Morale e diritto. Libertà e necessità : Anti-Dühring + altro..

XI. Morale e diritto. Libertà e necessità

“Nel campo giuridico e politico i principi esposti in questo corso hanno a loro fondamento gli studi specialistici più profondi. Si dovrà perciò (…) partire dal fatto che qui (…) si è tentato di esporre in modo conseguente i risultati raggiunti nel campo del diritto e della scienza politica. In origine il mio studio specialistico fu proprio la giurisprudenza, e vi ho dedicato non soltanto i soliti tre anni di preparazione universitaria, ma, durante altri tre anni di pratica legale, anche uno studio continuo indirizzato principalmente all’approfondimento del loro contenuto scientifico (…) E sicuramente la critica dei rapporti di diritto privato e delle relative deficienze giuridiche non avrebbe potuto procedere con altrettanta sicurezza se non fosse stata conscia di conoscere dappertutto sia i lati deboli che quelli più forti di questa materia speciale.”

Un uomo che ha motivo di parlare così di se stesso, sin dal principio deve ben ispirare fiducia, particolarmente di fronte “agli studi giuridici che il sig. Marx ha fatto nel passato, e per sua confessione, con trascuratezza”. Perciò c’è da meravigliarsi che la critica dei rapporti di diritto privato, la quale si presenta con tale sicurezza, si limiti a raccontarci che “il carattere scientifico della giurisprudenza (…) non è gran cosa”, che il diritto civile positivo è ingiustizia perché sanziona la proprietà fondata sulla violenza, e che “la base naturale” del diritto penale è la vendetta: affermazione nella quale l’unica cosa nuova è, se mai, il travestimento mistico in “base naturale”. I risultati della scienza politica si limitano alle relazioni fra i noti tre uomini, l’uno dei quali sinora ha fatto violenza agli altri; e qui Dühring indaga con tutta serietà se è stato il secondo o il terzo quello che per primo ha introdotto la violenza e la servitù.

Seguiamo pertanto ancora un po’ gli studi specialistici più profondi e la serietà scientifica, approfonditasi mediante una pratica legale triennale, dal nostro giurista così sicuro di sé.

Di Lassalle Dühring ci racconta che “a causa della provocazione al tentativo di furto di una cassetta”, fu messo in stato d’accusa, “senza che tuttavia si potesse registrare una condanna giudiziaria, essendo intervenuta la cosiddetta assoluzione dall’accusa, che allora era ancora possibile (…) questa semiassoluzione”.

Il processo di Lassalle, del quale qui si parla, fu celebrato nell’estate 1848 dinanzi alle Assise di Colonia, dove, come quasi in tutta la provincia renana, era in vigore il diritto penale francese. Solo per reati e crimini politici era stato introdotto in via eccezionale il Landrecht [50] prussiano, ma già nell’aprile del 1848 questo provvedimento eccezionale fu abrogato dal Camphausen. Il diritto francese non conosce affatto la categoria vaga, propria del Landrecht prussiano, di “provocazione” a un crimine, e tanto meno di provocazione al tentativo di un delitto. Esso conosce solo istigazione al crimine, e questa, per essere punibile, deve avere luogo “mediante doni, promesse, minacce, abuso di autorità o di potere, macchinazioni astute o artifici criminosi” (Code pénal [51] art. 60). Il pubblico ministero, sprofondando nel Landrecht prussiano, perdette di vista, precisamente come Dühring, la differenza essenziale tra le norme nettamente determinate del diritto francese e l’evanescente indeterminatezza del Landrecht, intentò a Lassalle un processo tendenzioso e fece clamorosamente fiasco. Infatti l’affermazione che il processo penale francese conosca l’assoluzione dall’accusa secondo il Landrecht prussiano, questa semiassoluzione, può arrischiarla solo chi nel campo del diritto francese moderno sia un perfetto ignorante; questo diritto conosce, nel processo penale, solo condanna e assoluzione e nessun termine intermedio.

