a proposito…eastjournal collage, video comico , video storico, post ,films : KOZARA, Želimir Žilnik

Chi ha rotto il giocattolo di Tito? Rileggere la dissoluzione della Jugoslavia

Christian Costamagna 9 dicembre 2015

Dopo circa 25 anni, il processo di dissoluzione della Jugoslavia è oggetto di divergenti punti di vista. Uno dei temi più controversi è indubbiamente la responsabilità ultima della disgregazione della federazione post titina. Le scuole di pensiero, se così volessimo definirle, sono sostanzialmente due. Secondo la prima, la Jugoslavia è deceduta per cause prettamente endogene, mentre la seconda addossa la maggior parte della responsabilità a forze esterne al Paese. Proviamo, in sintesi estrema, a porre in evidenza alcune dinamiche.

Egoismi interni

L’attore politico che ha incendiato la scena politica jugoslava alla fine degli anni ’80 è Slobodan Milosevic. Ma come si è giunti  a questa situazione? Milosevic avrebbe voluto scalare i vertici del potere jugoslavo scavalcando le norme all’epoca vigenti, appoggiandosi ai moti di piazza, per riunificare la Serbia in primo luogo (ossia abolendo l’indubbiamente ampia autonomia delle due province, Kosovo e Vojvodina, per appagare l’opinione pubblica serba), e poi la Jugoslavia stessa. Milosevic ha supportato la causa dei Serbi del Kosovo per ottenere il massimo consenso all’interno della sua Repubblica, sperando di consolidare l’oligarchia al potere di cui era esponente a pieno titolo.

Nel 1987 “Sloba” temeva, non a torto, che le proteste dei Serbi e Montenegrini del Kosovo, che migravano da tale regione in maniera consistente, sostenendo di essere vittime di discriminazioni quotidiane da parte della maggioranza albanese (versione contestata dalle autorità kosovare dell’epoca, secondo cui le ragioni erano prevalentemente economiche), potessero culminare in una sorta di “colpo di stato” da parte dell’Esercito popolare jugoslavo (JNA). Ovviamente Milosevic sarebbe stato rimosso dal potere, sebbene l’effettiva applicazione dello stato di emergenza sul territorio della Serbia e/o della Jugoslavia, fosse perlomeno opinabile (per quanto minacciata decine di volte, soprattutto dal 1987 al 1991 dai vertici della JNA, solo in Kosovo, dopo gli eventi del 1981, venne dichiarato lo stato d’emergenza, una variante jugoslava della legge marziale.

I nazionalisti delle altre principali repubbliche – Slovenia e Croazia – saliti al potere nelle elezioni del 1990, hanno contribuito ad alzare la tensione (i leader sloveni spingendo per la secessione dalla federazione, quelli croati alimentando i timori della comunità serba di Croazia). Inoltre, la richiesta di una parte considerevole della popolazione albanese del Kosovo di trasformare la loro provincia in una repubblica jugoslava, in particolare dal 1981, contribuì senza dubbio ad alimentare i timori dell’opinione pubblica serba, preparando così il terreno a Milosevic.

L’inazione Occidentale

L’Occidente nei primi anni ’90 era una mera espressione geografica, ognuno coltivava i propri interessi, a partire dall’Europa. L’alternativa ad una posizione scomposta e al riconoscimento dell’indipendenza di Lubiana e Zagabria, condotta più per piaggeria politica che non per una reale convinzione, sarebbe stata quella di congelare il conflitto nel 1991, però sarebbe occorsa un’unità di vedute e intenti. Che non c’erano, così come ancora non esistono nel 2015 (basti pensare alla crisi politica macedone ed alle posizioni dei due principali partiti del Parlamento europeo). Nel 1991, i cristiano democratici europei, tendenzialmente tifavano per gli indipendentisti. I socialisti, come Gianni De Michelis (noto per aver ammonito Lubiana sostenendo che l’Italia non avrebbe mai riconosciuto l’indipendenza slovena), volevano tenere unita la sgangherata federazione. Agli Americani non importava nulla della Jugoslavia in quel momento, avevano altri problemi cogenti, dall’URSS al Kuwait. Importava loro, in primo luogo, la democratizzazione formale e la privatizzazione dell’economia, non molto di più. Però Bush padre (quantomeno la sua amministrazione) era considerata decisamente filo-jugoslava e filo-serba (non a torto, basti pensare a personaggi come Lawrence Eagleburger). Volevano lo status quo, gli Americani, ossia mantenere la Jugoslavia unita, ma non ad ogni costo: ormai non serviva più uno Stato retto da comunisti eretici per pungolare l’Unione Sovietica.

