Poesie di Endre Ady

giovedì 12 novembre 2015

“Sento che da lontano vengono

altri.
Ma il lontano dov’è, dove il vicino?
E dove nel mezzo,
stazioni?”
(Endre Ady)

Fonte: Wikipedia
Suggerimento. Suggestionato. Soggiogato.
Perché la storia di un casuale incontro tra uno studente di letteratura italiana e la poesia di Endre Ady, sconosciuto ungherese, nel 1991, può, tranquillamente, anche riassumersi in mere tre parole. Anche perché stavolta la recensione per vari e svariati motivi e imposizioni non è possibile nei suoi canonici, consueti ed archetipici stilemi. Tutto ciò nasce dalla lettura (obbligatoria) per un esame di “Letterature comparate”, su un testo, Armando Gnisci, “Il colore di Gaia”. Azzurro”,Carucci editore, 1989. Testo di per sé utopico, una ricerca di concordanze e discordanze fra le letterature del mondo, alla ricerca forse di una pietra filosofale. O di qualche magia cattedratica al sapor di re Mida.
Qui è solo una serie di sensazioni e qualche notizia. Perché certo che non si tratti né del primo né dell’ultimo caso di denuncia di brillante operazione per rimozione e cancellazione, per motivazioni ardue da poter sostenere oppure anche lontanamente spiegare. Per le notizie rimando alle forzatamente scarne note.
Poi.

Qui propongo qualche lettura e qualche annotazione a margine. Che si prendano come glosse, alla maniera degli antichi frati medievali, che in qualche modo, oscuri scrivani e forse solo per imposizione di fede, trascorrevano e trastullavano il proprio tempo copiando, senza però resistere alla demoniaca tentazione di lasciare una traccia. Perché questa lunga digressione mi piace scriverla come una chiosa.
“Partiamo. Andiamo verso l’Autunno,
gracchiando, piangendo, inseguendoci,
due falchi dall’ala lenta.
L’estate ha già dei nuovi rapaci
Schioccano le ali dei nuovi falchi
Incrudeliscono le battaglie d’amoreNoi lasciamo l’estate, trasvoliamo scacciati,
ci fermiamo in qualche luogo dell’Autunno,
amorosi, con le piume arruffateSono le nostre ultime nozze:
ci strappiamo le carni a colpi di becco
e cadiamo sul fogliame d’autunno”(“Nozze di falchi sul fogliame secco”)Eccolo l’amore come un’ arena, fatto di volatili eppur rapaci, che si consumano con forza a volte al di fuori del reciproco rispetto, una consumazione lenta ed inesorabile, mentre le stagioni passano, i cieli cambiano e gli amori continuano ad inseguirsi in base a folli dettami senza ragione né pietà. Potente, forse esageratamente drammatica, ma di forte impatto emotivo, molto guerresca e livida, come un’eterna tempesta che alcuni amori, o idee di amore, possono anche scegliere e delegare come propria rappresentazione.
Poi la caducità della vita, torna lo scorre del tempo, l’inasprirsi dei contrasti fra volere ed avere, oppure sentire e sentito, o quello più archetipico vivere ed esistere, fatto di scelte fra un carpe diem fino all’estremo oppure una lenta costruzione di fragili muraglie all’imperversare della casualità:
” Un minuto, e la vita mi bacia
Il mio corpo è una caldaia, lieta ardente
Ardono le donne, le case, le strade
I cuori, i sogni. Tutto arde
E tutto è immortale
Un minuto, e vengono piccoli demoni:
spengono le fiamme con lunghi ciuffi.
Viene il dubbio, viene un gran freddo.
Viene il fango e forse il ricordo
D’un paio di calzoni sdruciti”
(Solo un minuto)Una lotta destinata alla sconfitta contro la mutevolezza e lo scorrere del tempo e degli stati d’animo e la parola pare una umile schiava volta solo a cristallizzare la sensazione di.
Perdersi. Lasciare. Non ritrovarsi.
Non ci è dato sapere se alcuni atteggiamenti così lessicalmente spinti allo stremo furono frutto di una personalità teatrale, o doppiogiochista, troppo poche ancor ora le conoscenze e troppo forti le evocazioni suggestive.
Sessualità certo, ma anche anche intensità lirica, senza struggimento che comunque appaga i romantici, qui siamo pur sempre nel Novecento, anche se in provincia della Letteratura divulgata.
Ancora l’amore. Ancora il fuoco, la carnalità, il consumo, il darsi-aversi ma finire. E poi la labilità umana, il resistere oppure lasciarsi al tutto, un vortice e la scelta che appartiene soltanto all’uomo: poca metafisica, siamo nel campo del carnale:
” Stiamo su una cima selvaggia noi due
Stiamo abbandonatie rigidi
Aggrappati l’uno all’altra, senza lacrime, lamenti, parole:
appena un tremito e cadiamoCi legano lacci di carne e sangue
finché stiamo così avvinghiati:
le nostre labbra livide e tremanti.
Finchè tu mi baci, non abbiamo parole:
ma se dici una parola, cadiamo”
(Stiamo su una cima selvaggia)

