Herzog da La Soufrière a Nosferatu

La Soufrière – Werner Herzog

La recensione

di EightAndHalf

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Uomo e Natura, quale indicibile indissolubile legame, quale terrificante rapporto. Quant’è piccolo l’uomo di fronte al terrore e all’angoscia che un evento naturale causa, nella nebbia funerea e solforosa che fuoriesce dal vulcano La Soufrière, mentre la città sembra colta in un coma profondo, in cui pochi esseri umani e viventi si lasciano morire. L’Uomo, l’essere vivente, accetta di essere annullato dalla catastrofe, accetta la Fine, a cui così tanto ci si è preparati. Herzog, Lachman e Reitwein, quasi come Aguirre pronti ad esprimere il loro controproducente eroismo autodistruttivo in nome della documentazione di quella che sembra l’incarnazione stessa della Morte, in quell’annuncio disastroso così pulsante e così inquietante, vagano per le strade fantasma di un piccolo mondo evacuato, da cui tanta gente è scappata per sfuggire a un Vesuvio arrabiato, l’incontro inevitabile con la morte. Quasi traducendo in immagini La ginestra leopardiana, riflettendo per estensione sull’esistenza umana e sul confine labile e oltrepassabile che divide Vita e Morte, e su tutte le conseguenze intime e psicologiche che l’evento può causare, Herzog instaura un dialogo monodirezionale con una Natura ostile capace di distruggere le costruzioni umane, simbolo di una sopravvalutata civiltà, e di spezzare via anni e anni di vite vissute che rievocate dal vento che sbatte le finestre rivendicano la loro permanenza, almeno nel ricordo. I semafori continuano a funzionare, i cuori di tre individui battono ancora sull’isola, e i tre individui non sono i tre membri dello spericolato cast, ma tre uomini del luogo, che non avvertono la necessità di abbandonare l’isola perché destinati a morire prima o poi oppure perché è tutto frutto di una volontà divina. Ecco i nuovi eroi, ed Herzog li osserva in tutta la loro (assurda e irrazionale) nobiltà d’animo, non perché martiri di chissà quale fede, ma perché consapevoli senza paura di come la Vita sia Morte se sbatacchiata dai crateri immortali di una Natura che a sua volta, dalla sua dimensione altissima, cerca essa stessa l’autodistruzione (il vulcano è destinato ad esplodere e a scomparire). E la Vita è sempre sbatacchiata, è sempre al confine. La visione reale e diretta di tale situazione è assetata ricerca del raccordo fra Natura, Umanità e Paura, di quel sentimento di terrore che distanzia così tanto l’uomo dalla Morte, e da qui deriva l’interesse da parte dei tre membri della sparuta groupe di visitare da vicino i minacciosi crateri. Il piccolo cespuglio leopardiano si ricompatta e utopicamente si estende, perché la Morte è davanti agli occhi e sarà tutto grandioso, l’uomo sarà (anti)eroe perché ha capito che la Vita è Morte. Ostinazione, ostinazione degna del furore di Dio, in nome di uno sguardo finale sul luogo. Oggi non poche domande sorgono su quello che sarebbe potuto succedere a Herzog, Lachman e Reitwein se veramente La Soufrière fosse esploso con la forza di cinque bombe atomiche, forse sarebbero stati seppelliti fra le macerie e mangiucchiati dagli avvoltoi che settant’anni prima avevano ripulito l’isola vicina, disastrata dal vulcano Pelée. O forse avrebbero trovato un luogo dove nascondersi, come era sopravvissuto a Pelée il criminale più ‘cattivo’ dell’isola, chiuso in isolamento in un sotterraneo, diventato poi fenomeno da baraccone, escluso dai grandi uomini morti e ricordati in foto d’epoca che sembrano dipinti e in cui paradossalmente si ritrova straordinaria bellezza nella distruzione, nel nulla. In presenza di un linguaggio documentaristico Herzog decide di limitare la catarsi, di non renderla esplicita, ma è evidente, nelle carrellate, nelle osservazioni dei cadaveri dei cani, nelle interviste: Herzog stesso sembra avere scelto di morire, le motivazioni sono date per scontate, o addirittura non sono importanti. Il suicidio dell’umanità, per diventare grandi, per essere ricordati magari da una pellicola che per un miracolo improbabile sopravviva, e che documenti ultimi giorni, ultimi attimi sospesi, ultimi sospiri.

L’Uomo ha capito la Morte? Quasi, ha capito la sua inevitabilità. Non è possibile, ci vuole qualcosa per smentirlo. La Soufrière non scoppierà, gettando nel ridicolo tutte le intenzioni, dimezzando la bellezza, mozzando la tensione, ricacciando dentro l’eroismo che stavolta i tre Aguirre (anzi, i sei) cercavano nella morte più alta e più nobile, quella assolutamente dimenticata e spazzata dal vento di cinque bombe atomiche. La Soufrière non è scoppiato, sopravvive un documentario su un tentativo fallito. Resterà un documento per parlare delle tristi condizioni dei neri che abitano l’isola. L’uomo rimarrà insoddisfatto, anche quando il suo scopo è il suicidio indiretto, la Fine, l’Apocalisse: la Natura solo allora rimane ferma, ancora viva, con un cuore che rinfaccia e pulsa ancora. Paradossale indegna mancanza di appagamento.

http://www.filmtv.it/film/36398/la-soufriere/recensioni/739501/#rfr:none

Pensare anche solo lontanamente a un rifacimento del classico di Murnau, di per sé, era un’impresa da far tremare i polsi a chiunque; rifarlo per mano di un regista tedesco, poi, era pura e semplice follia. Ma la pazzia è sempre stata cifra stilistica di Werner Herzog, nel senso migliore del termine: un sentimento talmente forte e penetrante in grado di accompagnare la mano/macchina da presa del suo autore nella realizzazione di alcune delle più belle pagine della storia del cinema.

