, lo sentivo sotto i miei piedi torbido velenoso e greve,
per due miglia lungo un ruscello in un bosco dove, nei tronchi fulminati, si annidano le api selvatiche. In poco tempo ho comperato schiavi che scavassero per me, ed appena ho avuto da parte un po’ di danaro mi sono comperata anche una donna. Non per farci baldoria in sieme: l’ho scelta con cura,
senza guardare tanto la bellezza, ma che fosse sana , larga di fianchi, giovane e allegra. L’ho scelta
così perché mi desse un Rodmund, che la nostra arte non perisca; e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano
nelle gengive, e si sono fatti azzurri come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell’orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto
dimenticando, Bak der Binnen, che significa appunto
“Rio delle Api”: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di
loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano “Bacu Abis”.

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