Sembra che solo una prorompente e quasi eccessivamente accesa materia possa dare sostanza e linfa ad una comunicazione nella relazione amorosa: il resto pare affidato a vertiginose cadute negli abissi del.
Adolescenziale o monodimensionale forse, come postera interpretazione, ma certo che la forza che emana sembra tatuare gli occhi alla semplice lettura con un marchio di fuoco e fatuità. Però credo sia giusto sottolineare che la poesia a volte non deve esser un semplice mondo circoscritto, un porre paletti sulla base di musicalità e significato delle parole. A volte la poesia può essere un sussurro all’orecchio di mondi e o sensazioni probabili, ma non impossibili, oppure la eco di una musica suadente che ammalia, come dovette forse essere nella fantasia il canto delle sirene per l’Ulisse omerico in preda a passate e future tempeste.
E il poeta Ady ( e probabilmente anche l’uomo che fu,ma non può rispondermi sul quesito) a volte decide l’abbandono con lucida, pazza, a volte egoistica consapevolezza:
” Io sono il parente della morte.
Amo l’amore morente
Amo baciare
Chi se ne va
….
Amo coloro che partono
Che piangono e si destano
E, nei freddi mattini brinati,
i campi….
Amo i delusi, gl’infermi
Coloro che sono fermi
Gli increduli, i tristi:
amo il mondo”

Visione apocalittica e forse anche questa eccessivamente decadentista-nichilista, ma che per quel che se ne legge, una dichiarazione di poetica, stanca forse, ma che riserva sorprese ad ogni verso (gli increduli ed i tristi sono antitesi semanticamente forti per una connotazione come quella evidenziata).
E forse profetico fu il poeta, nella sua visione tragica:

“Nemmeno un frusciare tradisca
Ciò che ha già nascosto l’anima mia:
senza vita se ne è andato qualcuno,
che ne è andato uno che fu di qui

Di altri non fui, neppure di me stesso,
la fredda nullità è mia sposa.
Non ho il diritto di lasciare ricordi,
ne ho il diritto di ricordare

Come una domanda dimenticata
E senza risposta, io cada nella pace:
che non voglia più essere, se fui:
e, se fui, rimanga segreto a tutti”
(La partenza pacifica)

Oppure:
“Le stelle cadenti mi hanno illuminato,
mandragore da poco stordito
e, in luogo della vita, non ho avuto che ore”
(Ore in vece di vita)

Così fu, credo, così è stato. Un segreto, però che lascia qualche vaga inquieta certezza e qualche parola che in certi momenti, in eventuali momenti, può anche divenire una bussola. Una bussola che, sia detto per inciso, non detta coordinate geografiche, ma solo indica terra del pensiero e dell’emozione da cui, eventualmente ripartire.

Insomma la storia di parole che mi hanno a suo tempo vinto e convinto. Come solo la poesia sa e può fare.

BREVI NOTE

Endre Ady (Ermindszent, 22 novembre 1877 – Budapest, 27 gennaio 1919) fu essenzialmente poeta, ungherese, in una futura nazione che andava aprendosi all’Occidente e che vedeva sfaldarsi lentamente e senza sosta l’impero asburgico di cui faceva parte. Nato da una famiglia andata sul lastrico, si avvicinò alla giusta età alla rivista Nyugat, considerata la prima rivista in quei luoghi a svecchiare la letteratura indigena ed anche il senso estetico fino ad allora dominante. Nel sito citato si possono leggere le opere pubblicate in lingua indigena.

