Vladimir Majakovskij : “di questo” – Inno al giudice ed altro + ESENIN

“Non do mai un’occhiata a Puskin. Io Puskin lo so a memoria”: Majakovskij

“di questo”

L’arca approda.
Qua i raggi!
La banchina.
Ehi!
Gettate la gomena!
E subito sento sulle spalle
il peso del davanzale di pietra.
Il sole ha essiccato col caldo
la notte del diluvio.

Alla finestra, arroventato, accolgo il giorno.
Solo un monte sul globo, è il Kilimangiaro.
Un punto sulla mappa dell’ Africa, il Kenia.
Il globo dalla testa calva.
Io sopra m’incurvo per il dolore.
In quest’ammasso di pena
vorrebbe
il mondo abbrancare
i seni viventi dei monti.

E dai poli, rovente e pietroso,
fare colare lava lungo tutte le dimore!
Così vorrei singhiozzare io,
orso comunista.

D’antica nobiltà era mio padre,
delicata ho la pelle delle mani.

Forse coi versi tracannerò i miei giorni
senza aver visto nemmeno una volta un tornio.
Ma col respiro, con la voce, col palpito,
con tutte le cime dei capelli irti d’orrore,
con i fori delle narici, con i chiodi negli occhi,
col dente che stride nell’urlo ferino,
col riccio della pelle,
con le crespe rabbiose dei sopraccigli,
con un trilione di pori, con tutti i pori, sino all’ultimo,
in primavera, d’estate,  d’autunno, d’inverno,
di giorno, nel sonno,
io odio
e rifiuto tutto questo.

Tutto
che in noi
ha inculcato l’antica schiavitù,
tutto
lo  sciame di meschinità,
s’è posato
e si posa sulla vita,
persino nel nostro ordine
imbandierato di rosso.

Non vi darò la gioia
di vedermi
placato sotto un colpo.

Né presto intonerete, dietro a me,
il riposi in pace al mio talento.

Mi avranno soltanto con un colpo alle spalle.
I d’Anthès non mireranno alla mia fronte.

Quattro volte invecchierò,
quattro volte sarà ancora giovane,
prima di scendere nella tomba.

Dovunque io muoia, morirò cantando.
Dovunque io cada,  sarò degno di giacere, lo so,
con chi è caduto sotto la rossa bandiera.

Ma, comunque vada,
la morte è sempre la morte.

È spaventoso non amare,
terribile non osare più.

C’è per tutti un colpo,
per tutti un coltello.

E per me che cosa?
E quando?

Nell’infanzia forse,
sul fondo,
ritrovo in tutto
dieci giorni discreti.

E quel che tocca agli altri?

A me già basterebbe!

Ma no…

Vedete,
non l’ho avuto!

Credere all’aldilà!

Lieve è il banco di prova.

Basta tendere la mano,
e in un attimo
il colpo ti traccia
nell’oltretomba
il cammino sibilante.

Ma che fare
se con tutta,
con tutta l’ampiezza del cuore,
io ho creduto
e credo in questa vita,
e in questo
mondo?

Prolungate l’attesa quanto più vi piace,
io vedo chiaro,
d’una chiarezza allucinante.

Al punto che
basterebbe sciogliere la rima
per irrompere sopra un verso
in una vita meravigliosa.

Ma dovrò forse chiedermi:
è questa?
è quella?

Vedo,
vedo tutto chiaramente.
Anche i dettagli.

Aria su aria, quasi pietra su pietra,
inaccessibile alla polvere e alla putredine,
rifulgente si leva sui secoli
il laboratorio delle resurrezioni umane.

Eccolo,
il placido chimico, dalla fronte spaziosa,
che si acciglia dinanzi all’esperimento.

Nel libro
tutta la terra, egli cerca un cognome.

Ventesimo secolo.

Chi risuscitare?

«Majakovskij… forse meglio un tipo più brillante.
Non era poi gran che bello, quel poeta».

Ed io allora a gridargli da qui, da questa pagina d’oggi:

“Non sfogliare più oltre!
Risuscitami!»

Iniettami sangue nel cuore,
e in tutte le vene!

Ficcami nel cranio idee!

