E Dio disse: : Ciak Si Gira! – Blad af Satans Bog. Dreyer + C’era una volta

Il film, come il racconto di Edgar Hoyer da cui è tratto, è diviso in quattro episodi: quattro differenti contesti storico-sociali uniti da un comune filo narrativo: la presenza tentatrice di Satana…
Dreyer sperimenta una sorta di “simmetria narrativa” che, fino ad allora, nessun cineasta aveva presentato: svolge come una matassa di filo i quattro atti, concludendoli tutti con il rancore che Satana mostra verso Dio e con l’ostinata volontà di far cedere gli esseri umani a ogni tipo di tentazione. Quattro episodi che conducono alla morte, che vedono in bianco e nero le diverse sfumature delle sembianze del diavolo, mostrandocelo, talvolta, estremamente vicino e potente, come il Santo Inquisitore della vicenda ambientata in Spagna; e, talvolta, distaccato e umile, come quando veste i panni dell’ex domestico del Conte di Chambord.
La grandezza di Dreyer sta nel trattare, negli anni immediatamente successivi al primo conflitto bellico, un argomento, quello delle sfere del Satanismo, che sarà uno dei problemi cardini della cultura europea e non solo, di tutto il Novecento. E l’affronta con la capacità del grande maestro di visione, tracciando immagini pittoriche che pervadono l’animo, e facendo della macchina da presa il veicolo per scardinare le morali e i preconcetti di inizio secolo.

Il primo episodio si svolge a Gerusalemme, durante l’anno 30 d.C.
Satana assume le sembianze di un fariseo e induce Giuda a tradire Gesù.
Dreyer utilizza in modo preciso e accurato la composizione dell’immagine realizzando vere e proprie “iconografie visive” che portano lo spettatore vicino alle sacre rappresentazioni legate a temi biblici come l’unzione di Gesù, l’ultima cena o, ancora, il bacio di Giuda. Notevole anche il particolare uso espressivo dell’immagine ottenuta grazie all’impiego di mascherini che permettono di far “seguire da un’ombra” Giuda quando esce dalla casa di Pietro, dove Gesù e i suoi seguaci si erano riuniti. Un’Ombra che si fa chiave simbolica, in una inevitabile attrazione alla tentazione che conduce, inesorabilmente, verso la dannazione. Un’Ombra che porta come conseguenza ultima, la dannazione dello spirito. Tale tema ed il simbolismo ad essa legato tornerà, in forme e in modi differenti anche negli episodi successivi.

Il secondo atto è ambientato in Spagna, a Siviglia, durante il XVII secolo.
Qui Satana assume le sembianze di un “Santo Inquisitore” che condanna al rogo Don Gomez de Castro (un nobile “illuminato” che si interessava a studi astrologici, gli stessi che gli inquisitori percepivano come tentativo di “vedere la volontà di Dio attraverso gli astri”) e sua figlia Isabella, perché “figlia d’eretico ed eretica, quindi, lei stessa”.
Satana si serve del dotto monaco Don Fernandez Y Argote, maestro dei principi della matematica e della teologia, precettore di Isabella e che, contro la sua volontà, è irrimediabilmente attratto da lei. In questo secondo episodio, quando viene comunicato a Isabella che sarà bruciata viva sul rogo, Dreyer modifica l’uso dei mascherini ottenendo una zona d’ombra orizzontale che occupa la parte superiore dell’inquadratura, come a “nascondere” una chiara percezione della volontà divina che soccombe schiacciata dall’incapacità di resistere alle tentazioni.

