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Tarkovskij Andrej

Andrej Rublëv

Ven, 10/10/2008 – 18:50 — martello

Andrej Rublëv è un film ricco di domande. Narra la vita del celebre pittore russo medievale, autore di icone sacre. È un affresco storico eppure è un film sull’arte. È un film letterario, come spesso in Tarkovskij, lento e coinvolgente che come un fiume investe e accompagna, trascina con sé unendo ramoscelli e sassi, guizzi di genio ed eventi spiacevoli. Le immagini ci attraversano lievi come fiocchi di neve, soffici alla vista ma pungenti al tatto.
“Non c’è nulla di più pauroso che vedere la neve che cade in una chiesa”.
Medioevo.
Tutto inizia con un volo. Una mongolfiera su una chiesa ed un monaco che riesce a volare. L’incanto però si spegne quando, dopo una estatica panoramica sui campi, la mongolfiera si sgonfia e il sognatore precipita.
Tre monaci a piedi: Andrej, Daniil e Kirill. Abbandonato il monastero, si mettono in viaggio per raggiungere Mosca. Piove e decidono di ripararsi in un capannone in cui un buffone (doppiato da Oreste Lionello) si esibisce in uno sberleffo grossolano sui boiardi. Alla vista dei tre monaci non li risparmia e si prende gioco di loro. Misteriosamente però viene portato via da alcune guardie, molto rudemente.
Il cammino continua. Kirill, uno dei tre monaci ha l’opportunità di incontrare il maestro Teofane il Greco. Questi gli chiede di diventare suo aiutante. Quando però il monaco è pronto per seguire il grande pittore, qualcosa non funziona, e viene scelto Andrej Rublëv come apprendista pittore. Malgrado siano pii e devoti, le passioni umane hanno la meglio e l’invidia e la presunzione portano dissapori tra i due compagni.
Una volta giunti nel battistero in cui avrebbero dovuto dipingere, qualcosa agita fortemente Andrej e i lavori tardano a cominciare. Cosa turba il monaco pittore?
Andrej e il maestro Teofane discutono sulla violenza dei fedeli. La tortura e le reazioni entusiastiche della gente a questa sconvolgono fortemente entrambi. I pagani d’altro canto celebrano le loro passioni carnali e non nascondono il disprezzo – pronti ad esternarlo con la violenza – verso i monaci. Tutto sembra condurre l’essere umano verso una estenuante carneficina. L’arte pare essere un limbo. Una cura. Il vecchio pittore sfoga il proprio disprezzo verso la gentaglia con la propria capacità, insuperata, di artista. Si dedica al bello ma sa che non può essere per tutti. Rublëv è giovane e non può credere ad una così meschina realtà della vita. E si oppone. Non è realizzando un Giudizio universale che semina terrore che i fedeli possono trovare redenzione e carità. L’arte non deve terrorizzare. A questo basta la cattiva catechesi.
Quando la loro terra sarà invasa dai Tartari qualcosa cambia nell’animo del pittore. Quando toccherà con mano l’orrore di cui un solo soldato sa essere capace, allora anch’egli sarà invaso dal pessimismo e dalla disperazione. Ancor di più quando, per salvare una giovane indifesa, si vedrà costretto ad uccidere – allora, ogni certezza sarà sgretolata. Solo la fede, persistente, totale e fuori dai dogmi insensati potrà riportarlo verso se stesso. Riacquisterà una via d’uscita.
Per espiare all’uccisione, cadrà in un totale mutismo e si dedicherà al lavoro.
Sarà un ragazzo, giovane e arrogante, bugiardo ma con un talento artistico che nemmeno sa di possedere, a restituirgli la parola. Allora tutto sarà chiaro: erreranno entrambi, dedicando se stessi alla sola cosa per cui Dio li ha messi al mondo: il talento artistico.