Non ho vissuto sino in fondo la mia vita terrena,
sulla terra non ho avuto tutto il mio amore.

Ero colossale di statura.

Ma perché
per simili cose già basta un’inezia, una pulce:
cigolare con la penna, rintanato in una stanza,
ripiegato come un paio d’occhiali nell’astuccio.

Quel che vorrete io lo farò per niente:
lavare, pulire, spazzare, bighellonare, star di guardia.
Potrò farvi, se vorrete, anche il portiere.
Ne avete portieri, da voi?

lo ero allegro,
ma a che serve l’allegria,
se il nostro dolore è un pantano?

Oggi, quando mostrano i denti,
è solo per stridere e addentare.
Se ne vedono tante!
Fatica, dolore… chiamatemi!

Uno scherzo può sempre servire.
Con sciarade di iperboli d’allegorie
vi diletterò
burlando in versi.

Ho amato…
non conta rimestare nel passato.

Soffri? Tanto peggio!
Vivi e ti porti la tua pena.

Amo anche gli animali.
E voi ne avete?
Prendetemi allora come guardiano!
lo amo le bestie.
Se vedo un botolo
(ce n’è uno dal fornaio
tutto spelacchiato),
sono pronto a donargli il mio fegato.
Non importa, cane, toh, mangia!

Forse, forse un giorno,
da un viottolo dello zoo
lei, lei che amava le bestie,
entrerà nel parco sorridente,
come nella foto sul tavolo.

È tanto bella lei,
certo rinascerà.

Il vostro trentesimo secolo
sorvolerà lo sciame di inezie
che dilaniano il cuore.

Ci ripaghiamo ormai
dell’amore non vissuto
con le stelle di notti senza fine.

Risuscitami,
non fosse altro perché da poeta
io t’ho atteso,
ripudiando le assurdità d’ogni giorno!

Risuscitami
anche solo per questo!

Risuscitami
voglio vivere tutta la mia vita!

Perché non ci sia più l’amore
ancella di matrimoni
di lascivia
e d’un pezzo di pane.

Maledicendo i letti,
balzando giù dal materasso,
si espanda l’amore in tutto l’universo.

Perché il giorno,
che il dolore degrada,
non sia mendicato
per amor di Cristo.

Perché tutta la terra
si rivolti
al primo grido:
«Compagno!».

Per non essere più vittima
dei covi delle case.

Perché possa
nella famiglia
d’ora in poi
essere padre almeno l’universo
essere madre almeno la terra.

Vladimir Majakovskij

Inno al giudice

I galeotti vogano per il Mar Rosso

spingendo a fatica la galera;

il rugghio copre lo stridio dei ceppi

strillano, Perù la loro patria.

I Peruviani ricordano il Perù

un paradiso, c’erano uccelli, danze

donne e su ghirlande di fiori d’arancio

crescevano al cielo i baobab.

Banane, ananassi! Un mucchio di gioie!

Vino in vasellame conservato…

Ma ecco, chissà perché e da dove

i giudici giunsero in Perù!

E disposero un cerchio di commi

per ingabbiare uccelli e Peruviane.

Gli occhi del giudice sono barattoli di latta

che scintillano in un mondezzaio.

Capitò un pavone blu-ranciato

sotto il suo occhio severo come il digiuno,

e scolorì sull’istante la magnifica

coda di pavone!

In Perù volavano per la prateria

certi uccellini detti colibrì;

il giudice ne prese uno e il pelame e le piume

rase al povero colibrì.

Adesso, nemmeno in una sola valle

vi sono vulcani fumanti.

Il giudice ha scritto su ogni valle:

“Valle per non fumatori”.

In Perù persino i miei versi

sono proibiti, su minaccia di torture.

Il giudice ha stabilito che “quelli in vendita

sono bevanda alcolica”.

L’Equatore freme al tintinnio dei ceppi.

Il Perù è vuoto di uccelli e di uomini…

Vi abitano soltanto i giudici depressi,

rannicchiati con astio sotto i codici.

Eppure, sapete, fa pena il Peruviano.

Senza ragione gli han dato la galera.

I giudici disturbano gli uccelli e le danze,

e me e voi e il Perù.

Vladimir Majakovskij  1915

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