Sergei Loznitsa: A Master of Observational Cinema parte1

Risvolti #1 – Sergei Loznitsa: il Cinema dell’eternità

Pubblicato il luglio 23, 2016 di
Nel corso di una carriera composta finora da all’incirca venti lavori, de quali solo due annoverabili come “di finzione”, Sergei Loznitsa (1964, Baranavicy, Ucraina) ha protratto un discorso collettivo di origine autoctona, legato a doppio filo alla relativa controparte politica, riflettendo contemporaneamente sul valore del cinema come mezzo di comunicazione, sulla dimensione di quest’ultimo e sulle sue potenzialità. Partendo da Life, autumn (Zhizn, Osin, 1999), opera prima dell’autore, se non si considera la precedente parentesi amatoriale, si rivela immediatamente il carattere analitico del suo Cinema, a forte impronta d’indagine, quasi uno studio dell’ambiente sociale russo che riprende individui della classe indigente nel proprio luogo d’origine, piccole realtà rurali filmate prettamente nello svolgimento di attività agricole, talvolta viste all’opera nel settore secondario, vedasi Factory (Fabrika, 2004). Vige pertanto un estremo libertinismo nel lavoro dell’autore, lavoro che prescinde da qualsiasi logica del Cinema canonico,  concentrandosi sull’immagine come entità a sé stante, proiezione del reale ed allo stesso tempo illusione di realtà.

Fotogramma da Artel (2006)

A livello formale la filmografia di Loznitsa può classificarsi grossomodo in tre fasi: quella che va dagli esordi al 2006, alla quale seguono la digressione dei film a soggetto e la fase relativa ai documentari politici a sfondo storico/sociale. Soffermandosi sulla prima di queste, si nota un‘impostazione rigorosa e radicale ma dai toni rasserenanti, catartici, dal respiro leggero, estremamente vicina al Cinema post-sovietico del periodo, in particolare al primo periodo sokuroviano. La sequenza si fonda sul montaggio di riprese statiche molto spesso tra loro indipendenti, quadri che contemplano lo svolgersi di un’attività piuttosto che l’ambiente stesso, spoglio di qualsiasi artificiosità o rarefazione. Nessuna formulazione narrativa è mai presente nella cifra stilistica di Loznitsa, il suo è un approccio che cerca l’astrazione della materialità e vede il mezzo cinematografico come possibilità di rappresentare il tempo nel suo ciclo continuo; persistenza di vita, quindi, espressione di un gesto che nel suo farsi consacralizza l’immagine conferendogli corporeità ed assolutezza.

Fotogramma da The Settlement (Poselenie, 2002)

In questa costruzione strutturale sussiste una metodologia applicata scrupolosamente nella lunghezza della singola ripresa, studiata per essere sempre omogenea così da non rivestire mai più importanza della successiva, piuttosto che della precedente. Un sistematismo di derivazione matematica (prima professione dell’autore) che trova armonia nell’assenza di tecnicismi orientati al racconto, demolisce l’idea tradizionale di inquadratura diretta al s/oggetto, per realizzarne una universale. Non esiste più il piano o il campo, ogni ripresa è un piano-campo che stabilisce conformità all’insieme, concretizzando quindi l’idea di immagine-tempo di per sé anarchica ed avanguardistica. Quello di Loznitsa, difatti, è un Cinema che scandisce il tempo, vive nel tempo e si alimenta dello stesso, consente alla memoria di riaffiorare nel presente attraverso la pellicola che così facendo abita la vita e comunica il suo scorrere irrefrenabile; da qui l’idea di Cinema del tempo, Cinema dell’eternità.