Capri espiatori

I politici jugoslavi erano profondamente divisi tra loro, nel 1989-91, come si può pretendere che non lo fossero i politici di altri Stati? La Jugoslavia non è stata affatto distrutta dall’esterno secondo un piano prefissato come alcuni credono. Al limite si potrebbe affermare che una parte dell’Occidente supportava (non era certo un mistero) gli anti-comunisti, che il più delle volte erano anti-jugoslavi e nazionalisti. Dal 1985 in avanti i “critici” del regime jugoslavo (come Dobrica Cosic e altri), a causa dei loro egoismi e vantaggi immediati, non furono in grado di creare un fronte comune contro il potere politico. Supportare gli anti-comunisti significava, in Jugoslavia, supportare prevalentemente coloro che volevano distruggere lo stato federale (dalla Slovenia in giù).

Ovviamente l’influenza culturale occidentale nel Paese dell’autogestione socialista, e lo stesso processo di modernizzazione, hanno influito su di una parte della società civile locale nel preferire forme di rappresentanza pluralistica, senza più il monopolio del potere dei comunisti (già spaccato, comunque, in sei repubbliche e due province). Però Milosevic, un membro a pieno titolo dell’apparato del regime, nel 1989 ha messo pressoché tutto in discussione. Il leader serbo era divenuto espressione delle forze conservatrici all’interno del sistema socialista, con un supporto plebiscitario da parte delle folle inebriate dal riscatto nazionalista. La Serbia avrebbe dovuto risorgere dalle ceneri di una sconfitta nella vittoria (secondo il leitmotiv dell’epoca, fomentato da Cosic e altri).

A ben vedere, il problema reale non è la dissoluzione degli Stati, il problema è la loro modalità (basti pensare alle differenze tra la fine della Cecoslovacchia rispetto a quella della Jugoslavia). La federazione di Tito inoltre, nonostante le aspre critiche verso gli USA, era decisamene influenzata – di fatto – dall’America ben prima del 1991, perché era vincolata dai finanziamenti e dall’esportazione di disoccupati jugoslavi che divenivano Gastarbeiter in Paesi come la Germania. Infine non sapremo mai se tenere insieme con la forza la Jugoslavia nel 1991 sarebbe stata una scelta ottimale, data la situazione che si venne a creare.

A scanso d’equivoci, l’arroganza del potere a Belgrado, verso la Croazia (Vukovar, Dubrovnik ecc.) è iniziata ben prima del riconoscimento della Slovenia e della Croazia da parte della Germania e del Vaticano. Alcuni individui non hanno mai creduto al progetto jugoslavo, così come altri ancora oggi vi credono. Del resto le stesse dinamiche si ripresentano oggi in Europa, ossia l’approccio che ogni singolo stato nazionale nutre verso l’idea di Unione Europea. Così come la Jugoslavia, l’Unione Europea è frutto della volontà dei cittadini e delle loro elites politiche.

Tuttavia, a coloro che credono che la Jugoslavia sia stata distrutta primariamente dall’esterno, è bene rammentare che la situazione che si venne a creare tra la seconda metà del 1989 e la prima metà del 1991, per quanto fosse grave, e lo era, non era nulla se paragonata al 1941-45, ossia alla strenua resistenza dei partigiani durante la Seconda guerra mondiale contro le forze nazi-fasciste. E’ evidente che se i popoli jugoslavi fossero stati realmente uniti, nel 1991, ed in particolare i loro leader politici, la resistenza verso la presunta distruzione e/o occupazione occidentale non sarebbe avvenuta con estrema facilità.