Andrej Rublëv è un’opera monumentale. Per quanto duri tre ore è da ammettere che sia uno dei risultati più coinvolgenti di Tarkovskij. Sono ravvisabili già elementi che il regista farà propri successivamente, come la cattedrale, figura materna evidente, e l’acqua, simbolo di vita per eccellenza. Ma non è mai dell’acqua limpida e cristallina; è dotata di erbe fluttuanti, ombre inquietanti, sabbia o addirittura fango argilloso. È terra innanzi tutto, è la patria cui Tarkovskij canta l’oppressione. È indubitabile che i Tartari siano allegorie di ben altri eserciti oppressori, ben più contemporanei. Tanto evidente che il film fu mutilato (la durata originale era di sei ore) e bloccato dalla censura sovietica per sei anni. Ma la lettura politica è soltanto una delle svariate sfaccettature di un film così variegato. La questione religiosa, che un po’ ricorda Bergman, si trasforma in vera e propria sofferenza esistenziale. E terribile è l’efficace istantanea di un medioevo ben lungi da demoni e cavalieri, ma figlio della Storia: invasioni, punizioni corporali figlie di legislature arcaiche, sterminate zone paludose attraversate da balordi, foreste insicure popolate da briganti o boscaioli eccitati. Un universo dove omicidi sono all’ordine del giorno e gli stessi monaci trasformano i monasteri in templi che Gesù condannava. E in tutto questo, nei secoli, rimangono le icone e le opere di ingegno. Le cattedrali, le campane, i dotti e i testi letterari. Donne pagane fanno l’amore o vengono fustigate per quotidiana follia. E la neve rende più invivibile l’inverno. Se c’è un Paradiso nulla può avere a che fare con la vita sulla terra. Dove la stessa parola di Gesù diviene pretesto e giustificazione.
Una delle scene più raffinate è senza dubbio la sacra rappresentazione sulla neve. Un corteo di donne e uomini seguono un altro con una croce sulle spalle. È vestito di stracci e ha i piedi avvolti in panni fradici. Gli vengono piantati dei chiodi e viene appeso alla croce. Non una parola, non un sibilo di pianto. Ma la neve che tutto avvolge e sotterra.
I capitoli che man mano distillano la storia del pittore, otto più un prologo e una conclusione, rallentano ancora di più la narrazione riflessiva. La pioggia che sfoca la vista, il sole che non riesce a sciogliere il ghiaccio, il vento che tutto dissesta. Andrej è l’uomo perfetto: scava nella sua imperfezione e ne ricava qualcosa che non ha per meriti. Non è al centro del mondo, è comunque un timorato di Dio, così come lo è dall’uomo. Lo è dalla vita, mistero che può indagare con l’arte. Quando, in mezzo alla carneficina, proprio al centro della chiesa, Andrej parla con lo spirito del suo maestro morto egli ha perso del tutto ogni speranza. Non può credere a ciò che è successo (il massacro dei tartari dentro la casa di Dio) e soprattutto non riesce ad accettare di essersi macchiato della stessa colpa dei suoi nemici.
Teofane lo ascolta e sa che quel suo disprezzo per l’essere umano, animale capace di solo di violenza, è un abbaglio. E, con le parole più semplici del mondo, lo riconduce a Dio.
“Eppure ci sono ancora delle cose belle al mondo”
Regia: Andrej Tarkovskij
Sceneggiatura: Andrej Mikhalkov-Končalovskij, Andrej Tarkovskij
Fotografia: Vadim Jusov
Montaggio: A. Tarkovskij, Ljudmila Fejginova
Interpreti principali: Anatolij Alekseevic Solonicyn, Ivan Lapikov, Nikolai Grin’ko, Roland Bykov, Irma Raus Tarkovskaja.
Musiche: Vjaceslav Ovcinnikov
Origine: Unione Sovietica, 1966
Durata: 180 minuti.

