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Quaderno del nulla – Liber Liber

L’incompiuto canto di Dina Ferri

Firenze, 17 settembre 2013 –  Chi conosce, al di fuori dei confini senesi e al di fuori della cerchia dei letterati specialisti, Dina Ferri? Una «poetessa pastorella» nata nel 1908 ad Anqua di Radicondoli, nella campagna di Siena, da una famiglia di contadini, prematuramente scomparsa a poco più di vent’anni, che fu per un momento, fugacemente, perfino un caso letterario nazionale. Un naturale talento, una ragazza abitata dalla poesia,  depositaria obbediente di un «canto» rimasto «incompiuto», ma anche così, solo incipiente e presto interrotto, suggestivamente affascinante e destinato a commuovere: a toccare l’anima, ad incidere e a lasciare traccia.

Di lei si interessò a suo tempo, pure a livello concretamente biografico di solidale assistenza e indirizzo culturale, soprattutto il marchese Piero Misciattelli, l’autore dei Mistici senesi, il curatore di edizioni cateriniane, l’amico estimatore del grande Federigo Tozzi. Grazie a lui, con una sua introduzione, uscì nel 1931 una silloge degli scritti della Ferri: testi in versi e in prosa, «frammenti – così erano definiti – dal diario lirico di una pastorella senese», dal titolo bellissimo, evocativo, davvero degno di una seguace «casta» e «vigorosa» di Santa Caterina e dei trecentisti, Quaderno del nulla.

Sì, Pascoli, i pascoliani, le inevitabili reminiscenze delle letture effettuate sui banchi di scuola ravvisabili nelle sue quartine e nell’immaginario stesso, tra referenti realistici e fantasia, alla base delle sue prose liricamente tramate… Ma Dina era una vera voce della poesia, meritevole ancor oggi di essere ascoltata, e bene hanno fatto Luigi Oliveto e i bravissimi Antonio Bartoli e Silvia Folchi delle senesi «Videodocumentazioni» a realizzare qualche anno fa – con il contributo della provincia e dei comuni di Radicondoli e Chiusdino – questo Incompiuto canto che oggi con piacere torniamo a proporre come una perla rara ai lettori.

A Luigi Oliveto, è giusto ricordarlo, si deve anche un’edizione moderna del Quaderno del nulla (dopo quella promossa da Idilio Dell’Era), pubblicata per le Edizioni Il Leccio, nel 1999. E lodi merita pure Paola Lambardi, sensibile e calibrata interprete dei testi della Ferri.

Marco Marchi

Mai più!

Chiesi un giorno alle nubi lontane
quando l’ombra finisce quaggiù;
mi rispose vicino una voce,
una voce che disse: – Mai più!

A le stelle del cielo turchino,
a la notte vestita di nero,
io richiedo con timida voce,
come allora, lo stesso mistero.

Io richiedo ne l’ombra la via
e risogno la luce che fu.
Ma risento la solita voce;
quella voce che dice: – Mai più!

Vorrei

Vorrei fuggire nella notte nera,
vorrei fuggire per ignota via,
per ascoltare il vento e la bufera,
per ricantare la canzone mia.

Vorrei mirare nella cupa volta
fise le stelle nella notte scura;
vorrei tremare ancor come una volta,
tremar vorrei, di freddo e di paura.

Vorrei passar l’incognito sentiero,
fuggir per valli, riposarmi a sera,
mentre ritorni, o giovinetto fiero,
chiamando i greggi, e piange la bufera.