Ci troviamo perciò nel caso di dover dire che Dühring non avrebbe certo potuto applicare con pari sicurezza a Lassalle questa sua “maniera di delineare la storia in grande stile”, se mai avesse avuto tra le mani il Code Napoléon [52]. Dobbiamo quindi constatare che è completamente ignoto, a Dühring, l’unico codice borghese moderno che poggia sulle conquiste sociali della grande Rivoluzione francese e le traduce in norme giuridiche: il diritto francese moderno.

Altrove, nella critica alle Corti d’assise che decidono a maggioranza di voti, introdotte in tutto il continente secondo il modello francese, ci si insegna:

“Si, ci si potrà familiarizzare perfino con l’idea, che del resto non è affatto priva di esempi storici, che in una comunità perfetta una condanna con voti contrastanti sarebbe un’istituzione impossibile (…) Tuttavia questo modo di concepire serio e profondamente spirituale, come è già stato accennato sopra, non può non apparire inadatto alle forme tradizionali, per il fatto che è eccessivamente buono per esse”.

Ancora una volta Dühring ignora che l’unanimità dei giurati non solamente per le condanne penali, ma anche per i giudizi in processi civili è assolutamente necessaria per il diritto comune inglese, cioè il diritto consuetudinario non scritto in vigore da tempo immemorabile, ossia almeno dal quattordicesimo secolo. Il modo di concepire serio e profondamente spirituale che, secondo Dühring, è eccessivamente buono per il mondo odierno, ha avuto validità di legge in Inghilterra già nel più passato medioevo, e dall’Inghilterra è stato trasportato in Irlanda, negli Stati Uniti d’America e in tutte le colonie inglesi, senza che gli studi specialistici più profondi ne abbiano fatto trapelare a Dühring una sola parola! Il campo in cui vige l’unanimità dei giurati non solo è quindi infinitamente grande in confronto al ristretto ambito del Landrecht prussiano, ma è anche più esteso di tutti i campi, presi insieme, nei quali la maggioranza dei giurati è decisiva. Dühring non solo ignora totalmente l’unico diritto moderno, il diritto francese, ma è anche parimente ignorante in quel che concerne l’unico diritto germanico che ha continuato a svilupparsi sino all’epoca presente indipendentemente dall’autorità del diritto romano e che si è esteso a tutti i continenti: il diritto inglese. E perché no? Infatti la forma inglese del pensiero giuridico “non potrebbe tener testa agli studi, eseguiti su suolo tedesco, sui puri concetti dei giuristi classici romani”, dice Dühring, e più tardi egli dice ancora: “Che cos’è il mondo che parla inglese, con la sua ibrida lingua di fanciulli di fronte alla vigorosa forza espressiva della nostra lingua?”. Al che possiamo soltanto rispondere con Spinoza: Ingorantia non est argumentum, l’ignoranza non è un argomento [53].

Non possiamo quindi che arrivare a questo risultato conclusivo: gli studi specialistici più profondi di Dühring sono consistiti nel fatto che egli si è per tre anni sprofondato nello studio teorico del Corpus juris [54] e per altri tre anni nello studio pratico del nobile Landrecht prussiano. Questa certamente è già cosa molto meritoria, e sufficiente per un rispettabilissimo giudice distrettuale o per un avvocato della vecchia Prussia. Ma se ci si accinge a costruire una filosofia del diritto valida per tutti i mondi e per tutti i tempi, si dovrebbe pure, in qualche modo, essere anche al corrente dei rapporti giuridici vigenti in nazioni quali la francese, l’inglese, l’americana, nazioni che nella storia rappresentano ben altra parte che non l’angolo della Germania in cui è in fiore il Landrecht prussiano. Ma leggiamo oltre.

“Il miscuglio variopinto di diritti locali, provinciali e regionali che si incrociano nelle direzioni più diverse in maniera molto arbitraria, ora come diritto consuetudinario, ora come legge scritta, spesso dando la veste di prima forma statutaria alle materie più importanti: questo campionario di disordine e di contraddizione in cui i casi singoli infirmano i principi generali e in cui, a loro volta, i principi generali occasionalmente infirmano i fatti particolari, in verità non è fatto per (…) rendere possibile (…) a chiunque una chiara coscienza giuridica”.

