LA CHIOMA DI BERENICE : Catullo Foscolo – Langue Misero Quel Valore Aria (Berenice)

LA CHIOMA DI BERENICE
volgarizzamento
DELLA VERSIONE LATINA

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Quei che spiò del mondo ampio le faci
Tutte quante, e scoprì quando ogni stella
Nasca in cielo o tramonti, e del veloce

Sole come il candor fiammeo si oscuri,
5Come a certe stagion cedano gli astri,
E come amore sotto a’ Latmii sassi
Dolcemente contien Trivia di furto
E lei devolve dall’aereo giro,
Quel Conon vide fra’ celesti raggi
10Me del Berenicéo vertice chioma
Chiaro fulgente. A molti ella de’ Numi
Me, supplicando con le terse braccia,
Promise, quando il re, pel nuovo imene
Beato più, partia, gli Assiri campi
15Devastando, e ne gìa con li vestigi,
Dolci vestigi di notturna rissa
La qual pugnò per le virginee spoglie.
Alle vergini spose in odio è forse
Venere? Forse a’ genitor la gioia
20Froderanno per false lagrimette
Di che bagnan del talamo le soglie
Dirottamente? Esse non veri allora,
Se me giovin gli Dei, gemono guai.
Ben di ciò mi assennò la mia regina

25Col suo molto lamento allor che seppe
Vòlto a bieche battaglie il nuovo sposo:
E tu piangesti allora il freddo letto
Abbandonata, e del fratel tuo caro
Il lagrimoso dipartir piangevi.
30Ahi! tutte si rodean l’egre midolle
Per l’amorosa cura; il cuore tutto
Tremava; e i sensi abbandonò la mente.
La donzelletta non se’ tu ch’io vidi
Magnanima? Lo gran fatto oblïasti,
35Tal che niun de’ più forti osò cotanto,
Però premio tu n’hai le regie nozze?
Deh che pietà nelle parole tue
Quando il marito accomiatavi! Oh quanto
Pianto tergeano le tue rosee dita
40Agli occhi tuoi! Te sì gran Dio cangiava?
Dal caro corpo dipartir gli amanti
Non sanno mai? Tu quai voti non festi,
Propizïando con taurino sangue,
Per lo dolce marito agli Immortali
45S’ei ritornasse! Nè gran tempo volse,
Ch’ei dotò della vinta Asia l’Egitto.
Per questi fatti de’ celesti al coro
Sacrata, io sciolgo con novello ufficio
I primi voti. A forza io mi partia,
50Regina, a forza; e te giuro e il tuo capo:
Paghinlo i Dei se alcuno invan ti giura;

Ma chi presume pareggiarsi al ferro,
E quel monte crollò, di cui null’altra
Più alta vetta dall’eteree strade
55La splendida di Thia progenie passa,
Quando i Medi affrettaro ignoto mare
E con le navi per lo mezzo Athos
Nuotò la gioventù barbara. Tanto
Al ferro cede! Or che poriano i crini?
60Tutta, per Dio! de’ Calibi la razza
Pera, e le vene a sviscerar sotterra,
E chi a foggiar del ferro la durezza
A principio studiò. ― Piangean le chiome
Sorelle mie da me dianzi disgiunte
65I nostri fati; allor che appresentosse,
Rompendo l’aer con l’ondeggiar de’ vanni,
Dell’Etiope Mennone il gemello
Destrier d’Arsinoe Locrïense alivolo:
Ei me per l’ombre eteree alto levando
70Vola, e sul grembo di Venere casto
Mi posa: ch’ella il suo ministro (grata
Abitatrice del Canopio lito)
Zefiritide stessa avea mandato
Perchè fissa fra’ cerchi ampli del cielo
75La del capo d’Arianna aurea corona
Sola non fosse. E noi risplenderemo
Spoglie devote della bionda testa.
Onde salita a’ templi de Celesti

Rugiadosa per l’onde, io dalla Diva
80Fui posto fra gli antichi astro novello.
Però che della Vergine, e del fero
Leon toccando i rai, presso Callisto
Licaonide, piego all’occidente
Duce del tardo Boote cui l’alta
85Fonte dell’Oceano a pena lava.
Ma la notte perché degli Immortali
Mi premano i vestigi, e l’aurea luce
Indi a Teti canuta mi rimeni,
(E con tua pace, o Vergine Rannusia,
90Il pur dirò: non per temenza fia
Che il ver mi taccia, e non dispieghi intero
Lo secreto del cor; nè se le stelle
Mi strazin tutte con amari motti)
Non di tanto vo lieta ch’io non gema
95D’esser lontana dalla donna mia
Lontana sempre! Allor quando con ella
Vergini fummo, io d’ogni unguento intatta,
Assai tesoro mi bevea di mirra.
O voi, cui teda nuzïal congiunge
100Nel sospirato dì, nè la discinta
Veste conceda mai nude le mamme,
Nè agli unanimi sposi il caro corpo
Abbandonate, se non versa prima
L’onice a me giocondi libamenti:
105L’onice vostro, voi che desïate

