Stelle tardive di Arsenij A. Tarkovskij – Arsenij e Andrej

Stelle tardive. Versi e prosa. Testo russo a fronte

Copertina anteriore

Giometti & Antonello, 2017
Chiunque si trovi a sfogliare le pagine di questo libro non potrà sottrarsi alla sensazione di maneggiare una sorta di potentissimo ordigno inesploso della letteratura russa del Novecento. Mentre infatti figure come Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Osip Mandei’stam hanno dispiegato appieno la loro fortuna in Occidente, e il figlio Andrej, regista cinematografico fra i più grandi dello scorso secolo, giungeva ad essere vincitore a Cannes, Arsenij Tarkovskij (Elisa-vetgrad, 1907-Mosca, 1989), scrittore cui il regime sovietico impedì di pubblicare opere proprie per più della metà della sua vita ma in seguito autore di raccolte poetiche sempre più fortunate nel suo paese, resta in Italia e in Europa un oggetto semisconosciuto. Già la censura staliniana, in ogni caso, aveva colto la grandezza di questo artista, giungendo a scrivere in un documento ad uso interno, all’atto di bloccare le sue prime pubblicazioni, le seguenti parole: «Poeta di grande talento,Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmatova, Gumilév, Mandei’stam e l’emigrante Chodasevic, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». Le poesie raccolte nel presente volume, unitamente alle prose di narrativa autobiografica e di meditazione sul senso del poetare che lo concludono, restituiscono un ritratto dinamico dell’autore attraverso tutte le fasi della sua produzione. E il risultato è sorprendente. Ad ogni pagina, anche aprendo a caso, si celebra l’incontro con qualcosa come un monile o una pietra preziosa. E questo non sarebbe stato possibile senza la mediazione (qui da intendere anche in senso quasi medianico) del curatore/traduttore Gario Zappi che – all’epoca di queste traduzioni poco più che ventenne – riesce nel miracolo di sublimare la nostalgia dell’originale in una lingua in cui si avverte la voce dei momenti migliori della letteratura italiana nel suo insieme.

https://books.google.it/books/about/Stelle_tardive_Versi_e_prosa_Testo_russo.html?id=w_AMMQAACAAJ&redir_esc=y

Stelle tardive

30 marzo 2017 Pubblicato da Massimo Gezzi |

di Arsenij Tarkovskij (trad. di Gario Zappi)

[La casa editrice Giometti & Antonello manda in libreria il volume di Arsenij Tarkovskij Stelle tardive. Versi e prosa, che raccoglie una selezione delle poesie più belle di questo autore (nato ad Elisavetgrad in Ucraina nel 1907 e morto a Mosca nel 1989, padre del regista Andrej), nonché una scelta delle sue prose più significative. Riemergono così alla luce un autore ancora tutto da conoscere (non solo in Italia) e le traduzioni che ne fece più di vent’anni fa un giovanissimo Gario Zappi. Presentiamo qui tre poesie e una delle prose contenute nel ciclo autobiografico Costantinopoli].

E lo sognavo, e lo sogno,
e lo sognerò ancora, una volta o l’altra,
e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,
e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.

Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo
un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,
e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,
e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.

Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò.
La vita è la meraviglia delle meraviglie, e sulle ginocchia della meraviglia
solo, come orfano, pongo me stesso,

solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi
di mari e città risplendenti tra il fumo.
E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia.

*

Studio su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno,
scivolo tra due macine come un chicco di grano nel rotare delle pietre,
sono per intero già immerso nello spazio a due dimensioni,
il mulino della vita e della morte m’ha spezzato la spina dorsale.

Cosa fare, o pastorale d’Isaia, della tua rettitudine?
La pellicola senza tempo, né alto, né basso, è più fine d’un capello.
Nel deserto il popolo si radunava sui massi, e nell’arsura
la pianeta di stuoia da re mi recava sollievo alla pelle.

*

Notte di neve a Vienna

Sei folle, Isora, folle e malvagia,
a chi hai donato il tuo anello col veleno,
chi hai atteso appiattata dietro la porta della taverna?
Mozart, bevi, non t’affliggere, morte e gloria vanno insieme.

Ah, Isora, i tuoi occhi sono splendidi,
più neri della tua anima, così nera e così trista.
La morte è come la passione, vergognosa. Aspetta, ancora un po’,
fa nulla, ora soffocherà, Isora.

E allora vola, senza sfiorare coi piedi il manto nevoso:
c’è ancora qualcuno da poter rendere sordo
e cieco, ci sono ancora i morsi della fame,
il lampione dell’ospedale e la vecchia infermiera.