Siena, 2 marzo 1929

C’era tanta luce e tanto sole nel cielo, e davanti a me l’orizzonte si apriva sempre più vasto. Camminavo, camminavo fin dal mattino. La via era sassosa, erta, tortuosa. Si scendeva traverso i boschi nei torrenti disseccati, si risaliva lentamente tra le siepi. Si udiva il volo di qualche uccello spaventato che fuggiva. Talvolta un trillo feriva l’aria, poi taceva quasi sùbito.
Era bello quel giorno, e nella serenità dell’aria fredda di marzo, camminavo con un desiderio nuovo. Forse ero stanca, ma non lo sentivo. E l’orizzonte ingrandiva sempre, e lontano si vedevano grandi monti azzurrognoli. Si udiva il campano di un gregge, un belato, un richiamo, poi silenzio. Incontro un viandante, si scambiava un saluto, guardavo un istante senza voglia di camminare. Dall’alto di un colle si scorgevano in un campo, dietro un torrente pieno di ciottoli, due buoi aggiogati all’aratro, un bifolco, una striscia scura di terra. Poi di nuovo la solitudine e il silenzio.
I miei compagni di viaggio tacevano. Pareva che ognuno avesse un pensiero, un ricordo. Forse io sola non pensavo a ciò che restava dietro di me. Guardavo gli orizzonti, i monti, il cielo. Mi piaceva camminare così. Vedevo cose nuove, ma non chiedevo nulla. Mi bastava vedere. Sentivo, sommesso, un coro immenso di voci cantare al cielo e al sole, e volevo rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.
Il giorno passò; il sole si spense nei vapori del tramonto. Allora si vide, ancora lontano, un rustico villaggio dimenticato su una via bianca, lunga, polverosa. Guardai lontano e lo sguardo si perdè nella via; ma io non ebbi più voglia di proseguire; mi volsi indietro e piansiFu così che in un tramonto di marzo, traverso vie mai percorse, vidi profilarsi Ciciano in un lontano incendio. Era un piccolo villaggio di cui il viandante non serba forse che un vago ricordo, che si cancella prima ch’egli torni nella patria abbandonata; ma nella mia mente di bimba ha lasciato una di quelle impressioni che il tempo non riesce a cancellare. Le sue case erano rustiche, piccole, modeste, coi muri di pietra rossa, coi tetti rossi, battuti dalle piogge, e nel villaggio c’era una piccola piazza traversata dalla strada bianca. Le altre vie erano strette, deserte, chiuse tra le case grigie, addossate le une alle altre. Ogni sera fumavano i comignoli scuri, come un invito di ritorno e una promessa di riposo. Ogni sera belavano le capre nelle strette viuzze ricondotte dai fanciulli e tornavano dai campi gli abitanti con fasci d’erba sulle spalle, o con canestri di giunco colmi di frutta, infilati al braccio. Al di sopra dei comignoli, tra le modeste abitazioni, si eleva un campanile. Là c’era una chiesa piccola, bianca, come ogni chiesa di campagna. Le sue campane suonavano al mattino, suonavano la sera. Talvolta, quando udivo quel canto, come nella sera lontana dell’arrivo, ripensavo alla casa abbandonata e mi commovevo. Ma Ciciano mi piaceva. Mi piacevano le case rustiche, le viuzze. La piazza, la strada grande non dicevano nulla per me.
Giravo come una piccola vagabonda tra i vicoli stretti e deserti senza nulla chiedere ai ragazzi sporchi che giocavano su le pietre. Per molto tempo andai così, con indifferenza, da un vicolo all’altro. Nulla chiedevo agli abitanti, nulla chiedevano a me. Solo, qualche volta, i ragazzi alzavano il capo per guardarmi e mi guardavano le madri lavorando su le porte spalancate.
Un giorno capitai in un vicolo remoto, più stretto degli altri, sormontato da un arco.
Presso l’arco c’era una piccola loggia e nella loggia piena di sole si apriva la porta di una singolare dimora, tanto piccola, tanto povera, tanto deserta d’intorno, che si sarebbe creduta abbandonata, se la porta non fosse ogni giorno rimasta aperta.
Dinanzi alla porta filava una vecchina. Era piccola, curva, con le mani scarne, il volto pallido, gli occhi sereni, stranamente sereni, i capelli bianchi. Vestiva un abito nero, logoro, antico; sempre lo stesso. C’era tanto sole nella piccola loggia davanti alla casa della vecchina, ma i ragazzi non vi giocavano mai, ed essa rimaneva sola, sempre sola. Non pareva dolersi della sua solitudine; pareva non avvedersene, e filava sempre. Presso la filatrice, sul davanzale di una finestra piccola e bassa, in un vecchio vaso, c’era una pianta verde di geranio, che non fioriva mai. La vecchia amava quella pianta: la innaffiava puntualmente, senza dimenticarsene, la sera e la mattina, e le strappava le foglie secche, come il tempo strappava a lei gli anni, così che non si ricordava più quante volte le rondini avevano fabbricato il nido sotto la gronda, da che essa viveva nella casina. Mi piaceva la strana vecchietta, e passavo e ripassavo per quella via. E la vecchina filava sempre, la mattina, la sera, senza annoiarsi, senza stancarsi mai. Poi mi avvicinai un giorno e mi affezionai alla povera filatrice. Allora tutti i miei giri di piccola vagabonda ebbero una mèta: la loggia della vecchina.
E lassù, nella viuzza deserta, essa mi narrava le cose e i fatti dei suoi tempi; le novelle meravigliose e le leggende del paese. Ma un giorno mi dissero che la vecchina era morta. Pensai che la sua dimora era vuota, che la loggia era deserta: non ricordai che il geranio aveva sete e impallidiva, e non vi tornai più.
Da allora Ciciano mi rimase per lungo indifferente e non mi accorsi che le sue case aumentavano, che le sue vie ingrandivano, e che perdeva quell’aspetto di rustico villaggio. È stato oggi, che ritornando dopo lunga assenza, me ne sono accorta. Io non riconosco più le sue case, come non riconosco più i suoi abitanti. I ragazzi hanno dimenticato le capre alla pastura. Questo non è più Ciciano come lo vidi e come l’amo io, rustico e semplice. Sono andata cercando qualche cosa che mi parlasse del tempo trascorso e sono ripassata dinanzi alla casa della vecchina. La casa è ingrandita e su la porta era una donna che non conobbi. Essa mi guardò, ma non sorrise come la vecchina. Solo una cosa Ciciano conserva d’immutato: il pianto delle sue campane.