Di casto letto i diritti: ah di colei
Che sè all’impuro adultero commette
Beva le male offerte irrita polve!
Chè nullo dono dagli indegni io merco. ―
110Sia così la concordia, e sia l’amore
Ospite assiduo delle vostre sedi.
Tu volgendo, regina, al cielo i lumi
Allor che placherai ne’ dì solenni
Venere diva, d’odorati unguenti
115Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna
Con liberali doni. A che le stelle
Me riterranno? O! regia Chioma io sia
E ad Idrocoo vicin arda Orione.

Note

Nelle molte chiose che l’autore fece a questo componimento ci si fa beffe senza pietà degli eruditi e de’ pedanti che chiama cicale pasciute non d’attica rugiada **, e nei quali ebbe da principio i più fieri avversari, dovendo loro naturalmente rincrescere un giovine che — «diceva inutile e vana ogni sapienza quando non è riscaldata dalla passione…. che se anche sanno tutto quello che trovasi nei mille volumi delle loro librerie, sono freddi e muti come le pagine su cui consumano la vita senz’altro desiderio fuor di quello di sentirsi proclamare eruditi»: — e fu per questo ch’essi lavorarono manibus pedibusque per iscoprire qualche sbaglio in questa versione, e grandemente esultarono al ritrovare un errore d’interpetrazione d’un verso di Ovidio, e gridarono tosto ch’ei non sapea di latino per vendicarsi di quello scherno o di quella usurpazione di mestiere che sembrava loro di scorgere in quel lavoro. Ad ogni modo se il nostro greco-italico-letterato trascorse oltre i giusti confini nel dispregio degli eruditi, quanto non si può a lui perdonare se per dileggiarli compose il dotto Commento alla chioma di Berenice.

http://it.wikisource.org/wiki/La_chioma_di_Berenice

La Chioma di Berenice

La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo volgarizzato e illustrato da Ugo Foscolo fu pubblicata a Milano, presso il Genio Tipografico, nel novembre del 1803. Il volume è composto da un Argomento introduttivo, quattro discorsi critici dell’autore, il testo latino di Catullo, il testo del poema accompagnato da note e varianti e, infine, la traduzione italiana in endecasillabi sciolti; concludevano l’elaborata pubblicazione quattordici Considerazioni relative a questioni particolari di storia e filologia del testo. Il poemetto di Callimaco, di cui rimanevano pochi frammenti, raccontava il sacrificio di Berenice che aveva consacrato la sua chioma ad Afrodite per salvare il marito, il faraone Tolomeo III; la chioma scomparsa sarebbe stata trasformata, secondo la leggenda, in una costellazione.

Con la pubblicazione Foscolo si rivolgeva, come scrive nel Discorso primo, non “a’ dotti, bensì a que’ che tentassero nuova strada di studiare i classici”; l’erudizione, di cui il poeta fa sfoggio nel vasto commento che accompagna il testo non si risolve in astratte questioni grammaticali e filologiche o in minuzie pedanti, ma serve a collocare la poesia nel suo contesto storico e culturale. Lo studio dei classici deve essere accompagnato da una documentazione storica, necessaria per Foscolo a comprendere lo spirito della poesia; egli ribadiva una concezione alta della poesia (suggerita anche dalla lettura di Giambattista Vico) che, attraverso miti e favole dei tempi antichi, trasmetteva valori civili e politici e rivestiva quindi nelle società del passato un ruolo fondamentale. Era implicita in questo discorso una condanna del presente e della marginalità del poeta al quale, nella situazione contemporanea, era negata ogni possibilità di intervento politico. La Chioma di Berenice è quindi un testo importante per ricostruire l’ideologia di Foscolo nel passaggio dalla militanza giacobina all’epoca napoleonica.