Ma dove regna questo stato di confusione? ancora una volta dove regna il Landrecht prussiano, in cui, accanto, sopra e sotto questo diritto regionale, hanno i più diversi gradi relativi di validità diritti provinciali, statuti locali, e qua e là anche diritto comune e altra robaccia e provocano in tutti i giuristi pratici quel grido d’allarme che Dühring ripete qui con tanta grazia. Egli non ha bisogno di abbandonare la sua diletta Prussia, basta che venga sulle rive del Reno per convincersi che quaggiù da settant’anni non si parla più di tutto questo; per non dir nulla degli altri paesi civili dove queste siffatte condizioni invecchiate sono già state abolite da lungo tempo.

Inoltre:

“L’occultamento della responsabilità naturale individuale si manifesta in una maniera meno cruda nei giudizi collettivi segreti e perciò anonimi e nelle azioni collettive di collegi o di altre istituzioni ufficiali che mascherano la parte personale di ciascun membro”.

E in un altro passo:

“Nell’odierno stato di cose sarebbe un’esigenza sorprendente e straordinariamente rigorosa il non voler sentire parlare di nascondere e di coprire collegialmente la responsabilità del singolo”.

Probabilmente sarà per Dühring una comunicazione sorprendente se gli diciamo che nell’ambito del diritto inglese ogni membro del collegio giudicante deve emettere e motivare singolarmente il suo giudizio in seduta pubblica e che i collegi amministrativi, non eletti e che trattano e giudicano non pubblicamente, sono un’istituzione squisitamente prussiana e sconosciuta nella massima parte degli altri paesi, e che perciò la sua esigenza può essere sorprendente e straordinariamente rigorosa solamente e semplicemente… in Prussia.

Del pari le sue querimonie sull’ingerenza coattiva delle pratiche religiose nelle nascite, nei matrimoni, nelle morti e nei seppellimenti toccano, tra i maggiori paesi civili, solo la Prussia, e da quando sono stati introdotti i registri di stato civile, neanche più questa [55]. Ciò che Dühring realizza solo per mezzo di uno stato di cose “socialitario” dell’avvenire, perfino Bismarck, nel frattempo, lo ha sbrigato con una semplice legge. Non diversamente, nella “querimonia per la deficiente preparazione dei giuristi alla loro professione”, intona una geremiade tipicamente prussiana; e anche l’odio per gli ebrei spinto sino al ridicolo, di cui Dühring fa mostra ad ogni occasione, è una qualità se non tipicamente prussiana, tuttavia tipica di tutti i paesi ad oriente dell’Elba. Quello stesso filosofo della realtà che ha un sovrano disprezzo per tutti i pregiudizi e le superstizioni, è così ingolfato in ubbie personali da chiamare “giudizio naturale” poggiante su “basi naturali”, il pregiudizio popolare contro gli ebrei, ereditato dalla bigotteria medievale, e da spingersi a questa fantastica asserzione: “il socialismo è l’unica forza che possa tener fronte a situazioni demografiche accompagnate da una commissione ebraica piuttosto rilevante” (situazioni accompagnate da commissione ebraica! Che linguaggio tedesco naturale!).