Ospedale di Siena, 10 giugno 1930

Muore l’Estate come un gran giorno pieno di sole. Ingialliscono le foglie del granturco e il sole non arde più. Ritorna l’Autunno; si sente nell’aria l’alito del suo respiro. Viene l’Autunno e verrà il giorno della vendemmia. Usciranno lungo i filari le donne e i fanciulli, i vecchi e gli uomini forti. Le giovinette si cingeranno di tralci e il vino stillerà dal frutto maturo e verseranno le coppe ricolme e ovunque sarà festa.
Intanto, nell’attesa, si preparano i tini che spumeranno del dolce liquore.
Ma io amo gli ardori della canicola che imbianca le stoppie e ho paura dell’Autunno, perché dietro di esso c’è l’asprezza del rovaio. No, io non desidero l’Autunno, perché non so cantare lungo i filari, e non voglio udire il canto della vendemmia, perché la malinconia di quel canto assopirà le campagne. E poi io non potrò raccogliere, come il forte agricoltore, il frutto del dolce liquore, poiché nulla avrò seminato o saranno morte le tenere viti. E l’Autunno sarà triste per me.
Ma io non vedrò ingiallire le foglie della vite come quelle del granturco. Quando l’ultimo raggio della canicola sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato.
C’è un segreto giù nei campi e me lo disse una mattina una fanciulla che incontrai.
Esiste un fiore strano che ha nel calice un nèttare divino. Non so per quale ninfa fu creato questo fiore, ma l’uomo che una volta si disseta con quel nèttare, s’addormenta e non sa più. Anch’io accosterò le labbra al calice del fiore strano, gusterò del nèttare divino, e m’addormenterò sul fossato. E sopra di me passerà l’Autunno e piangerà la bufera. Ma io non udrò, e sognerò la canicola che imbianca le stoppie.

Dina Ferri

http://blog.quotidiano.net/marchi/2013/09/17/lincompiuto-canto-di-dina-ferri/

Dina Ferri (1908 – 1930).