D’altro canto, la concezione della vita politica da parte dei comunisti jugoslavi non fu di grande aiuto, perché suddivisero la popolazione in nazioni e minoranze, anziché in cittadini. Conseguentemente Tito e compagni, direttamente o indirettamente, contribuirono a creare i presupposti per una competizione tra le repubbliche jugoslave. Sarebbe però scorretto attribuire la responsabilità del confitto a Tito, perché è evidente che la responsabilità primaria della dissoluzione e dei conflitti è da ricercarsi nei politici al potere nel 1990-91 (certo, non unicamente in Milosevic, anche perché l’opposizione interna a Belgrado era ancora più radicale e nazionalista).

Le debolezze umane e la sete di potere di Milosevic, Tudjman e Izetbegovic, hanno creato, forse involontariamente, gli orrori degli anni ’90. Se Milosevic è ritenuto, a ragione, maggiormente colpevole rispetto agli altri, è perché è salito ai vertici del potere, abusandone e ingannando i cittadini serbi, ben prima dei suoi colleghi. L’inconsistenza dell’Occidente ha semplicemente peggiorato la situazione in ex Jugoslavia.

Il paradosso è che si accusa l’America di aver voluto distruggere la Jugoslavia, quando in realtà la sua responsabilità principale è stata quella di non aver agito a tempo debito. Per anni, i bosniaci musulmani (e gli Albanesi del Kosovo) hanno chiesto aiuto a Washington, all’Europa, ma altrettanto a lungo sono stati ignorati, dando adito, non a torto, a una serie di pesanti accuse verso la Comunità internazionale. Quando (nel 1994-95 e nel 1999) l’Occidente, con grande fatica, ha agito con la forza bruta per bloccare la violenza delle forze armate supportate da Belgrado, è stato accusato di aver violato la sovranità, il diritto internazionale, di essere anti-serbo e così via.

Sia in caso di inazione che di interventismo, a quanto pare, l’Occidente è comunque colpevole a prescindere sebbene, i primi responsabili siano stati i leader politici post-jugoslavi ed i loro volenterosi nonché numerosi simpatizzanti. Le idee e la forma mentis di questi ultimi, a differenza di Milosevic, Tudjman, Izetbegovic (che incarnarono lo spirito del tempo a loro vantaggio), sono ancora vivi e vegeti, e la loro mentalità avvelena la vita dei Balcani. Addossare la responsabilità ad agenti stranieri è la scorciatoia più facile nei confronti della realtà

http://www.eastjournal.net/archives/68321

Trame di distruzione, di Francesco Rubino. Un libro per capire la fine della Jugoslavia

redazione 3 novembre 2015

51tv5HzXPcL._SX332_BO1,204,203,200_

Trame di distruzione
di Francesco Rubino
prefazione di Lorenzo Salimbeni
Edizioni Il Cerchio, 2015
euro 12
pagine 100

Le guerre jugoslave sono state una delle pagine più cupe del Novecento, e una delle più complesse. Per comprenderle appieno occorre demistificare le retoriche di parte, evitare le facili interpretazioni, rifiutare le etichette che descrivono i Balcani quale “polveriera d’Europa”, fucina di sangue e odio. Negli ultimi vent’anni, accanto a testi “sacri” quali l’imponente opera di Jože Pirjevec, si è assistito a un fiorire di pubblicazioni sull’argomento ma quello che è sempre mancato è un testo agile, di facile consultazione, che tuttavia non rinunciasse al rigore storico e alla profondità. Trame di distruzione, di Francesco Rubino, va decisamente in questa direzione.

Un testo che, senza dare nulla per scontato, è capace di unire esattezza e chiarezza, approfondimento e brevità, entrando dentro le pieghe della storia, con amore del dettaglio ma rifiuto del cavillo. Lungo le sue cento pagine scorre tutta la storia jugoslava, dalla fondazione alla dissoluzione, passando per la Seconda guerra mondiale e il periodo socialista, fino a quel maledetto 1991 e all’atroce conflitto che ne seguì. Rubino ci mostra che le ragioni delle guerre jugoslave vanno cercate nella storia del paese, nella sua controversa nascita e soprattutto nella vicenda della Seconda guerra mondiale che pose le premesse della guerra civile. E’ in questa capacità di coniugare il passato remoto con quello prossimo che sta la necessarietà di questo libro. Rubino ci dice che non si possono comprendere le guerre jugoslave senza conoscere la storia che le ha precedute, e il suo sforzo è proprio quello di offrire un quadro completo, chiaro e fruibile dell’intera vicenda.