Fotogramma da Northern Lights (Severnyy Svet, 2008)

Se dunque nelle opere dell’artista ucraino si può parlare di essenzialità, e cioè di un approccio incentrato sulla muta venerazione degli spazi, di ciò che conferisce loro voce e valenza estrinseca, si può altresì parlare di circolarità. Non si tratta infatti di condividere un’esperienza o vivere un disagio quanto proprio di partecipare ad un ciclo vitale inestinguibile, un viaggio fatto di soste che altro non fanno se non completare e definire lo stesso attraverso una logica del connaturato e (a seconda delle circostanze riprese) del panico, doloroso, soffocante incedere dell’universo e di ciò che lo compone e distingue. Ciclo che sviluppandosi ha saputo intraprendere strade diverse, funzioni differenti, talvolta apparentemente più agevoli, conservando, ciò nonostante, spiritico critico, onestà artistica e coerenza autoriale. Risulta pertanto evidente che la finzione per Loznitsa non fornisca altro che un pretesto per muoversi più liberamente a livello espositivo; a riprova di ciò, si può considerare il mantenimento degli stessi principi applicati sui documentari, difatti, in entrambi i casi le opere dell’autore mostrano l’irriducibilità dell’individuo collocato nel contesto post-sovietico, lo immortalano intentando un’indagine che, in fin dei conti, risulta sempre profondamente critica: manifestazione di dissenso politico o denuncia di uno status sociale,  intraprese per opera di un’inchiesta sociologica (Maidan, 2004) che può altresì rievocare eventi del passato riflettendo allo stesso tempo sull’attualità, come nel caso del suo ultimo The event (Sobytie, 2015). Quasi come nei panni di un cronista, l’autore ha saputo combinare il bisogno di raccontare una faccia scomoda della Russia,  le ripercussioni di una nazione sperduta sul suo popolo, perfettamente emblematizzate in My Joy (Schaste moe, 2010), a quello più teorico ed avanguardista, che sperimenta sullo strumento stesso che è il Cinema.

Fotogramma da Anime nella nebbia (V tumane, 2012)

https://cinepaxy.wordpress.com/2016/07/23/risvolti-1-sergei-loznitsa-il-cinema-delleternita/

A Master of Observational Cinema

Sergei Loznitsa, Ukrainian filmmaker, who is world-known thanks to his short and feature-length documentaries as well as fiction films. His first two fiction films, My Joy (2010) and In the Fog (2012) had their world premieres at the Festival de Cannes, where In the Fog received the FIPRESCI prize. These two world-wide success were followed by the premiere of feature-length documentary Maidan (2014) at the Festival de Cannes too.  Recently, Loznitsa finished documentary Austerlitz (2016), an observation of the visitors to a memorial site that has been founded on the territory of a former concentration camp.

Sergei Loznitsa was born in Belarus, then part of the Soviet Union, he grew up in Ukraine and pursued a film career after first studying mathematics. In 1991 he entered Russian State Institute of Cinematography, in Moscow. After graduating in 1997, Loznitsa directed a series of striking and celebrated short films as a member of the legendary St. Petersburg Documentary Film Studio.
He has directed 18 internationally acclaimed documentary films. His earlier documentaries Blockade and Revue used archival footage to portray the siege of Leningrad in World War II and daily life under Communism.

“Both genres are quite interesting, and I like them both equally. In feature films, I can do things that I’m not allowed to do with documentary. And feature films are more open for fantasy. With documentary you have more limitation – by, let’s say, life around us, which we can’t fix. You can’t always express yourself how you want. The rest is the same. I work with documentary and feature-film footage in more or less the same way. Documentary footage is something I do not influence. I don’t provoke the situation, it’s a pure observation. My only provocation is the camera. But with a feature film we provoke and we create. Another difference, of course, is the amount of people who work with you. With documentary cinema you are more free. You have four people on the set and that’s enough. You can travel and spend your time without thinking how much money every hour is costing.”

Loznitsa was the first-ever Ukrainian filmmaker to compete for Cannes’ Palme d’Or, making his feature debut My Joy in 2010. A road movie was about a truck driver who takes a wrong turn into the dark side of Russian countryside. The film was followed by In the Fog, which premiered in the competition of the 65th Festival de Cannes in May 2012, where it was awarded FIPRESCI prize.