Few more tender and poignantly beautiful works have been published than these fragments from the lyrical journal of the young Sienese poetess, Dina Ferri, who died 1930 at the age of twenty. Even before her death she had begun to be acclaimed in Italy, and the Nazione said of her work: “All the lyrical forms of this Sienese shepherdess have the rare gift of naturalness-the force of originality.”

Within the soul of this young woman endowed with the traditional virtues of her race every experience was transmuted into sounding and evocative poetry. The discerning critic will appreciate the power of the country girl’s style. She brings fresh pleasure to lovers of poetry in the clearness of her vision and in the pure music which wells from her inner being without the artificiality  engendered by instruction in metrical art. She has what the Tribuna calls: ”…a fresh voice which comes to rejoice the hearts of those who thirst for simple and natural beauty-poetry untrammelled by the rules and restraints of pedantry”. The Notebook is the only record extant of her work, and so it is fortunate for English readers that the translation is a delicately able one, admirably suited to bring over into our tongue the tender nuances of the original (BRUCE HUMPHRIES, INC, Bosto, USA, 1933)

Remembering.

The snow fell white and dreary,

rough was the wind of night.

She was sewing, weary,

the crackling blaze was bright.

The flame burned clear,

the mother sat near.

She mused, she sewed…

In great flakes it snowed.

Translated from English by Karl.

Teneramente ed acutamente sono stati pubblicati i bei lavori dei “frammenti dal diario lirico della giovane poetessa Senese, Dina Ferri, morta nel 1930 all’età di ventidue anni. Anche prima della sua morte lei aveva cominciato ad essere acclamata in Italia, ed il quotidiano La Nazione disse del suo lavoro: “Tutte le forme liriche di questa pastorella senese hanno il pregio raro di naturalezza e di potenza dell’originalità.” All’interno dell’anima di questa giovane, dotata dalla natura di grandi sensibilità creative, ogni esperienza fu tramutata in musica e poesia evocativa. Il critico perspicace aumenterà di valore il potere dello stile della ragazza di campagna. Lei porta un fresco piacere  agli amanti della poesia nella chiarezza della sua visione e nella musica pura che sgorga dal suo essere interno, senza l’artificiosità procreata da istruzione nell’arte della metrica. Lei ha quella che, come l’ha chiamata il quotidiano Tribuna: … una voce fresca che viene a rallegrare i cuori di coloro che hanno sete per semplice e naturale desiderio della bellezza, libera dalle regole e limitazioni della pignoleria. Il “Quaderno del nulla” è l’unico frutto esistente del suo lavoro, e questa è una grande fortuna per lettori nella lingua inglese, che la traduzione è delicatamente capace, e ammirabilmente eseguita,  per apportare nella nostra lingua le sfumature tenere dell’originale (BRUCE HUMPHRIES, Inc Boston, Stati Uniti 1933).

Ricordando.

Cadea la neve bianca,

c’era il vento roco.

Essa cuciva stanca

e crepitava il fuoco.

Di presso la fiamma

sedeva la mamma.

Cuciva, pensava…

la neve fioccava.

grazie al blog grazieallavita

Dina Ferri: un incompiuto canto


La testimonianza letteraria di Dina Ferri (per ciò che nel suo piccolo comunque rappresenta), ai fini della critica è rimasta in una sorta di limbo.
Un po’ per la sua frammentarietà e incompiutezza (in definitiva la sua opera tramandata non è che la parte di un diario su cui, peraltro, non sappiamo quanto la curatela abbia inciso – e se ciò è accaduto, a mio avviso, ha influito negativamente); un po’ perché, dopo gli esordi, non ha più trovato l’interesse della cultura ufficiale, né è stato possibile ascrivere l’esperienza letteraria di Dina a quella di una poetessa a carattere popolare, come ad esempio nel caso di Beatrice degli Ontani cui, talvolta ed erroneamente, la Ferri viene assimilata (ambedue vennero definite poetesse-pastore).