Il terzo episodio è ambientato a Parigi, nel 1793.
Satana assume le sembianze di Ernest Durand, ex domestico del Conte di Chambord, che, conquistato dalle nuove teorie politiche dei Giacobini, riesce, servendosi di Joseph, fedele servitore della famiglia Chambord, a far fuggire la contessa e sua figlia Genevieve, di cui lo stesso Joseph è segretamente innamorato. Convinto della possibilità di aspirare a mete più alte e realizzare di riflesso i propri sogni di potere, servendosi dell’influenza politica di Ernest, il servitore Joseph si accosta ai Giacobini, continuando, tuttavia, a far visita alla contessa e, soprattutto, a sua figlia.
L’uso di mascherini è, in questo terzo episodio, assai limitato: la sperimentazione estetica di Dreyer riguarda strettamente la luce che, nella sequenza relativa alla richiesta di matrimonio di Joseph a Genevieve, richiesta rifiutata e che porterà Joseph, corroso dal rancore, a denunciare entrambe le donne, si sposta prima sul volto di lui e poi su quello di lei, lasciando il resto dell’inquadratura nella più completa oscurità. Solo quando il dialogo sarà concluso, un’improvvisa invasione di luci renderà visibile anche altri dettagli della stanza nella quale i due si trovano.

L’ultimo episodio è ambientato in Finlandia, nel 1918, più precisamente nel paese di Hirola, occupato dai “Rossi”.
Satana compare sotto le sembianze di Ivan, un monaco russo accorso dai suoi fratelli “Rossi” per difenderli dalle prepotenze delle Guardie Bianche, e si serve di Rautamieni, che denuncia Paavo, reo di voler giacere con sua moglie Siri, la quale pur di non tradire suo marito, la Finlandia e il suo popolo, si pugnala al cuore. Anche qui la tragedia non è estranea al destino dell’uomo, s’insinua prepotentemente nel suo cammino, ma questa volta l’influenza tentatrice di Satana non ha avuto effetto su Siri.

Satana, dunque, porta il suo messaggio di perdizione servendosi di quattro persone differenti: Giuda, Don Fernandez, Joseph e Siri, la sola a resistergli, e pur esplicandolo secondo modalità tra loro diverse, raggiungerà un comune scopo finale: la morte.

Una apologia della disperazione, che se per tratti sembra profondamente radicata in un pessimismo macroscopico e insuperabile, si conclude, in una traccia quasi sottopelle, vestendosi di quella speranza che vede gli uomini capaci di opporsi a determinate spinte tentatrici e autodistruttive.

Dreyer si mostra come una delle voci più “alte” del cinema, una di quelle che meglio giustifica l’ambizione del grande schermo di sposare lo spettacolo all’arte. La penna narrante di un uomo capace di esprimere, attraverso l’immagine, uno dei nodi tragici del Novecento: la lotta della coscienza, di quella falsa morale che mira solo al benessere materiale scrollandosi di dosso la presenza di una qualsiasi forma di spiritualità. L’opera di Dreyer (in una analisi a più largo raggio e che riguarda tutta la sua produzione) sembra il sigillo a caldo dei profeti, degli stregoni e dei medici dell’animo. Non parlando agli uomini di una nuova forma di misticismo, bensì mettendo a nudo la drammaticità della condizione umana che porta ogni singola vita a vivere in una tensione angosciosa.

Dreyer regala quel conflitto tra Bene e Male che diverrà opera di altri grandi cineasti e scrittori contemporanei, discendendo dagli antri metafisici del cuore dell’uomo e mostrando come questo, peccando di un razionalismo assoluto, pretenda di cancellare la vastezza del mistero, la nozione di grazia e il valore assolutamente sacro della più profonda forma di sofferenza. Il suo merito più grande sta forse nel risolvere i temi della problematica morale in motivi plastici, nel renderli universali e trasversali, affidandoli alla poliedricità dell’immagine, rendendoli incisivi e concreti con un lavoro stilistico che rafforza il contenuto spirituale di una realtà che,sempre più spesso,va dissolvendosi tra le dita come nebbia.

E, l’emozione più profonda di cui tutt’ora ci arricchisce il suo lavoro, resta, senza dubbio, l’espressività dei volti, la tensione macroscopica dei rapporti di spazio, ritmici, di luce, e quella misura del gesto che ne ha consacrato la grandezza, serbandogli un posto di rilievo nella cinematografia di tutti i tempi.

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