*

L’eclissi di Sole

– Bambini, – disse la mamma, – vedete voi stessi quanto sia difficile per tutti noi. Zia Vera ha zio Volodja al fronte, Anna Dmitrevna ha Tolja. Anche Jura è al fronte. Non mi allarmate inutilmente, non andate a correre vicino al fiume. Potreste annegare. Non causatemi soverchie preoccupazioni. Nei pressi del ponte di Balaševsk è stato visto un disertore. Si nasconde qui da qualche parte. Badate, che non vi derubi! Vi scongiuro: fate attenzione!
Io domandai cosa fosse un disertore e la mamma ci spiegò che era una parola di origine straniera, da quale lingua venisse non se lo ricordava perché aveva la testa piena di altre cose e che tutti combattevano contro i tedeschi, ma c’era gente che era fuggita dal fronte o che, ancor prima di raggiungere il fronte, si nascondeva alla polizia, e i disertori erano come dei briganti e noi dovevamo cercare di non incapparci nei pressi del fiume dove tutti loro si nascondevano.
– Perché poi, – chiese Valja, – i disertori se ne stanno per forza vicino al fiume? Se tutti sanno che loro sono vicino al fiume, allora fanno male a nascondersi lì: ci vorrebbe proprio poco perché qualcuno andasse lì ad agguantarli.
A quel punto la mamma si accorse che Valja si era graffiato ad un ginocchio e lo trascinò via per spennellarlo con la tintura di iodio.
L’estate non era ancora terminata, faceva un gran caldo. Alla dacia si bruciavano le erbacce ed un fumo dolciastro si spandeva al suolo, e la steppa bruciava da qualche parte. Di giorno il cielo era velato dalla foschia, di notte mandava riflessi vermigli, ed io avevo paura. Con mio fratello e gli altri bambini mi facevo coraggio, correvo al fiume insieme a loro e infrangendo il divieto mi facevo perfino il bagno. Quando restavo solo però, non riuscivo a vincere il timore, non mi allontanavo da casa, fiutavo l’aria che continuava a puzzare di bruciaticcio. L’inquietudine mi gravava sul cuore e non mi consentiva di correre e giocare come un tempo, prima della guerra.
E giunse il 21 agosto 1914. Zio Saša distribuì ai contadini ed ai vicini dei pezzetti di vetro affumicati: quelli riusciti più accuratamente – ricavati dai negativi fotografici – li diede a noi bambini. Noi ce ne stavamo tutti in strada a guardare attraverso quei vetrini il sole e gli alberi. Il sole sembrava marrone, gli alberi non li si vedeva affatto. L’eclissi non si era ancora verificata, e la mamma già temeva che le mucche ed i cani si spaventassero e si mettessero per la paura a darci di cozzo e morsicarci. Ella ci voleva rinchiudere in giardino, ma lo zio Saša le promise che dalle mucche ci avrebbe difeso lui.
Io dimenticai completamente che il vetro andava tenuto con la parte non affumicata dalla parte degli occhi e mi macchiai tutto. La mamma mi tolse il vetro e disse che non me l’avrebbe restituito finché non mi fossi lavato. Corsi nella cucina che era separata dalla casa ed iniziai a lavarmi sotto al piccolo distributore d’acqua inchiodato al palo del lampione. Il sapone mi finì negli occhi, e quando infine li ebbi sciacquati e li aprii, vidi dinanzi a me un uomo magro, non rasato, tutto stracciato e con indosso degli stivali nuovi. Gridai, ma egli protese una mano verso di me come per tranquillizzarmi, e disse:
– Non temere, bimbo, vai in cucina, chiedi un pezzo di pane e qualcos’altro, perché son tanto affamato, vai, bimbo, di cos’hai paura?
Mi asciugai il viso col fazzoletto ed andai in cucina, guardandomi intorno di continuo. Evidentemente mi aveva contagiato lo straccione con gli stivali nuovi: anch’egli si guardava intorno come se avesse paura di vedere qualcun altro oltre a me. In cucina non c’era nessuno: erano tutti in strada a scrutare il sole e ad ascoltare ciò che diceva zio Serëža.Tagliai un pezzo di pane bianco, presi alcune patatine lesse, un uovo crudo, un melone e del sale, lo portai a quell’uomo e glielo diedi, ed egli mi ringraziò, disse che avrebbe in eterno pregato Dio per me, e s’incamminò, ma non verso il cancelletto che dava sulla strada, bensì in giù, verso il fiume. Io gli corsi dietro e gli gridai che il cancelletto era là, che lui stava sbagliando strada.
Egli mi guardò sorridente, ma il suo sorriso non era lieto, e disse che sarebbe andato verso il fiume, che l’avrebbe passato a guado. Ebbi all’improvviso un’illuminazione, e compresi che quello era un disertore. Mi sentii un tuffo al cuore. Egli si fermò e guardò il sole riparandosi con una mano. Il sole si era scurito visibilmente, ed il cielo s’era sbiadito.
– Ma cosa succede al sole? – chiese il disertore, ed io, ricordatemi le parole di zio Saša, gli raccontai che c’era un’eclissi di sole, e che ciò accade quando la Luna, questo satellite della Terra, si mette fra la Terra ed il Sole e lo eclissa, che l’eclissi sarebbe stata totale e che si sarebbe fatto ancora più buio. Il disertore osservò che era un bene, che era proprio quello che gli occorreva che fosse buio, se no c’era troppa gente che se n’andava in giro. Si frugò in tasca, ne trasse un proiettile da fucile, autentico e carico, e me lo regalò. Disse che quel proiettile non lo dovevo picchiare contro qualcosa e nemmeno gettarlo nel fuoco: poteva scoppiare e ferirmi.
Osservai estasiato il mio primo proiettile, mentre il disertore se ne andava, e quando tornai in strada dalla mamma, da zio Saša e dai bambini e guardai il sole, la fase calante era nitidamente visibile. Mi macchiai nuovamente con la fuliggine. Le mucche ed i cani si misero a dormire, pensavano che fosse scesa la notte. Su in cielo fecero la loro comparsa le stelle. Ma più di tutto mi piacque la rilucente strisciolina di luce abbagliante sul bordo del disco, quando l’eclissi andò in calando.

[anni ’50]

http://www.leparoleelecose.it/?p=26931

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