In ragione di ciò e per capire i motivi di questo limbo, bisognerebbe, prima di tutto, introdurre categorie più di tipo socio-antropologico che letterario. Lo fece molto bene (forse alcuni di voi lo ricorderanno) Fabio Mugnaini nel convegno svoltosi qui a Chiusdino nell’ottobre del 1998, quando egli evidenziò come il percorso di Dina sia stato interessante innanzitutto dal punto di vista sociologico, poiché si assisté alla nascita di una scrittrice per cooptazione. Lo status di poetessa le fu infatti riconosciuto dall’ambiente culturale e aristocratico senese (Lusini e Misciattelli) in un’aura di illuminato paternalismo che – intendiamoci, in tutta buona fede – voleva anche ribadire come l’intellettuale avesse la capacità maieutica di scoprire il diamante in mezzo alla ghiaia.
E’ così, dunque, che una contadina (una donna contadina!; non passi inosservato questo aspetto di “genere”) diviene letterata, compiendo uno smisurato salto sociale. E ad un certo punto Dina stessa ha paura di questa emancipazione, arrivando quasi a colpevolizzarsi per aver tradito un destino che, invece, sembrava inequivocabilmente segnato dalla sua condizione di origine.
Del resto già l’azione dello scrivere era un distinguersi dalle proprie origini (quelle contadine) dove non si era soliti scriveva, ma, eventualmente, narrare oralmente.
Dina – osservava ancora Mugnaini – è una esponente del ceto subalterno, però sono altri a identificarne il talento e a legittimarne la produzione poetica. Perciò ella si esprime in un lessico che non è quello di provenienza, ma quello che l’accoglie e al quale piace ri-conoscerla come “poetessa pastora” (e perché – mi chiedo – non riconoscerla semplicemente come “poetessa”?).

A proposito di queste scarto che si avverte fra mondo contadino e universo colto in cui si vede ribaltata Dina, c’è subito da dire che negli scritti di Dina non si ravvisano grandi contaminazioni fra letteratura “alta” e tradizione popolare. Nella cifra stilistica che la ragazza di Ciciano va costruendosi, prevale decisamente la prima, si adottano, infatti, gli schemi della poesia “culta”.

Dunque la giovane Dina – concludeva Mugnaini – sa impadronirsi bene dello schema generativo della poesia che le è contemporanea e che le offre la scuola, ricavandone una sua competenza poetica capace di produrre “in proprio” poesia secondo i canoni vigenti. Perciò viene “riconosciuta” come poetessa.

Ma vediamo di richiamare, senza alcuna pretesa di completezza, perlomeno alcune annotazioni sull’opera della Ferri che potrebbero costituire delle piste di ricerca per un lavoro critico più approfondito, che noi da anni andiamo sollecitando a chi a pieno titolo possegga, appunto, gli strumenti della critica.
Ciò che fin da subito colpì degli scritti di Dina, fu, innanzitutto, la “padronanza del mezzo”, ovvero ci si chiese come fosse stato possibile che una ragazza di campagna poco più che alfabetizzata, di limitate letture, possedesse quella sorprendente capacità di scrittura, di rimario, di vocabolario. E anche oggi permane questo interrogativo. I suoi scopritori (Piero Misciattelli e Aldo Lusini) ci dicono, ad esempio, che tutte le poesie di Dina sono antecedenti alla sua lettura del Pascoli (limitata comunque a Myricae); che non aveva letto niente di Leopardi, Carducci, D’Annunzio…

Eppure se ignorassimo la storia di Dina Ferri e le diffide del Misciattelli e del Lusini a cercare inutilmente nella Ferri certe ascendenze letterarie e certi prestiti, la prima cosa che si avverte, pur con i dovuti filtri, sono, invece, proprio certe coincidenze di temi, di vocaboli, di rime e di assonanze che, privilegiando, giustappunto, il Pascoli, rievocano certa letteratura italiana; quella, peraltro, più probabilmente antologizzata anche nei libri di scuola del tempo della Ferri.