Ne scaturiscono così interrogativi più ampi, quali l’essenza stessa della Jugoslavia e le sue effettive possibilità di resistere alla morte di Tito. “Non spetta certo a me dire se la Jugoslavia s’aveva da fare o meno – dichiara Rubino – ma credo che alcuni statisti europei non jugoslavi, dopo il primo conflitto mondiale, abbiano desiderato la Jugoslavia assai più che molti dei suoi futuri cittadini”. Un paese figlio della complessità, un nodo inestricabile che pure è stato tagliato, infine. “La politica avrebbe dovuto compiere autentici miracoli per tenere unita la Jugoslavia post-titina – ci dice ancora l’autore – Chi ha lottato per tenerla unita così com’era, è stato spazzato via proprio dalla politica, prima che dai conflitti. Forse avrebbe potuto sopravvivere sotto altre forme. Sicuramente vi erano diverse opzioni in tal senso, magari con un lento e paziente lavoro di scioglimento dei vincoli federali, lavorando ad una confederazione più larga ed agile. Ciò avrebbe evitato la guerra, ma gli astri nascenti della politica post-titina avevano ben altri interessi”.

Ma l’opera di Rubino ha una qualità che la rende pressoché unica nel suo genere, ovvero l’equidistanza. “Ammetto di non sopportare la storiografia manichea”, dichiara l’autore, e certo la tendenza propagandistica e didascalica che ha connotato molte delle pubblicazioni su questi argomenti, offre scorciatoie a chi volesse evitare di misurarsi con la storia. Non è il caso di Rubino che, con rigore scientifico ed equilibrio, decide di raccontarci questa Storia – con la maiuscola – che ha così gravemente segnato la fine del Novecento.

In Trame di distruzione tutte le parti in causa vengono inchiodate alle loro responsabilità storiche, senza sconti né eccessi. Quella che emerge è una storia fatta di luci ed ombre, senza eroi né martiri, senza santi o condottieri, in cui tutti furono carnefici e vittime. “Preferisco che vi siano luci ed ombre. Non se ne può più della pseudostoria scritta con le agiografie o le diffamazioni. Ho tentato di evidenziare le connessioni che hanno portato alla distruzione del paese. Non ho parti da prendere. Dopo avergli dato tutti gli elementi in mano, sarà il lettore a farsi una propria idea su quegli eventi”.

Francesco Rubino, classe 1978, di Modugno (BA), è storico dell’ex-Jugoslavia. Questo libro rappresenta il risultato di una decennale ricerca sul campo. Oggetto dei suoi studi sono gli eventi che portarono alla dissoluzione jugoslava, con particolare attenzione ai risvolti militari, geopolitici e sociali.

http://www.eastjournal.net/archives/67179

I crimini di guerra bosgnacchi. Nessuno fu esente dalla barbarie

Matteo Zola 7 ottobre 2015

C’è un argomento di cui si parla troppo senza parlarne mai davvero. E’ quello dei crimini di guerra perpetrati durante le guerre jugoslave (1991-1999). Si parla troppo, cioè, di alcuni eventi criminali finendo per farne simboli e come tali rendendoli oggetti “sacri”, intoccabili, favorendo così le strumentalizzazioni politiche. Poiché su quei fatti è in corso, ancora oggi, una guerra. La guerra dei parolai, dei politicanti in cerca di consensi, ma anche la guerra delle memorie che cerca di dividere in assolutamente carnefici e assolutamente vittime le parti allora in causa.

L’altra faccia di Srebrenica

C’è, nel sentire comune e nella divulgazione storica spicciola, una divisione tra buoni e cattivi. I cattivi hanno quasi sempre il volto di Radko Mladic, il comandante serbo protagonista del massacro di Srebrenica, e i buoni sono generalmente i bosgnacchi, cioè i musulmani aggrediti dalla barbarie serba. Senza in nessun modo voler ridurre la portata criminale dei fatti compiuti, il confine tra buoni e cattivi non è così netto come si vorrebbe. Anche i musulmani, nella loro guerra, si sono macchiati di crimini atroci ed è tempo di penetrare la coltre di silenzio che spesso li avvolge.

