Suicidio di Aiace, dipinto di Nicolas Poussin
Ugo Foscolo AJACE – classicistranieri.com
Ajace
Foscolo prese l’impegno di scrivere una tragedia per la compagnia di Salvatore Fabbrichesi nel luglio del 1809; alla fine dell’anno aveva apparentemente scelto l’argomento, ma, travolto dalle polemiche letterarie con il partito filo-montiano, non parlò più della tragedia fino al febbraio del 1811, quando annunciò di aver cominciato a verseggiare l’Ajace. Nei mesi centrali dell’anno, Foscolo lavorò alacremente alla versificazione che era conclusa nell’ottobre del 1811; la prima rappresentazione si tenne al teatro alla Scala il 9 dicembre. L’argomento era tratto dal ciclo troiano ed era stato già rievocato nei vv. 215-225 del carme Dei sepolcri: dopo la morte di Achille, Ulisse ed Ajace aspirano entrambi alle armi dell’eroe; Agamennone e gli altri capi achei diffidano di Ajace e propendono per assegnare le armi, ingiustamente, a Ulisse. Dopo una serie di colpi di scena e di sospetti tradimenti, Ajace si uccide; mentre agonizza alla presenza dell’infelice moglie Tecmessa, il fratello Teucro, a lui fedele, gli rivela che le armi erano state assegnate a Ulisse.
La prima rappresentazione avvenne in un clima di forti tensioni e aspettative, alla presenza di un pubblico numerosissimo, che accolse tiepidamente la tragedia, giudicata troppo lunga, seppure non priva di una certa poesia. Una vera e propria stroncatura apparve invece sulle pagine del “Poligrafo”, espressione del gruppo ostile a Foscolo, attraverso una serie di recensioni negative e sarcastiche di Urbano Lampredi, pubblicate tra il 15 dicembre e il 5 gennaio 1812. La tragedia fu proibita dopo la seconda rappresentazione con decreto datato 13 dicembre, a causa delle allusioni politiche alla situazione contemporanea che si credette di riscontrare nel testo. In realtà non esiste alcuna conferma delle reali intenzioni “politiche” del poeta, anche se è innegabile che la tragedia sia animata da un forte spirito libertario e di denuncia della tirannide, rappresentata da Agamennone (forse figura di Napoleone), al quale è affidata l’ultima battuta, che contiene un’allusione, di ispirazione alfieriana, all’infelicità del potente.
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Ulisse: Tradir te, il fratel tuo!… – ma e sempre
Udirmi sdegni? e sì m’abborri?…
Aiace: Il nome
Tuo sempre sdegno io proferir: – ti spregio.
Ulisse: Non vile tuo commiliton m’avesti
Spesso; e pur or tu il confessavi.
Aiace: E tacqui
Che a te rifugio fu il mio scudo spesso.
Pur co’ Teucri sei prode e vil tra noi.
Non raggiravi oggi vilmente il volgo
E più vilmente i re? Tua non fu l’arte
Che li sedusse a deferir la lite
A’ prigionieri? Qui tornando il seppi.
Della cieca sentenza il fine astuto
Scerno. Que’ prenci che oltraggi e catene
Difendendo i lor numi hanno mertato,
Sgomentati, ingannati, strascinati
Fien al voler di chi sarà sì basso
Da deludere i miseri, e sì crudo
Da perseguirli, e ritorcere in essi
L’astio del volgo. Ah fien difesi! e il grida
Dal suo trono infernale a me il tremendo
Eaco del mio gran padre avo e d’Achille,
E più tremenda la pietà mel grida.
Ulisse: E chi librar, chi giudicar può i merti
De’ vincitor meglio che i vinti? Alcuni
Da me fur presi, altri dal forte Aiace.
Di sette prenci prigionieri, due
Fratelli sono di Tecmessa; è l’altro
Suo genitor: suborneranno il quarto.
Tolta ad Achille fu dal re la schiava
E a prevenir egual periglio festi
Moglie la tua: i figli tuoi fien pari
A Teucro in ciò; madre Troiana avranno.
Scudo così farti dicevi allora,
Oggi il ridici, a’ miseri; e tu il dei.
Die’ guerra all’Asia il padre tuo già un tempo;
Fu vincitor; ma poi d’ospizio accolse
Pegni e di pace: ed ebbe iliache spose.
A riveder i suoi congiunti a Troia
Finchè spiri la tregua occultamente
Teucro n’andò: seco ha gli arcieri quindi.
Aiace: Tacito io penso, se lasciarti io deggio
Te adornato di fraudi e d’impudenza
Al vituperio a cui tu vivi; o dentro
Nel tuo cor negro ove l’invidia rugge
Le calunnie respingere e i sospetti
Col ferro.