Ma se sono pur vere queste coincidenze, è altrettanto vero che nei migliori versi di Dina Ferri (e chissà quanti sono stati tralasciati da Misciattelli, poiché, magari, non corrispondenti a un suo gusto estetico e a una sua visione del mondo) si ha una cifra espressiva di spiccata originalità, che in alcuni casi accenna ad andare ben oltre lo stile smorzato e crepuscolare del suo tempo, tipico di un filone espressivo del primo trentennio del Novecento. Esemplare, in tal senso, potrebbe essere la poesia intitolata Vorrei che esprime una modernissima inquietudine, un ansioso interrogarsi dinanzi all’ignoto e anche una coraggiosa ricerca di percorsi inconsueti:

Vorrei fuggire nella notte nera,
vorrei fuggire per ignota via,
per ascoltare il vento e la bufera,
per ricantare la canzone mia.

Vorrei mirare nella cupa volta
fise le stelle nella notte scura;
vorrei tremare ancor come una volta,
tremar vorrei, di freddo e di paura.

Vorrei passar l’incognito sentiero,
fuggir per valli, riposarmi a sera,
mentre ritorni, o giovinetto fiero,
chiamando i greggi, e piange la bufera.

Tuttavia, a mio modesto parere, il principale valore letterario di Dina – se pur si parli sempre di un valore in nuce – non risiede nelle poesie (che, salvo qualche eccezione, come nel caso di quella citata) risultano, è vero, un po’ di maniera, edulcorate secondo il mito romantico…, ma nei testi in prosa, soprattutto quelli che adottano una cifra stilistica forte, prosciugata. E’ lì che va ricercato il suo potenziale artistico purtroppo rimasto inespresso.

Se analizziamo le prose della Ferri, constatiamo tre diversi registri espressivi che crescono in drammaticità ed elaborazione letteraria parallelamente alla maturazione e alle dolorose vicende esistenziali dell’autrice.
Si comincia, nelle prime pagine, con dei quadretti di maniera, scene bucoliche, un generico sentimento religioso, che tanto risuonano di Alfredo Panzini (ad esempio quello di “Viaggio di un povero letterato”, libro peraltro presente nella bibliotechina della Ferri) dove l’autore insiste nella descrizione di piccoli universi, come quelli campagnoli, fatti di cose semplici, schiette, godute e respirate nella loro freschezza e purità (a una certa cultura cittadina piaceva immaginarli così).
Ma, ad onore di Dina, a me pare che i quadretti impaniati nella “bella lingua” del professor Panzini, allievo di Carducci e prolifico retore, risultino alquanto vacui (in contenuto e, oserei dire, anche in forma) rispetto a quelli della diciassettenne ragazza di Ciciano, appena alfabetizzata, che, con prosa nitida e sicura, conclude in questo modo la pagina sulla visita alla tomba del nonno: “Perché quell’esistenza si era spezzata? Perché non avrei più potuto obliare la tristezza del mio cuore nel sorriso di quell’anima che conosceva le aridità e le tempeste della vita e sapeva parlarmi con soavità delle cose eterne. Perché?”. O come quando, nella poesia “Due novembre”, con versi di notevole modernità, scrive di una campana che è come “un’eco di pianto”, “un confuso di preci e di lutto / uno schianto nel pallido flutto / genuflesso alle urne dei morti”.
Per non dire di quando le vicende della sua malattia si fanno sempre più gravi, ed ella scrive parole di forte tensione stilistica e ancora più prosciugate: “Ma io non vedrò ingiallire le foglie della vite, come quelle del granturco. Quando l’ultimo raggio della canicola sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato”.

Uno dei punti più alti e toccanti della prosa di Dina è racchiuso poi nel testo di quella preghiera scritta in Ospedale, dove – e non si capisce come sia possibile – si leggono in filigrana brani di sacra scrittura, di mistici quali Caterina da Siena, Teresa di Lisieux, Giovanni della Croce, di classici della spiritualità cristiana quali “L’imitazione di Cristo”.
A margine di queste note resta ancora da sottolineare come negli scritti della Ferri ci sia la totale assenza del sentimento amoroso…, perlomeno di un qualsiasi turbamento riconducibile, magari, a una generica vaghezza d’amore. E chissà se anche in tal caso il curatore del “Quaderno del nulla” sa qualcosa…