Ce n’è abbastanza. Questo gran millantare la propria erudizione giuridica, nel migliore dei casi, ha come sfondo le più comuni conoscenze specialistiche di un comunissimo giurista della vecchia Prussia. Il campo delle scienze giuridiche e politiche, i cui risultati Dühring ci espone con logiche conseguenze, “coincide” con l’ambito in cui vige il Landrecht prussiano. A prescindere dal diritto romano, oggi più o meno familiare ad ogni giurista anche in Inghilterra, le sue conoscenze giuridiche si limitano solamente e unicamente al Landrecht prussiano, quel codice del dispotismo patriarcale illuminato, che è scritto in un tedesco tale da far pensare che Dühring sia andato a scuola lì e che le sue grosse morali, con la sua imprecisione e con la sua incoerenza giuridica, e con i suoi colpi di bastone come mezzo di tortura e di pena, appartiene ancora, nel modo più completo, all’epoca prerivoluzionaria. Tutto ciò che c’è in più per Dühring viene dal maligno: tanto il moderno diritto borghese francese, quanto il diritto inglese, con il suo sviluppo particolarissimo e le sue guarentigie della libertà personale sconosciute in tutto il continente. La filosofia che “non ammette orizzonti meramente apparenti, ma che invece, col suo moto possentemente rivoluzionario, avvolge tutte le terre e i cieli della natura esterna ed interna”, ha come suo orizzonte reale i confini delle sei vecchie province orientali della Prussia [56] e tutt’al più i pochi altri brandelli di terra dove vige il nobile Landrecht; e al di là di questo orizzonte non avvolge né cielo né terra, né natura esterna né natura interna, ma solo il quadro della più crassa ignoranza di quello che succede nel resto del mondo.

Non si può parlare bene di morale e di diritto senza affrontare la questione del cosiddetto libero arbitrio, della responsabilità dell’uomo, del rapporto di libertà e necessità. Anche la filosofia della realtà ha per questa questione, non solo una, ma perfino due soluzioni.

“Al posto di tutte le false teorie sulla libertà bisogna porre la natura del rapporto sperimentale nel quale la coscienza razionale, da una parte, e le determinazioni istintive, dall’altra, si unificano, per così dire, in una forza intermedia. I fatti basilari di questa specie di dinamica devono trarsi dall’osservazione, e per dare in anticipo anche la misura di ciò che ancora non è accaduto, per quanto è possibile, devono valutarsi, in generale, secondo la loro specie e la loro grandezza. Perciò le sciocche fantasie sulla libertà interiore di cui si sono cibati dei millenni, non solo vengono radicalmente eliminate, ma vengono anche sostituite da qualche cosa di positivo, che può essere utilizzato per la organizzazione pratica della vita”.

Conseguentemente la libertà consiste nel fatto che l’uomo è trascinato a destra dalla conoscenza razionale, a sinistra dagli istinti irrazionali, e in questo parallelogramma delle forze il movimento reale avviene nella direzione della diagonale. La libertà sarebbe quindi la media tra conoscenza e istinto, intelletto e mancanza di intelletto, e io, suo grado di ogni singolo individuo dovrebbe essere stabilito sperimentalmente e, per usare un’espressione astronomica [57], mediante una “equazione personale”. Ma poche pagine dopo si dice:

“Noi fondiamo la responsabilità morale sulla libertà, la quale tuttavia non significa altro per noi che l’essere accessibili a motivi coscienti, nella misura dell’intelletto che abbiamo per natura o acquisito. Tutti questi siffatti motivi, malgrado si percepisca la possibilità del contrario, agiscono nelle azioni con ineluttabile necessità naturale; ma noi contiamo precisamente su questa costrizione inevitabile, allorché facciamo intervenire le leve morali”.

Questa seconda determinazione della società che fa completamente a pugni con la prima non è altro, a sua volta, che uno straordinario appiattimento della concezione hegeliana. Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. “Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa.” [58] La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un passo verso la libertà. Alla soglia della storia dell’umanità sta la scoperta della trasformazione del movimento meccanico in calore, la produzione del fuoco per sfregamento; la conclusione dello sviluppo che si è avuto sinora sta la scoperta della trasformazione del calore in movimento meccanico: la macchina a vapore. E malgrado la gigantesca rivoluzione liberatrice, non ancora compiuta per metà, che la macchina a vapore opera nel mondo sociale, è tuttavia fuori dubbio che la produzione del fuoco per sfregamento ha avuto sul mondo un’azione liberatrice superiore a quella della macchina a vapore. Infatti la produzione del fuoco per sfregamento diede all’uomo per la prima volta il dominio di una forza naturale e con ciò lo separò definitivamente dal regno degli animali. La macchina a vapore non farà mai fare allo sviluppo dell’umanità un salto così imponente, per quanto essa possa anche essere per noi rappresentativa di tutte quelle poderose forze produttive che si appoggiano ad essa e solo con l’aiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci siano più differenze di classi, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza degli individui, e in cui per la prima volta possa parlarsi di vera libertà umana, di un’esistenza in armonia con le leggi naturali conosciute. Ma quanto sia ancora giovane la storia dell’uomo e quanto sarebbe ridicolo il voler attribuire alle nostre vedute odierne una qualche validità assoluta, appare dal semplice fatto che tutta la storia passata si può caratterizzare come storia dell’intervallo di tempo che passa dalla scoperta pratica della trasformazione del movimento meccanico in calore e quella del calore in movimento meccanico.