Il massacro di Srebrenica è l’evento simbolo delle guerre jugoslave. Sappiamo come andò, e non è necessario riassumerlo. Sappiamo soprattutto che i serbi uccisero ottomila musulmani inermi, e lo fecero nei modi più atroci e dopo lunghe sevizie. Questo crimine ineguagliabile, definito come genocidio da due diverse corti internazionali, ha consentito alla società e ai politici musulmani di auto-assolversi dei crimini da loro commessi, elevandosi a uniche vittime del conflitto: i musulmani sono, in patria e all’estero, le “vittime più vittime delle altre”. Sull’uso politico della memoria di Srebrenica, si legga qui. Srebrenica ha però delle premesse – attenzione, non delle cause – nell’attività militare bosgnacca del 1992-1993. L’altra faccia di Srebrenica, meno nota rispetto a quella del boia Radko Mladic, è quella di Naser Orić, comandante bosgnacco lungo la valle della Drina.

Lungo la valle della Drina, i crimini di Naser Orić

La città di Srebrenica, subito occupata dai serbi nel febbraio del 1992, venne riconquistata dalle truppe musulmane già a giugno. Da quel momento Srebrenica divenne la base per incursioni nel territorio occupato dai serbi. Lo scopo dei bosgnacchi era quello di ricongiungersi con l’enclave musulmana di Zepa, in modo da spezzare il collegamento tra le milizie serbe operanti in Bosnia e la madrepatria, che da Belgrado inviava rifornimenti e uomini. Durante queste incursioni, guidate dal comandante bosgnacco Naser Orić, le truppe musulmane attaccarono villaggi a maggioranza serba, trucidando la popolazione civile e radendo al suolo le abitazioni, spingendo i superstiti alla fuga: erano quelli i metodi della pulizia etnica.

Si contano – da parte serba, ma le cifre sono oggetto di contesa – circa 1300 vittime civili serbe uccise su ordine di Naser Orić. Nel tempo il numero delle vittime è salito, secondo le autorità della Republika Srpska, a tremila, mentre per il centro di Ricerca e Documentazione (Research and Documentation Center, RDC) di Sarajevo, in cui lavorano congiuntamente investigatori bosgnacchi, serbi e croati, si tratterebbe di 843 persone. Ma non siamo qui a contare le teste, a misurare la mostruosità dell’eccidio facendo la conta delle vittime: quello che è importante è che furono vittime civili, uccise non accidentalmente ma deliberatamente, allo scopo di liberare un territorio che si intendeva controllare. Quello che conta è l’intento di queste operazioni, poiché l’eccidio era finalizzato a spaventare e allontanare la popolazione serba dalla regione: insomma, la pulizia etnica. Che si tratti di ottocento, quanti i morti per mano bosgnacca, o degli ottomila di Srebrenica, non fa differenza: la morale non è una questione di matematica.

Il 7 gennaio 1993, a seguito del fallimento dei colloqui di pace di Ginevra, i bosgnacchi di Orić ripresero l’offensiva nella valle della Drina attaccando il villaggio di Kravica e massacrando 40 civili serbi. Per questi crimini Naser Orić verrà condannato dal Tribunale penale dell’Aja a due anni di reclusione. Troppo poco secondo il procuratore generale Carla Del Ponte che chiese lo svolgimento di un processo d’appello il quale si concluse però con la completa assoluzione di Orić. Si trattò della prima di molte assoluzioni eccellenti che il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) avrebbe dichiarato negli anni a venire, alimentando il sospetto che si trattasse di sentenze politicizzate. Sospetto confermato dalla stessa Carla Del Ponte quando dichiarò che le indagini e sentenze erano influenzate dalla comunità internazionale, NATO in primis, che non gradiva si indagasse sugli ex-alleati.