http://www.lankelot.eu/cinema/tarkovskij-andrej-andrej-rublev.html

Andrej Rublëv

di Andrej Tarkovskij

drammatico, Urss (1966)

 di Piero Calò

Se è vero che in Italia si legge poco (circa due libri l’anno a persona) è anche vero che se, nel corso dell’anno, avete visto Andreij Rubliov dall’inizio alla fine potete legittimamente vantarvi, come me, di essere arrivati a tre.
Si tratta infatti non solo di un film lungo (più di tre ore) ma anche ostico, che si lascia appena intravedere, chiede molta attenzione e promette moltissimo, come un giallo di mille pagine.
Alla fine, il dubbio resta: l’assassino è catturato ma il Male continua a imperare; Andreij Rubliov è il più grande pittore di icone della Cristianità (è stato anche canonizzato dalla chiesa ortodossa) ma noi rimaniamo lo stesso con i piedi a mollo nel Limbo e ciò che ci resta, come sempre, è il fatto compiuto, le sue icone.
Dopotutto, perché lamentarcene? Almeno abbiamo qualcosa da guardare…Secondo lungometraggio del regista russo, Andreij Rubliov è una vera e propria epopea che abbraccia, grosso modo, 23 anni di storia della Rus’ (l’antica Russia).
Per noi occidentali corrisponde al periodo del Basso Medioevo, mancano solo pochi anni alla scoperta dell’America.
Neanche per i russi è notte fonda; ancora divisi in principati fratricidi e azzannati a ondate intermittenti dalle orde mongole, la futura Russia ha già sviluppata le tre colonne che la terranno in piedi fino alla rivoluzione d’Ottobre: popolo unito, aristocrazia e ortodossia. Manca solo lo zar.
Il film è strutturato in otto episodi, oltre ad un prologo (apparentemente gratuito) e un epilogo a colori, un documentario sull’opera del protagonista, il pittore Andreij Rubliov (Anatolij Solonicyn).
In mezzo, quindi, gli otto episodi nei quali la figura di Andreij è impressa da diversi punti di vista: spettatore in alcuni (“Il buffone” e “La campana”); solo evocato nel capitolo “Teofane il greco”; protagonista nei restanti cinque.
Gli otto episodi sono legati sul piano temporale, consecutivo, e ci mostrano il giovane Andreij che, dopo le intermittenti crisi spirituali, diventa il vecchio Andreij finché, Vanitas Vanitatum, diventando polvere ci restano di lui solo le splendide icone dell’epilogo. E fin qui ci siamo.
Il secondo grado del racconto è il vero e proprio rompicapo: perché, nonostante tutto, il Male continua a regnare?
Questo è un dilemma tipicamente russo e proviamo adesso a ricomporne la sciarada:
– la Fede salverà il mondo
– la bellezza è il linguaggio della Fede
– la bellezza salverà il mondo.E allora perché, tuona Andreij Rubliov, devo dipingere il Giudizio Universale con tutto il suo corollario di dannati immersi nella pece bollente?
E ancora: perché la crocifissione di Cristo si è ridotta ad un crudele protocollo entro cui perpetuare la sofferenza della gente?
Diciamolo subito, non c’è risposta.
Andreij Rubliov è stato canonizzato per le sue icone, non per le sue idee ma, se non proprio una risposta, una speranza c’è. Ci ritorneremo alla fine del ragionamento:1. Il bene contiene il male. La Fede si nutre del Terrore.
Andreij si rifiuta di dipingere il Giudizio Universale ma, quasi in epilogo di vita, correrà entusiasta a dipingere il mistero della santissima Trinità. Dice Teofane il greco, suo maestro: “Io dipingo velocemente, dieci giorni al massimo, e ho le idee chiare: il popolo è ignorante e capace solo di peccare. Deve vivere nel terrore e scontare i suoi peccati che partono da Giuda che ha tradito Cristo e da Pietro che l’ha rinnegato.”.
Andreij la pensa diversamente e una soluzione la trova: si rifiuta di raffigurare il male, accetterà di dipingere il bene.
Dopotutto è una scorciatoia. Eravamo stati avvisati per tempo della psicologia di Andreij: il suo confratello (invidioso) Kirill (Ivan Lapikov) lo aveva detto: “Andreij si deve fare. Non ha timor di Dio né fede.”.2. Il male contiene il bene. L’enigma di Dioniso.
La divinità greca, molto prossima al pensiero russo (dopotuttto le due terre condividono confini e religione) è il vero convitato di pietra del film e spiegherebbe il prologo, in apparenza totalmente gratuito: una proto-mongofiera si invola con un certo Yefim (Nikolay Glazkov) a bordo; sulle prime l’uomo è estasiato, cullato dalle morbidissime panoramiche di Tarkovskij, dalla vertigine dell’ascesa. Poco dopo, la mongolfiera si schianta al suolo. Lo stato di estasi ci dà l’idea dell’ordine divino e dell’amore verso tutte le cose del creato, così piccolo e indifeso visto dall’alto ma, non appena fa capolino l’ebbrezza di Icaro, quando Yefim prende coscienza, “Io volo…” dice tra sé e sé, è punito della superbia e si schianta al suolo.