In Dühring la storia è trattata in verità in altra maniera. In generale essa, come storia degli errori, dell’ignoranza e della rozzezza, della violenza e dell’asservimento, è un oggetto che disgusta la filosofia della realtà; tuttavia in particolare essa si divide in due grandi sezioni, ossia: 1) dalla situazione in cui la materia è sempre eguale a se stessa, sino alla Rivoluzione francese e 2) dalla Rivoluzione francese sino a Dühring; e così il XIX secolo resta “ancora essenzialmente reazionario, anzi, per quanto riguarda lo spirito, esso lo è (!) ancor di più del secolo XVIII”, ma, tuttavia, reca nel suo seno il socialismo e di conseguenza “il germe di un rivolgimento più possente di quello che fu sognato (!) dai precursori e dagli eroi della Rivoluzione francese”. Il disprezzo della filosofia della realtà per la storia precedente si giustifica nella seguente maniera:

“I pochi millenni per i quali i documenti originali rendono possibile una reminiscenza storica, non possono significare gran che, con lo sviluppo che essi hanno dato all’umanità sino ai nostri giorni, se si pensa alla serie dei millenni futuri (…) Il genere umano, preso come un tutto, è ancora molto giovane, e se un giorno l’anamnesi storica scientifica dovrà contare gli anni a decine di migliaia, anziché a migliaia, l’infanzia spiritualmente immatura delle nostre istituzioni avrà irrefutabile valore di premessa evidente sulla nostra epoca, che sarà allora considerata come antichità primeva”.

Senza fermarci più a lungo sulla “forma linguistica” veramente “originale” di quest’ultima proposizione, notiamo solo due cose: in primo luogo che questa “antichità primeva” in ogni caso resterà un periodo storico del più alto interesse per tutte le generazioni future, poiché costituisce il fondamento di ogni più alto sviluppo ulteriore, perché ha come suo punto di partenza lo svincolarsi dell’uomo dal regno degli animali e come suo contenuto il superamento di difficoltà quali mai più si opporranno agli uomini associati dell’avvenire. E in secondo luogo che la fine di quest’antichità premeva, di fronte alla quale i futuri periodi storici, che, non più inceppati da queste difficoltà e da questi ostacoli, promettono ben altri successi scientifici, tecnici e sociali, è in ogni caso un momento scelto in un modo assai singolare per dare delle prescrizioni ai millenni futuri, per mezzo di verità definitive di ultima istanza, verità immutabili e concezioni che vanno alle radici delle cose, scoperte sulla base dell’infanzia spiritualmente immatura del nostro secolo tanto “arretrato” e tanto “retrogrado”. Bisogna essere proprio il Richard Wagner della filosofia, seppure senza l’ingegno di Wagner, per non accorgersi che tutte le parole di disprezzo lanciate sullo sviluppo storico che si è avuto sinora restano parimente appiccicate a quel che si pretende ultimo risultato dello sviluppo storico: alla cosiddetta filosofia della realtà.

Uno dei brani più significativi della nuova scienza che va alle radici delle cose è la sezione sulla individualizzazione e la valorizzazione della vita. Qui zampilla e fluisce qual getto sorgivo e incontenibile, per tre interi capitoli, il luogo comune in tono oracolare. Disgraziatamente noi dobbiamo limitarci a pochi e brevi saggi.