Non è mai bello né giusto parlare in termini così assolutistici, perché il rischio di lasciarsi sopraffare da facili atteggiamenti fanzinari rimane sempre dietro l’angolo, e di queste derive qualunquiste ne è pieno il mondo (soprattutto quello intangibile di internet). Ma qui si parla di un regista e di un uomo che ha sempre visto e vissuto il cinema come sfida nei confronti dell’ignoto, come superamento dei propri limiti fisici e psicologici, ma anche come raggiungimento fatale di una Bellezza ottenuta a carissimo prezzo. Non è mai stato tipo da dirigere film indossando comodamente sciarpa e cappotto, Herzog; piuttosto, si è sempre immerso nel fango e nella melma fino alle ginocchia, impressionando su pellicola quello stesso gigantismo che nella finzione tanto ossessionava i suoi personaggi più celebri.

Tutto questo per sottolineare come, in ultima analisi, non ci sia molta differenza tra ripensare l’opera di Murnau e trasportare a spalla una barca lungo il fianco di una collina, come in Fitzcarraldo: non per un cineasta nato e cresciuto in Germania, almeno. Pensate solamente all’eredità di un Rossellini nei confronti di un regista italiano, e forse ci si potrà davvero rendere conto delle dimensioni morali dell’impresa: per l’esponente di una generazione senza padri, quale si è egli stesso definito, tornare sul cinema espressionista significava costruire un ponte con il passato, venire a patti con la propria Storia e cercare, finalmente, una chiusura del cerchio in grado di placare le turbolenze del presente, quelle stesse sulle quali si poggiava e rifletteva il nuovo cinema tedesco degli anni Settanta.

Sostanzialmente fedele al capostipite del 1922, ma con il vantaggio di non dover più venire a patti con i diritti d’autore verso Dracula di Bram Stoker (al punto che i nomi dei personaggi sono in pratica gli stessi), Nosferatu, il principe della notte è innanzitutto il racconto di un progressivo e inesorabile avvicinamento verso la morte: se a Murnau premeva sottolineare l’impatto rivoluzionario di un elemento soprannaturale – il mostro, il vampiro – all’interno di una società borghese ormai prossima al collasso (metafora cristallina della Repubblica di Weimar), Herzog qui sembra meno interessato a collocare il suo racconto all’interno di un contesto ben riconoscibile. Al contrario, enfatizza la componente puramente onirica della pellicola: dall’incubo iniziale di Lucy/Isabelle Adjani fino al castello del Conte (visibile “solamente in sogno”, secondo le credenze gitane), tutto il film è sospeso in un’atmosfera totalmente magica e irreale, frutto dell’inarrivabile talento visivo del suo autore, che sostituisce l’espressionismo di Murnau con uno stile pittorico fortemente debitore nei confronti della pittura fiamminga.

Non è (più) importante celare uno sguardo, un’idea o un ritratto della contemporaneità attraverso lo spioncino sporco del fantastico: Herzog ha la possibilità di rendere universale la decadenza, e lo fa fino in fondo. Il suo film è una rappresentazione della fine del mondo come mai si è vista in siffatta maniera: il dilagare della peste attraverso le strade di Wismar, preceduta da una nave vuota e silenziosa attraverso le acque del canale, è una delle immagini più potenti mai raggiunte dal grande regista tedesco, il quale sembra poco interessato alla specificità storica o geografica della classe borghese che manda a morire. Piuttosto, fa della figura del vampiro il perno intorno al quale ruota tutta la sua visione di romanticismo; ed è un romanticismo freddo e cimiteriale, pallido come le gote di Isabelle Adjani e lo sguardo di Klaus Kinski, quest’ultimo semplicemente perfetto nei panni di una creatura che si porta addosso il peso di un’eternità senza amore. Il suo dolore, la sua consapevolezza è l’unico agente possibile in grado di porre fine a un mondo dove la morte fisica è solamente il capitolo conclusivo di una dipartita cominciata già molto tempo prima, senza che nessuno se ne sia reso conto in tempo: come nella stupenda sequenza del banchetto in piazza, in cui i convitati continuano a mangiare aspettando l’arrivo della fine.

Se mai c’e stata una rappresentazione filmica dell’Apocalisse, generata da un Male oscuro e impenetrabile la cui fascinazione diventa immaginificamente Cinema, Nosferatu, il principe della notte ne è l’essenza imprescindibile e necessaria.

Giacomo Calzoni

http://www.orizzontidigloria.com/special-werner-herzog/herzog-nosferatu-il-principe-della-notte

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