Loznitsa’s feature-length documentary film Maidan, dedicated to the anti-government protests in Ukraine, was premiered in 2014 at the Festival de Cannes, out of Competition. Sergei Loznitsa describes his film as an “epic” portrait of the Kyiv protests that led to the ousting of the country’s president, Viktor Yanukovych.
“I shot the first 45 minutes with my camera. And after that, I met the cameraman three times. I explained to him a little bit, and he shot during the day and came to me, and he understood very quickly what I needed. Because it’s a very, very concrete task. After that, he sent me all the material, and I step by step said, “This is good, this is good, this is not” and so on. A hundred hours [of material],” 
said Loznitsa.

At Venice festival in 2015, Sergei Loznitsa presented The Event, a found-footage chronicle of the fall of the Soviet Union as viewed in Leningrad. Last year he finished another documentary – Austerlitz. This carefully composed monochrome film without voiceover shows scenes of modern-day tourists at Holocaust sites in German and asks troubling questions about man’s ability to consume and yet, at the same time, forget the past. Loznitsa describes Austerlitz as an effort to reckon with an existential crisis he felt on his first visit to Buchenwald. He was there doing side research for a project called “Babi Year” about mass murders in World War II Ukraine. “I realized, in front of the crematorium, that I was myself like a tourist,” he said. “And at the same time, I thought, ‘How can I be? How can I stay there?”
Now, Loznitsa is finishing his next feature film, A Gentle Creature, a story inspired by Dostoevsky, about a woman seeking justice for her incarcerated husband. He explains his method of observation which he uses as in documentary films as well in his feature films: “I never use the voiceover. I think that cinema itself tells us much more than somebody who can comment. And sometimes it works.”

https://www.visegradfilmforum.com/2017/guest-speakers/guest-speaker/article/sergei-loznitsa/http:/

Sergei Loznitsa entra nel campo di concentramento di Sachsenhausen – a Orianenburg, 35 chilometri a nord di Berlino – in una calda giornata estiva. Tutto quello che fa è piazzare la macchina ad altezza uomo e lasciarla lì, dritta e frontale, a riprendere i gruppi di turisti che passeggiano per il campo.

Il risultato è una serie di piani sequenza in campo fisso, fotografati in bianco e nero, che montati l’uno dopo l’altro formano un percorso (dall’entrata all’uscita) che è quello del giro turistico prestabilito e indicato da cartelli, guide e audioguide, ma è anche il percorso cui – giorno dopo giorno, sapendo di poter morire da un momento all’altro – erano costretti i prigionieri durante la detenzione. L’impressionante spettacolo va ben oltre il giudizio – facile e scontato – di condanna e di ribrezzo nei confronti delle persone che visitano un luogo di morte, dolore e sofferenza con la leggerezza con cui si visitano una pinacoteca o un sito archeologico. Il disprezzo per il turista che si fa i selfie nei crematori e nelle camere a gas, che si mette in posa per la foto sul palo delle esecuzioni o che passeggia allegro fra i viali delimitati da dormitori, baracche e celle di detenzione e mangia il pranzo al sacco seduto sul lastricato che separa la strada dalle fosse comuni, anche se è la prima e naturale reazione di ogni spettatore, non deve trarre in inganno né condurre a semplicistiche e banali conclusioni su quello che il film dice e mostra.

Siamo proprio sicuri che ci comporteremmo tanto diversamente se fossimo al loro posto? Probabilmente no, o magari sì, o forse semplicemente sceglieremmo di non metterci nemmeno piede, lì dentro, in un campo di concentramento. In fondo non è questo il problema. Io – perché, sì, un film come questo chiama in causa ciascuno di noi e porta a usare la prima persona singolare – io che in un campo di concentramento non ci sono mai stato e forse non c’andrò mai, mi sono domandato cosa farei se mi trovassi al posto delle persone mostrate nel film. E non ho saputo darmi una risposta.
Perché in realtà ciò su cui il film intende ragionare è il senso della testimonianza e della memoria dell’orrore, nel momento in cui la possibilità di raccontarlo, questo orrore, diviene un problema morale.