Il massacro di Grabovica

La mattina dell’otto settembre 1993 le truppe bosgnacche dell’ARBiH, guidate da Sefer Halilović, calarono sul villaggio di Grabovica, nell’Erzegovina, popolato in prevalenza da croati. Il villaggio era sotto il controllo bosgnacco già da maggio e non si erano registrate violenze. A cambiare la situazione fu l’arrivo della IX e X Brigata bosgnacca, note per la loro efferatezza. La notte dell’otto settembre vennero uccisi tredici civili estranei al conflitto, almeno queste sono le vittime accertate dall’ICTY anche se si suppone fossero di più. Per questi crimini vennero accusati lo stesso Halilović e altri ufficiali. Halilović fu accusato di non avere fermato il massacro e di avere la responsabilità dell’accaduto essendo l’ufficiale in comando, secondo alcuni le responsabilità di Halilović furono ben maggiori, favorendo se non ordinando il massacro. Tuttavia non fu giudicato colpevole. Vennero invece condannati gli esecutori materiali del massacro, i soldati Nihad Vlahovljak, Sead Karagić e Haris Rajkić.

Il clan dei sarajevesi e la roccia di Kazan

Quando arriva una guerra i primi a fiutarla sono quelli che popolano l’underground criminale. Più sensibili ai movimenti sotterranei, sanno quando il terremoto è in arrivo e sono in grado, talvolta, di giovarsi del disastro. Così è accaduto a Sarajevo quando, il 5 aprile del 1992, la città sprofondò nell’assedio. Senza un esercito, senza armi, la città cercava qualcuno che la difendesse e ad approfittare della situazione fu  Mušan “Caco” Topalović, trafficante e assassino, capace di formare una propria brigata autonoma che non mancò, tuttavia, di collaborare con le autorità politiche e militari bosgnacche. Una collaborazione scomoda, per alcuni necessaria in quel momento, ma il cui prezzo è stato elevato.

Topalović è stato riconosciuto responsabile, dalle stesse autorità civili bosgnacche, di avere rapito, brutalizzato e sgozzato civili. In particolare è stato accusato della morte di Vasilj Lavriv e sua moglie Ana, due cittadini sarajevesi portati via dalla propria abitazione su ordine della X brigata di Montagna. Condotti a Bistrik, dove la brigata aveva il comando, sono stati denudati, colpiti a picconate e sgozzati, per essere gettati infine nel Kazan, una fenditura nella roccia dove – a guerra finita – furono ritrovati decine di corpi. “Caco” verrà ucciso, in circostanze mai chiarite, su ordine del governo di Sarajevo il 26 ottobre del 1993.

La resistenza bosgnacca si è giovata anche dell’aiuto di Ismet Bajramović e Ramiz Delalić. Quest’ultimo, in particolare, è stato il comandante della IX brigata di Sarajevo, e fu responsabile dell’omicidio a sangue freddo, e del tutto immotivato, di Nikola Gardović, un giovane serbo ammazzato mentre stava celebrando il proprio matrimonio di fronte all’antica chiesa ortodossa di Sarajevo.

Conclusione 

Si tratta di episodi che dimostrano come l’efferatezza e la disumanità non fossero, in quel conflitto, da una parte sola. I bosgnacchi non furono esenti dalla barbarie. Certo la quantità di eccidi e stragi compiute per mano serba, specialmente da parte delle forze serbo-bosniache di Karadzic e Mladic, è maggiore, ma non si intende qui equiparare le parti in conflitto, di fatto assolvendole tutte in nome di una comune brutalità. Le parti non sono tutte uguali, ci furono degli aggressori e degli aggrediti, e il numero di vittime musulmane fu altissimo. Ma l’abominio non si misura con i numeri. Tragedie immani come quella di Srebrenica non devono servire a nascondere i massacri compiuti. Resta la consapevolezza che in quella guerra, pur nella differenza delle responsabilità, la crudeltà non fu prerogativa di una parte soltanto.

http://www.eastjournal.net/archives/64498

sterminio dei serbi durante la seconda guerra mondiale – La .

Il giorno di quale ricordo? By Gabriella Giudici – HANNO “INFOIBATO .

24 MARZO 1999 : iniziarono i bombardamenti della Nato su Belgrado …

Creative Provocation: Želimir Žilnik, maestro del docu-drama ..

KOZARA L’ULTIMO COMANDO (1962 )VELJKO BULAJI – Oj Kozaro .

Questa voce è stata pubblicata in cultura, documenti politici, memoria e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.