Così il prologo del film è anche il prologo delle innumerevoli facce dell’ambiguo Dioniso: il buffone che si prende gioco di tutti ed è arrestato (capitolo “Il buffone”); la festa pagana che è un insulto a Dio ma che è innocua, pacifica ed è invece sedata brutalmente (capitolo “La festa”). Una delle più belle immagini del film, un lentissimo travelling laterale in acqua, ci mostra una baccante, nuda, che scappa, a nuoto nel fiume, dai suoi aguzzini mentre costeggia la barca di Andreij che fa finta di non conoscerla. Durante la festa, lei lo aveva anche baciato.
Il nodo insomma resta da sciogliere.3. La bellezza mostrerà il mondo. Il cinema di Tarkovskij.
A questo punto Tarkovskij prende posizione e se non può dimostrare che la bellezza salverà il mondo, fa il suo mestiere e mostra, mostra la bellezza.
E dove sta la bellezza? Innanzitutto nel movimento: tutto il film è un’unica vertigine di travelling laterali e panoramici che segnano l’incedere dei personaggi, l’irruenza dei cavalli, l’esplorazione degli spazi sacri, il lavoro degli artigiani.
In second’ordine nei bambini, immortalati in splendidi primi piani, biondi e paffuti, maschi e femmine, che sorridono avulsi dall’azione in cui sono contestualizzati, purificati dall’ambiguità delle azioni e dei pensieri dei “grandi”, innocenti e perciò “cari a Dio”.
Il fanciullo e il movimento trovano il loro culmine nell’ultimo capitolo “La campana”. Boriska (Nikolaj Burljaev) è un ragazzo cui la peste ha ucciso tutta la famiglia. Vive in una stamberga con una gallina, che sembra più grossa di lui. Il Duca ha bisogno di una nuova campana per la cattedrale, il padre di Boris ne era l”artigiano ma è morto. Boris insiste (e ottiene) di prendere le redini del lavoro perché proprio a lui è stato confidato, dal padre morente, il segreto della fusione.
Questo splendido episodio, film nel film, mette in valore il talento visivo di Tarkovskij: è un tripudio di travelling, di primi piani del ragazzo sempre più stremato, perché fondere una campana è un’impresa da titani, con fiamme alte metri su metri e centinaia di comparse che si danno da fare e si muovono convulsamente. In questo episodio, Tarkovskij somiglia molto a Ejzenstejn.
Quest’esaltazione del lavoro-pazienza, di un’arte corporativa che non si impara sui libri ma è trasmessa di padre in figlio, trova la sua desolazione ancora una volta nell’ambiguo finale, in cui Boris piange disperato invece di rallegrarsi. Qui interviene Andreij Rubliov che fino a quel momento era stato ammirato e muto spettatore. Rompe il voto del silenzio e si rivolge al ragazzo: “Perché piangi?” – chiede.
Il ragazzo risponde che non aveva nessun segreto e che suo padre, morendo, non gli ha lasciato detto nulla di nulla. Boris ce l’ha fatta da solo.
Lo shock per questa ultima prova della desolazione in cui versa l’umanità è appena mitigata dalla decisione di Andreij Rubliov:” Io tornerò a dipingere, tu forgerai campane…”.Dove sta Tarkovskij in tutto questo tempo?1. È nel suo lavoro-pazienza che aggiunge materia come un pittore e la sottrae come uno scultore; che crede nella dinamica delle cose e non nella loro contemplazione. Edificante, al riguardo, la sequenza in cui Andreij si ferma ad osservare il movimento, a onda, di una biscia che nuota nel fiume (nell’episodio “La Passione secondo Andreij”) e prova a farlo vedere al pigro allievo Fomà. Fomà è davvero troppo pigro, quando arriva la biscia è già fuggita e poco dopo potrà solo contemplare un uccello già morto e in putrefazione. Solo la morte si fa ammirare, solo lei può essere contemplata.
2. È nell’acqua, in cui si scioglie gran parte dell’ambiguità del film: acqua, fonte di vita ma anche di annegamento; brodo di cultura, via di fuga e di salvezza, sempre popolata da esseri viventi, piccoli e grandi, uomini e no, che si credono bisce.
3. Si nasconde, infine, nel bianco/nero che mette tutto sullo stesso piano, il sudore e la polvere uguali al sangue, l’azione dell’uomo, paziente, e la pazienza delle cose sempre in attesa di essere forgiate in qualcos’altro, percosse, riscaldate, raffreddate, corrette e che sollevano un mucchio di polvere. Dopotutto, non è la polvere il sangue delle cose?

http://www.ondacinema.it/film/recensione/andreij_rubliov.html





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