Ulisse: E brando v’ha che meglio uccida
Un greco re? Non hai d’Ettore il brando?
Aiace: Ahi fatal dono! E il mio ti diedi, o forte
Ettore, il mio, sul campo ove leale
Nemico egregio contro me pugnavi.
Ti valse almeno a morir per la tua
Patria, e cadesti lagrimato e sacro!
Ma io?… vedi… le furie mi strascinano
A bagnarlo di sangue, di quel sangue
Che tu abborrivi, e ch’io finor difesi.
Agamennone: Ed io finor tacito veggio in uno
Sospetti indegni, empio furor nell’altro.
Necessità d’alto severo quindi
Imperio veggio. – Aiace; di me pensa
Che vuoi; non mento perchè nessun temo.
Le tue schiere sviarti o menomarle
Non curo. Teucro e i suoi senza mio cenno
Nè indizio mio, se pur son lunge, il campo
Abbandonaro: usati modi; ogni uomo
Qui si fa duce, e divezzarvi intendo.
S’anco tornasse vincitor, punito
Il vo’, ch’egli più ch’altri impaziente
È d’ogni legge; e d’ogni applauso sempre
Avido; ei primo e temerario sempre.
Che s’ei tradisse… in te fidar più a lungo
Potrei?… – Cessa la tregua. Ebbro il troiano
Di sua vittoria noi tremanti estima
Da che spense l’eroe; s’accorga ei dunque
Se Atride vince. Fin dall’alba indissi
Però l’assalto ad innoltrata notte,
Sì volli, e il voglio perchè il volli. E spenta
Pria nel mio campo ogni discordia volli.
Giudici sien, poco rileva, i prenci
Stranieri. Io il dissi; odilo ancora: Troia
Mai non cadrà, mai per l’acciar d’Achille.
Aiace: Pari alle tue, pacate odi parole. –
Nessun di noi l’armi, per esse, pregia.
Te ambizion, me libertà sospinge,
Livor costui: ardon le brame; e incerto
Sovrasta evento; onde temiam noi tutti.
E tu più ch’altri, e a cui temenza detta
L’imperioso favellar. – D’altrui
Schermo in battaglia ebbe mai d’uopo Aiace?
Sol contro te che a tirannia prorompi
L’armi bramo di lui che i feri moti
Della superba anima tua gelava.
Minor di posse, e pari d’alma, vedi
Me, alle tue mire ambiziose inciampo;
Vedi d’Achille adoratori i greci
Che amor li stringe e meraviglia e l’alta
Religion de’ suoi avi celesti.
Ma il lungo imperio tuo molti fea queti
Al giogo, quindi fu protratto ognora
Lo sterminio di Troia; e tuo d’altronde
L’utile e il vanto ne bramavi. Spento
Alfin è Achille e avvilir vuoi la fama
D’Achille e me. La meraviglia tutta
Poi che l’amor non puoi, tendi in te solo
Trar della Grecia; e guidarla a trionfi
Col tuo valore o a sempiterne guerre,
Finchè di forti vedovata e lassa
Da te pace ed onore abbia e catene. –
Me vile fa d’un vile oggi la gara:
E ov’ei deturpi del Pelide il brando
Creduto opra divina, anche gli Dei
Fien vano scudo a libertà: Costui
Spregi, ma allenti alle sue trame il freno.
S’ei me tradisca e te ad un tempo, ignoro.
Teucro da lui credo aggirato; e certo
I frigi prenci ingannerà se forse
Nol fe’. Me non vedranno. Inviolato
Servar giurai dell’assemblea il decreto.
Stolto decreto; e giuramento ahi! stolto.
Ma rivocarlo ella può sempre. – Intanto
Non però cessa oggi la lite vera,
E magnanima sia: Apertamente
Dimmi se re son io? Se a Telamone
Il valor mio frutterà infamia e ceppi?
Ma bada, o re, che a terminar tal lite
A noi non resta che la sorte e il volgo.
Tu col terrore; io con l’amor; costui
Con fraudi nuove, lo trarremo al sangue.
Agamennone: Udir detti ribelli, e a tuoi furori
Libero abbandonarti, a te sia prova
Se Agamennon t’avanza. Odine i cenni. –
I re prigioni fien giudici; e tosto. –
L’armi, e le ottenga chi si vuol, fien vili. –
Nè più a contender di parole, accolti
Fien d’oggi innanzi a pugnar meco i duci;
E all’intimata pugna fra brev’ora
Mi seguiran. – Di Teucro, ove non rieda,
Mi sarà pegno il figlio tuo. – Chi sia
Qui re il saprai. – Seguimi Ulisse.
……..
Agamennone: Più forte,
E più esecrato, e più infelice io sono. –
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