Ancora attualmente è poeta essenzialmente di interesse ungherese e talvolta degno di interesse inglese. Assai scarsa la sua notorietà in Italia.

http://libritudini.blogspot.it/2015/11/poesie-endre-ady.html

Endre Ady, il poeta dei desideri che amava i tramonti a via Veneto

“B ENEDICO Roma che brulica, che stringe/ ogni cosa nel suo abbraccio,/ grande anche nelle mollezze”. Endre Ady, poeta e giornalista ungherese, fu ospite più volte a Roma nell’ Albergo Imperiale, in via Veneto. Una targa lo ricorda. “In questo albergo soggiornò Endre Ady, poeta del destino, dei desideri e dei sogni della nazione ungherese.” Dicono che più dei musei, le gallerie e le rovine, amasse la gente e i tramonti. Insieme a lui viaggiava una donna, Leda. Endre Ady era nato ad Érmindszent, distretto di Szilágy, il 22 novembre 1877 in una famiglia di nobili decaduti, calvinisti, e infine poveri. Era nato con sei dita per mano, segno di eccezionalità ma anche di malaugurio, di un destino diabolico. Fu l’ ostetrica ad accorgersene e ad amputargli quello che avanzava. Per tutta la vita il poeta mostrò con orgoglio le sue cicatrici, che chiamava magiche. Visse e studiò in Ungheria, abbandonando gli studi di Legge per diventare giornalista. Due donne gli furono fatali, la prima perché lo avvelenò. E’ lei la protagonista di un bellissimo racconto intitolato “Il bacio di Rosalia Mihaly”. Rosalia, che nasconde la vera identità di Maria Rienzi, visse solo ventisei anni. Fu “piccola, teatrale e virago”. Aveva i capelli rossi e rideva fragorosamente, secondo quanto si addice a una ballerina. “Non l’ ho mai vista Rosalia Mihaly”, scrive il poeta, “ma nessuna altra donna ha segnato la mia vita in modo più possente”. Si era invece invaghito di Marcella Kun, anche lei attrice, e le aveva promesso che se si fosse concessa avrebbe scritto per lei una bella recensione. Ma lei tentennava, spaventata dal suo ardore. “Io non mi ero mica messo a studiare l’ amore per sapere che diavolo fosse”, le diceva, “ma per consumarmici, per ridurmici in cenere, come più mi fa piacere”. Ma alla fine cedette. E lo contagiò. Una ricerca ossessiva delle origini della malattia, porta il poeta, attraverso un giornalista mediocre e volgare, fino alla tomba di Rosalia Mihaly, ultimo anello della catena. Così scriveva Ende Adry, e identica era la sua vita. La sifilide lo tenne in ostaggio tutta la vita. E l’ alcool accompagnò la sua autodistruzione. Quel bacio avvelenato divenne l’ immagine primaria della sua poesia, e insieme il diaframma che lo costrinse al di qua della vita che avrebbe voluto. Era un giornalista di successo e un poeta quasi sconosciuto, quando gli fu diagnosticata da un medico parigino. Era lì, nella ville lumiere dei poeti simbolisti – dove scopre le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fratelli d’ arte e di insanità – insieme alla donna che amò perdutamente. Adel Brul, divenuta poi Leda nei canti che le dedicò, era la moglie di un eccentrico e ricco uomo d’ affari, Odon Diosy. “Aveva i capelli tinti di azzurro cupo, le scarpe, le calze dello stesso azzurro; si metteva del rossetto non soltanto sulle guance e sulle labbra, ma ne tingeva anche, rendendole simili all’ interno di una conchiglia, le narici dal disegno inconsueto sul naso imponente”. La descrive così Paolo Santarcangeli nella prefazione alla raccolta di poesie pubblicate da Lerici editore. Una femme fatale, una donna alta provocante sensuale e colta. Lei lo trasformò da giornalista di talento a poeta grandissimo, tra i più importanti della cultura austro-ungarica. Profeta di un mondo prossimo alla dissoluzione, cantore di passione e desiderio, sensuale e potentissimo. “Credo di essere la coscienza dell’ odierna magiarità colta” scriveva Endre Andy di sè dopo la pubblicazione della raccolta di poesie che lo consacrò al successo e lo travolse insieme di critiche e riprovazione (Új ver sek, Poesie nuove), – “ma questa coscienza non può essere sempre pulita”. Rimane a Parigi per un anno, con Leda e il marito, poi torna in Ungheria. Ma nel 1906 ripartono insieme e viene per la prima volta in Italia. Per una crociera che parte da Trieste e arriva fino in Sicilia. Sarà di nuovo a Roma nel 1911 ma il suo amore con Leda, sempre tormentato e funestato dal male e dalla sua vita disperata, sta per finire. L’ anno successivo lei lo lascia per un altro uomo, e lui, su consiglio dell’ amico Sándor Ferenczi, allievo prediletto di Freud, decide di ricoverarsi in un ospedale per malattie mentali. “Siamo in piedi, rigidi e dimenticati/ sull’ orlo di un precipizio selvaggio/ l’ uno all’ altra attaccati,/ né un lamento lacrima o parola/per precipitare basta una mossa/come legami di carne e sangue/ci proteggono le nostre labbra/blu e tremanti, ci tengono attaccati/finche mi baci non abbiamo parole/ma dì un parola e cadiamo entrambi”, scrive in una sua poesia famosa che risale a quel periodo. Si consolerà sposando qualche anno dopo la giovanissima ammiratrice Beruka Bonza, la Csinszka delle sue poesie. Con lei si trasferisce in Transilvania. Nel frattempo, il 28 giugno 1914, lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide l’ arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Endre Ady scrive, si spende contro la catastrofe del conflitto in agguato, ma invano. Un mese dopo l’ austria-ungheria dichiara guerra alla Serbia, dando inizio alla prima guerra mondiale. La sconfitta militare, avrà come conseguenza la fine dell’ Impero. Nel 1918, in seguito al Trattato Versailles, nascono Austriae Ungheria come stati autonomi,e insieme la Cecoslovacchia e un nuovo assetto dei Balcani che diventarà la Yugoslavia. I nuovi confini costringono un quarto della entia magiara a vivere fuori dalla nuova nazione ungherese. La Transilvania diventa rumena, e anche il paese natìo di Endre Ady, Érmindszent, che alla morte del poeta verrà a lui intitolato. Nella nuova repubblica, il poeta viene eletto presidente della Accademia Vorosmarty, la più importante istituzione culturale del paese. Ma le sue condizioni di salute non gli permisero neanche di tenere il discorso di insediamento. Muore il 27 gennaio 1919 e i suoi funerali furono seguiti da una folla enorme che lo acclamava come il poeta simbolo della nuova nazione. Lui lasciò scritto soltanto che voleva essere dimenticato, come una domanda senza risposta. Io sono parente della Morte,/ Amo l’ amore che svanisce,/ Amo baciare,/ Chi se ne va… Amo la stanca rinuncia, / Il pianto senza lacrime e la pace, /Di saggi, poeti, malati/ Il rifugio/Amo chi è deluso,/ Chi è invalido, chi si è fermato,/ Chi non crede, chi è malinconico:/ Il mondo.