http://www.internetculturale.it/opencms/directories/ViaggiNelTesto/foscolo/b29.html

testo di Catullo

Omnia qui magni dispexit lumina mundi,
qui stellarum ortus comperit atque obitus,
flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur,
ut cedant certis sidera temporibus,                                5
ut Triuiam furtim sub Latmia saxa relegans
dulcis amor giro deuocet aereo:
idem me ille Conon caelesti numine uidit
e Beroniceo uertice caesariem
fulgentem clare, quam multis illa dearum                   10
leuia protendens brachia pollicita est,
qua rex tempestate nouo auctus hymenaeo
uastatum finis iuerat Assyrios,
dulcia nocturnae portans uestigia rixae,
quam de uirgineis gesserat exuuiis.                             15
estne nouis nuptis odio Venus? idque parentum
frustratur falsis gaudia lacrimulis,
ubertim thalami quas intra limina fundunt?
non, ita me diui, uera gemunt, iuerint.
id mea me multis docuit regina querellis                    20
inuisente nouo proelia torua uiro.
et tu non orbum luxti deserta cubile,
sed fratris cari flebile discidium?
cum penitus maestas exedit cura medullas!
ut tibi tunc toto pectore sollicitae                                25
sensibus ereptis mens excidit! at te ego certe
cognoram a parua uirgine magnanimam.
anne bonum oblita es facinus, quo regium adepta es
coniugium, quod non fortior ausit alis?
sed tum maesta uirum mittens quae uerba locuta es!
Iuppiter, ut tristi lumina saepe manu!                        30
quis te mutauit tantus deus? an quod amantes
non longe a caro corpore abesse uolunt?
atque ibi me cunctis pro dulci coniuge diuis
non sine taurino sanguine pollicita es,                        35
si reditum tetulisset. is haut in tempore longo
captam Asiam Aegypti finibus addiderat.
quis ego pro factis caelesti reddita coetu
pristina uota nouo munere dissoluo.
inuita, o regina, tuo de uertice cessi,                           40
inuita: adiuro teque tuumque caput,
digna ferat quod siquis inaniter adiurarit:
sed qui se ferro postulet esse parem?
ille quoque euersus mons est, quem maximum in oris
progenies Thiae clara superuehitur,                            45
cum Medi peperere nouum mare, cumque iuuentus
per medium classi barbara nauit Athon.
quid facient crines, cum ferro talia cedant?
Iuppiter, ut Chalybon omne genus pereat,
et qui principio sub terra quaerere uenas                     50
institit ac ferri stringere duritiem!
abiunctae paulo ante comae mea fata sorores
lugebant, cum se Memnonis Aethiopis
unigena impellens nutantibus aera pennis
obtulit Arsinoes Locridos ales equos,                          55
isque per aetherias me tollens abuolat umbras
et Veneris casto collocat in gremio.
ipsa suum Zephyritis eo famulum legarat,
Graia Canopieis incola litoribus.
hic iuueni Ismario ne solum in limine caeli               60
ex Ariadneis aurea temporibus
fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus
deuotae flaui uerticis exuuiae,
uuidulum a fluctu cedentem ad templa deum me
sidus in antiquis diua nouum posuit.                         65
Virginis et saeui contingens namque Leonis
lumina, Callisto iuxta Lycaoniam,
uertor in occasum, tardum dux ante Booten,
qui uix sero alto mergitur Oceano.
sed quamquam me nocte premunt uestigia diuum,  70
lux autem canae Tethyi restituit,
(pace tua fari hic liceat, Ramnusia uirgo,
namque ego non ullo uera timore tegam,
nec si me infestis discerpent sidera dictis,
condita quin ueri pectoris euoluam):                         75
non his tam laetor rebus, quam me afore semper,
afore me a dominae uertice discrucior,
quicum ego, dum uirgo quondam fuit, omnibus expers
unguentis, una milia multa bibi.
nunc uos, optato quas iunxit lumine taeda,               80
non post unanimis corpora coniugibus
tradite nudantes reiecta ueste papillas,
quin iucunda mihi munera libet onyx,
uester onyx, casto petitis quae iura cubili.
sed quae se impuro dedit adulterio,                            85
illius a mala dona leuis bibat irrita puluis:
namque ego ab indignis praemia nulla peto.
sed magis, o nuptae, semper concordia uestras
semper amor sedes incolat assiduus.
tu uero, regina, tuens cum sidera diuam                    90
placabis festis luminibus Venerem,
sanguinis expertem non †uestris† esse tuum me,
sed potius largis affice muneribus.
sidera corruerint utinam! coma regia fiam,
proximus Hydrochoi fulgeret Oarion!

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