Se le parole di Adorno sull’impossibilità di fare arte dopo la Shoah sono ancora attuali, e il bisogno di produrre testimonianza posto da Celan o Primo Levi è pur sempre vero, un concetto tanto eterogeneo e sfumato come quello del turismo, quando entra in contatto con un luogo tanto inconcepibile, sfugge a ogni teoria sull’etica e sull’estetica della memoria avanzate nel Novecento.
Loznitsa dimostra (e ammette nel pressbook del film) di non saper dare un giudizio su ciò che riprende, né di aver compreso esattamente di cosa si tratti. Per questo utilizza come strumento di avvicinamento e interpretazione il libro – da cui il film prende il nome – di Sebald.
Il film, analogamente, usa il filtro dell’architettura per comporre l’immaginario dell’orrore e del dolore con il quale viene a contatto. Gli edifici, che secondo Sebald conservano memoria e connotano visivamente e in maniera emozionale e concettuale un luogo, diventano allo stesso tempo strumenti di evocazione della memoria. Pongono in relazione un luogo con la storia che gli appartiene, e attraverso esso gli individui che vi entrano in contatto. Se il rapporto fra individuo e collettività nel romanzo è uno dei temi fondamentali, nel film l’attenzione maggiore sembra posta sul concetto di massificazione (mercificazione) dell’esperienza del dolore e del trauma.
Come nel precedente The Event (presentato alla Mostra dello scorso anno), in Austerlitz Loznitsa rinuncia a descrivere le cose in maniera precisa ed esaustiva e lascia che siano gli elementi in campo a determinare il racconto. Se là questo compito toccava ai volti e le facce dei protagonisti inconsapevoli della caduta del regime sovietico, qui sono proprio i luoghi, e per questo ogni inquadratura, ogni campo lungo e fisso a caricarsi di un valore testimoniale ricchissimo di metafore.

Ogni inquadratura costruisce e determina uno spazio, ogni prospettiva si fa dialettica e si dimostra capace di produrre senso (all’interno del totale non-senso). Il posizionamento a distanza, la frontalità e la presenza di una macchina che sta nascosta alla vista di chi le è di fronte (sono poche le volte nelle quali registriamo un sguardo in camera o in cui qualcuno dimostra di avvertire la presenza dell’operatore) ricordano le vedute dei fratelli Lumiére – il finale con l’uscita dei visitatori dal cancello del campo che reca la scritta “Arbeit Macht Frei” rievoca La Sortie de l’usine Lumière.
Ed è proprio sullo stile essenziale dei due inventori del cinema che è modulata l’intera operazione di Austerlitz. Non scegliendo un punto di vista e non volendo aderire a una prospettiva “interna”, Loznitsa, sapendo benissimo di non poter arrivare a produrre uno sguardo autentico, trova il modo di essere neutrale e di estromettere dal testo qualsiasi possibile caduta voyeuristica. In questo modo, i protagonisti del film, i turisti dell’orrore, non sono più elementi difformi e incongrui al contesto che li circonda, ma da soggetti che osservano diventano oggetti di uno sguardo. Omogeneizzandosi, di fatto, al luogo che li ingloba e caricando di un senso nuovo, diverso e ancora più atroce, il significato di memoria. Ormai del tutto sovrapponibile a quello di souvenir.

/www.cineforum.it/focus/Venezia_2016/Austerlitz-di-Sergei-Loznitsa

Fabrika

‪”Portrait”




АЯтЭL

AUSTERLITZ



In The Fog


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