“L’essenza più profonda di ogni sensazione e di conseguenza di tutte le forme soggettive della vita poggia sulla differenza di stati (…) Ma per la vita nella sua pienezza (!) si può provare anche senz’altro (!) che si incrementa il sentimento vitale e si eccitano gli stimoli decisivi, non già attraverso il permanere in una posizione, ma attraverso il passare da una situazione all’altra della vita (…) Lo stato che resta approssimativamente uguale a se stesso, per così dire in una permanenza inerte e, diciamo, in una stessa posizione di equilibrio stabile, qualunque ne sia la natura, non può significare gran che per provare l’esistenza (…) L’abituarsi e, per così dire, il vivere in questo stato, lo trasforma completamente in qualche cosa di indifferente ed irrilevante che non si distingue particolarmente dallo stato di morte. Tutt’al più vi si aggiunge ancora un’altra specie di moto vitale negativo, il supplizio della noia (…) In una vita stagnante si spegne per i popoli ogni passione e ogni interesse per l’esistenza. Ma con la nostra legge della differenza tutti questi fenomeni divengono spiegabili.

È incredibile la celerità con cui Dühring stabilisce i suoi risultati originali sin dalle fondamenta. Ecco appena tradotto nel linguaggio della filosofia della realtà il luogo comune che l’eccitazione continua di uno stesso nervo o il perdurare dello stesso stimolo affatica ogni nervo ed ogni sistema nervoso, che quindi nello stato di normalità devono aver luogo interruzioni e cambiamenti degli stimoli nervosi: cosa che da anni si può leggere in ogni manuale di fisiologia e che ogni filisteo sa per esperienza. Questa vecchissima banalità è stata appena tradotta nella formula misteriosa che l’essenza più profonda di ogni sensazione poggia sulla differenza di stati, ed ecco che si trasforma di già nella “nostra legge della differenza”. E questa legge della differenza rende “completamente spiegabile” tutta una serie di fenomeni, che a loro volta sono soltanto illustrazioni ed esempi della piacevolezza della variazione, i quali anche per l’intelletto del più comune dei filistei non abbisognano di spiegazione alcuna, e che col richiamo a questa pretesa legge della differenza non guadagnano in chiarezza neppure una briciola.

Ma con tutto ciò, la capacità di andare alle radici propria della “nostra legge della differenza”, è ancora lontana dall’essere esaurita:

“La successione delle età della vita e l’apparire dei cambiamenti di queste condizioni di vita che ad esse si ricollegano offre un esempio molto calzante per rendere evidente il nostro principio della differenza (…) Bambino, ragazzo, adolescente e uomo maturo esperimentano il vigore del senso vitale di ciascuno di questi periodi della loro vita, non tanto per mezzo di quegli stati ormai fissati in cui di volta in volta si trovano, quanto per mezzo delle epoche di passaggio dall’uno di questi stati all’altro”.

E non è ancora abbastanza:

“La nostra legge della differenza può avere un’applicazione ancora più lontana se prendiamo in considerazione il fatto che la ripetizione di ciò che è stato già provato o compiuto non presenta nessuna attrattiva”.

Ed ora il lettore stesso può immaginare le sciocchezze in stile da oracolo alle quali danno appiglio proposizioni che hanno una profondità e una capacità di andare alle radici pari a quelle riportate sopra. E Dühring può bene esclamare trionfante nella chiusa del suo libro: “La legge della differenza è diventata, praticamente e teoricamente ad un tempo, decisiva per la stima e l’incremento del valore della vita!”. E del pari per la stima che Dühring fa del valore spirituale del suo pubblico: costui deve credere che questo pubblico sia composto di puri somari o filistei.