ELENA STANCANELLI

cantò l’amore, Dio, la malattia, la morte e la tragica sorte della sua nazione in un originale e soggettivo linguaggio simbolista che dà alle sue opere una mistica tendenza e una ieratica elevatezza di tono.

http://www.treccani.it/enciclopedia/endre-ady/

Mio padre dalla mattina alla sera
suda, va e viene, lavora;
non c’è un uomo migliore di mio padre,
non c’è, non c’è in nessun posto

Porta una giacca logora mio padre,
ma a me compra un vestito nuovo,
e mi parla di un bel futuro,
amorosamente.

Dei ricchi è prigioniero mio padre,
e lo maltrattano, lo umiliano, poveretto,
ma la sera ci porta lo stesso
una buona speranza.

Mio padre è un combattente, un grand’uomo,
per noi vende orgoglio e forza,
ma non umilia mai se stesso
davanti al denaro.

Se mio padre non volesse
non esisterebbero i ricchi,
così ogni mio piccolo compagno sarebbe
come sono io.

Se mio padre dicesse una sola parola,
ah, molti tremerebbero,
e molti non vivrebbero così allegramente
e felicemente.

Mio padre lavora e lotta,
non c’è nessuno più forte di lui, forse;
è più potente anche del re
mio padre.

Questa poesia proviene da: Poesia di Endre Ady – Il ragazzo proletario – Poesie di Endre Ady –

Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.

Belva di spente età, mi bracca l’orrore,
sono arrivato da te
attraverso rovine di mondi,
e attendo, insieme a te, atterrito.

Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.

Non so perché né sino a quando
rimarrò qui con te:
ma stringo la tua mano
e proteggo i tuoi occhi.

Mi piacerebbe essere amato




Questa voce è stata pubblicata in cultura, musica e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.