Per altri aspetti sarebbe inoltre interessante approfondire l’universo lirico di Dina Ferri che già il Misciattelli ebbe a definire pervaso di un “vasto senso di umanità sofferta”. In effetti, ciò che impressiona di questa ragazza (anche prima che le si manifestasse la malattia) è sì una tenerezza accorata verso gli uomini e verso le cose, ma, soprattutto, un cupo, affranto sguardo sulla vita che, per quanto tipico di un certo mondo contadino, nella Ferri diventa ancora più inquietante, perché, a un certo punto, dietro l’apparente velo della rassegnazione, ella sembra, invece, ribellarsi; e non a caso scriverà: “ci ribelliamo alle leggi della nostra natura, e tentanto sollevarci nel vuoto, senza appoggio, ricadiamo più in basso”.
Sul filo di questa analisi potremmo anche adottare la chiave interpretativa assunta da Claudio Borgianni nel suo recente lavoro teatrale dedicato a Dina, allorché il regista fa uscire la Ferri dal suo dramma tutto vissuto in maniera intima, per darle invece una voce fortemente estroversa, gridata, disperata, veramente ribelle nei confronti di un destino avverso.
Continuando a riflettere sull’universo lirico della poetessa, notiamo poi come anche i riferimenti religiosi abbiano, inizialmente, sempre il velo della tristezza. Basti vedere che campana fa spesso rima con lontana, con strana e una volta addirittura con vana, per arrivare a dire che “solo una cosa Ciciano conserva d’immutato: il pianto dele sue campane”. L’universo lirico di Dina Ferri è, quindi, prevalentemente drammatico, tutto preso a riflettere sugli eterni contrari (non certo nuovi alla poesia) di vita/morte, gioia/dolore, bene/male. In Dina Ferri i sentimenti si fanno essenziali, precipitano verso l’aggrovigliato nodo dell’esistenza. Dirà, infatti: “al termine di questa via si legge il gran segreto che ci trascina; là c’è la chiave dell’incomprensibile enigma, del grande mistero”.
Le ho solo accennate; ma ecco delle possibili tracce che potrebbero essere percorse per rivisitare con strumenti adeguati e pertinenti le pagine di Dina Ferri.
Insomma, troverei giusto che oggi si riproponesse all’attenzione della critica questa personalità così singolare (ebbene sì… rimasta incompiuta), sistematicamente ignorata dalla storiografia letteraria, anche della cosiddetta letteratura minore.
Sarebbe forse opportuno rimuovere il “Quaderno del nulla” da quel… nulla di limbo in cui è stato relegato. Possibile – mi chiedo – che non ci sia una misura di mezzo per collocarlo fra le mirabilia (probabilmente esagerate, proclamate da Misciattelli e Lusini) e il misconoscimento più totale? Forse dovremmo attivarci per interpellare nuovamente la cultura ufficiale, accademica, affinché essa confermi o no, a distanza di un secolo, lo status di poetessa di Dina Ferri.

Quanto al documentario che andremo a vedere, esso non ha alcuna pretesa di approccio critico all’opera della Ferri. Ben altro è lo scopo di questo video. Ovvero quello, estremamente divulgativo, di riproporre e far conoscere la vicenda umana di Dina, ancorché fortemente compenetrata a certi esiti letterari. Mai come in questo caso, infatti, biografia e bibliografia sono intrecciate fra loro, e l’una dipendente dall’altra. Non a caso, nel documentario, il racconto procede cadenzato dalla cronologia dei fatti e dal compulsare delle pagine del “Quaderno del nulla”, laddove Dina stessa racconta l’anima di quei medesimi accadimenti. E quel racconto è, appunto, vita. E quel racconto – a me pare – costituisce comunque un’apprezzabile pagina letteraria, degna ancora oggi di attenzione, pur nella consapevolezza della sua frammentarietà, della sua acerbità, del suo essere rimasta un “incompiuto canto”.

http://ilblogdioliveto.blogspot.it/2008/10/dina-ferri-un-incompiuto-canto.html

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