Più oltre ci vengono somministrate queste norme di vita straordinariamente pratiche:

“I mezzi per tener desto tutto quanto l’interesse per la vita” (un bel compito per i filistei e per quelli che vogliono diventarlo!) “consistono nel far sì che gli interessi singoli, e per così dire elementari, di cui è composto l’interesse nella sua totalità, si sviluppino o si succedano a vicenda secondo gli intervalli di tempo naturali. Ma nello stesso tempo, perché si produca il medesimo stato, bisogna utilizzare anche la successione graduale, in cui gli stimoli più bassi e più facili a soddisfarsi possano venir sostituiti da eccitazioni più elevate e costantemente attive: e ciò al fine che sia impedito il formarsi di vuoti totalmente privi d’interesse. Ma del resto l’importante sarà scongiurare che le tensioni che insorgono naturalmente o in altra guisa nel corso normale dell’esistenza sociale siano arbitrariamente accumulate, forzate, ovvero, ciò che è l’assurdità contraria, vengano soddisfatte sin dal loro più lieve moto, in modo da impedire che con il loro sviluppo esse diventino un bisogno suscettibile di godimento. L’osservanza del ritmo naturale è qui, come altrove, la condizione preliminare del movimento regolare e attraente. Né ci si dovrà porre il problema insolubile di prolungare gli stimoli di una situazione qualsiasi al di là dei limiti imposti loro dalla natura o dalle circostanze, ecc.”.

quel galantuomo che vorrà prendere come norma della “esperienza della vita” queste solenni sentenze oracolari da filisteo, di una pedanteria che sottilizza sulle più insulse banalità, non avrà certo da lamentarsi di “vuoti totalmente privi di interesse”. Egli avrà bisogno di tutto il suo tempo per preparare e ordinare in perfetta regola i suoi godimenti, cosicché per godere non gli resterà libero neppure un istante.

Noi dobbiamo far esperienza della vita, di tutta la vita. Solo due cose Dühring ci proibisce: in primo luogo “la porcheria dell’uso del tabacco”, e in secondo luogo i cibi che “hanno proprietà disgustosamente eccitanti o in generale ripugnanti per una sensibilità un po’ raffinata”. Ma poiché Dühring nel suo Corso di economia celebra così ditirambicamente la distillazione dell’acquavite, non potrà comprendere tra queste bevande la grappa; siamo perciò costretti a concludere che la sua proibizione si estende semplicemente al vino e alla birra. Non avrà allora che da abolire anche la carne ed avrà così portato la filosofia della realtà allo stesso livello su cui si muoveva con tanto successo il fu Gustav Struve: al livello della puerilità pura e semplice.

Del resto Dühring potrebbe essere un po’ più liberale per quel che concerne le bevande spiritose. Un uomo che, per sua stessa confessione, ancora non può trovare il ponte di passaggio dallo statico al dinamico, ha tutte le ragioni di essere indulgente nel suo giudizio, se un povero diavolo qualche volta alza un po’ il gomito e di conseguenza anche lui cerca invano il ponte di passaggio dal dinamico allo statico.

Anti-Dühring : Friedrich Engels (1878)

http://www.marxistsfr.org/italiano/marx-engels/1878/antiduhring/1-3.htm#p3

Frederick Engels : Dialectics of Nature, Anti-Dühring ecc …

XIII. Dialettica. Negazione della negazione ..

Il problema della natura nel materialismo dialettico

X. Morale e diritto. Eguaglianza : Anti-Dühring Friedrich .

comunicazione spiacevole al lettore by Engels Friedrich …

Anti-Dühring Friedrich Engels (1878) | controappuntoblog.org

perchè siamo eredi dell’ illuminismo materialista : Engels

Anti-Dühring Terza Sezione: Socialismo : Engels .

“Gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere cosa fosse la dialettica”

Critique of Hegel’s Philosophy of Right e Ideologia tedesca …

Tutto il resto passa nella scienza positiva della natura e .

Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della …

indagare le forze motrici che muovono gli uomini ad agire sulla scena della storia

http://www.controappuntoblog.org/2013/04/21/indagare-le-forze-motrici-che-muovono-gli-uomini-ad-agire-sulla-scena-della-storia/

Sulla produzione della coscienza

http://www.controappuntoblog.org/2012/10/21/sulla-produzione-della-coscienza/

Critique of the Gotha Programme : Karl Marx 1875

http://www.controappuntoblog.org/2012/05/04/critique-of-the-gotha-programme-karl-marx-1875/

Antonio Labriola : Del materialismo storico – Historical materialism

http://www.controappuntoblog.org/2013

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