Ugo Foscolo ( foto a sinistra) con la ragione si rende conto che le Illusioni, come la Tomba, l’Amore, la Bellezza, la Poesia, l’Amicizia, non esistono realmente, ma con il cuore sente che l’uomo non può fare a meno per vivere e per superare le tragedie, le miserie e le ingiustizie della vita, di credere in queste Illusioni.
Per il poeta la più importante delle illusioni è la Poesia, pura e libera dal servilismo politico; grazie ai poeti come Omero che cantò di eroi e delle loro straordinarie imprese, i fatti e gli uomini grandi della Storia diventano eterni, combattendo e superando la concezione materialistica che vuole che tutto finisca con la fine stessa della Materia. Così, nei “Sepolcri”, Foscolo supera il pessimismo e l’arida filosofia materialistica con la fede nelle Illusioni, che alimentano il cuore dei giovani eroi per grandi imprese; egli stesso, lasciando ai posteri una tale opera, che stimola alla libertà e a grandi gesta, sa che diventerà immortale ed eterno, perché immortale sarà la sua opera. Anche nell’Ode “All’amica risanata” la visione della malattia della donna (cioè della triste e peritura realtà) è superata dalla fede nell’Illusione della bellezza che, ispirando il poeta, rende divina quindi eterna la stessa donna mortale. Illusione delle illusioni è quindi la Poesia, eternatrice dei miseri ed aridi fatti umani, che si nutre a sua volta di Illusioni quali la Bellezza, l’Amore, la Patria. Nelle “Grazie”, questi valori riescono ad elevare gli uomini, simili a bestie, a esseri civili amanti della bellezza, della giustizia e della serenità.
Anche in Giacomo Leopardi (foto in basso) hanno valore le illusioni che illuminano la vita del Foscolo: la bellezza, la gloria, la patria, la libertà, l’amore, il piacere, la poesia; ma mentre nel Foscolo esse appaiono come conquiste raggiunte per mezzo di uno slancio eroico, di accettazione e di esaltazione della condizione umana, dolorosa ma ricca di dignità e nobiltà, in Leopardi sono idee nobilissime, insite nella giovinezza dell’uomo, ma destinate a venir meno, ad essere demolite dalla ragione e soprattutto dalla vita. Il termine adesso si lega all’idea di vago ed indefinito (L’infinito) e si configura come un tentativo di sottrarsi alle leggi materialistiche della natura. Ma l’illusione manca di continuità e anche gli antichi non potevano a lungo nutrire la loro poesia di immaginazione (la parola compare non a caso per la prima volta accanto al concetto di illusione). La legge materialistica della natura matrigna (di dolore e sofferenza per l’uomo sulla terra) e l’assenza di una fede religiosa, rendono inoperante, vuota ogni forma di illusione in Leopardi. Anche il piacere è illusione negativa, fragile, momentanea e instabile; ogni piacere consiste in un’interruzione breve del dolore. Leopardi affronta in maniera esplicita il rapporto fra illusione e ragione. La facoltà di produrre illusioni è un dato “naturale” nell’uomo, addirittura presente in misura grandissima “nei fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari, ecc.” e, in un certo grado, molto verosimilmente “anche nelle bestie”. Anche il pensiero e la ragione sono elementi naturali nell’uomo, cosí come il desiderio di piacere; pensiero e desiderio di piacere dimostrano “la spiritualità dell’anima umana”. In mezzo a questi elementi naturali fa la sua comparsa un “sentimento non naturale”: il “sentimento della nullità delle cose”. La presa di coscienza, attraverso la ragione, della nullità delle cose distrugge l’istinto, il sentimento e, quindi, le fonti dell’illusione. Leopardi sembra proporre la contrapposizione fra “apollineo” e “dionisiaco” che sta al centro della critica di Nietzsche al socratismo. L’illusione, una volta smascherata, non potrà piú essere riprodotta se non con l’azione creatrice (la “finzione”) del poeta; ma l’illusione creata consapevolmente dà un piacere di cui non ignoriamo il carattere ingannevole (“dilettosi inganni”, Il tramonto della luna, v. 24); è caduca come l’uomo che la crea: il paradiso e l’inferno sono definitivamente cancellati dalla nostra prospettiva; l’unico paradiso, e soprattutto l’unico inferno, con cui confrontarci è qui, su questa terra.
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I CANTI
XXXIII – IL TRAMONTO DELLA LUNA
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ‘ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.