Beppe Fenoglio : UNA CROCIERA AGLI ANTIPODI – La sposa bambina ed altro

UNA CROCIERA AGLI ANTIPODI e altri racconti … – BombaCarta

«Questa è un’antica storia, che ormai sa più di polvere che di salsedine, ma voglio raccontarla ugualmente, sebbene io ci faccia una meschina figura e tutto l’onore vada, com’è giusto, al vecchio marinaio Harry Bell che mi salvò la vita durante la crociera agli antipodi del 17…
Questa memorabile crociera della squadra del commodoro Earlwood fu per Harry Bell l’ultimo imbarco. Quando salpammo da Plymouth, aveva cinquantotto anni suonati, ben quaranta dei quali consumati nella flotta da guerra.
La squadra di Earlwood era formata dal “Diomedes”, dal “Valiant”, che batteva l’insegna del commodoro, e dal “Northumbria”.
Io avevo allora ventidue anni, mi facevo chiamare Bobby Snye e mi dicevo delle parti di Newbury; in realtà mi chiamavo Robert Wooland e venivo da Chichester. Al termine della presente narrazione rivelerò come e perché mi trovai imbarcato per quella crociera sul “Diomedes” (capitano Stimson).
Un’ora prima che si levasse l’ancora io venni letteralmente scaraventato in una stiva del “Diomedes” dove già si trovavano Harry Bell, il suo primo amico Tom Jackman, l’irlandese O’Shea, Chandler, Mullins e altri marinai di cui ho dimenticato i nomi. Avevo gli occhi gonfi di pianto e tremavo verga a verga. Tutti, compreso Harry Bell, si dissero che ero lampantemente una preda della “press gang” [la famigerata ronda che arruolava di forza gli uomini per il servizio navale: n. d. t.] e quando me ne chiesero rudemente conferma io balbettai qualcosa che non era una smentita. L’irlandese scoppiò a ridere e giurò che, tornati che fossimo dagli antipodi, il sergente della ronda che mi aveva impacchettato sarebbe finito sotto processo per grave oltraggio e danno arrecato alla marina. Tutti sghignazzarono con O’Shea, tranne Harry Bell, e in quel momento si udì sul ponte il fischietto del nostromo Jones.
Lamia prima uscita in coperta provò, se necessario, che non ero marinaio e non lo sarei diventato mai. Resistevo passabilmente al rollio, ma soffrivo alla nausea il puzzo del catrame. Quanto al mangiare, per due settimane vomitai alla prima cucchiaiata, spruzzando i compagni che ne ridevano o bestemmiavano. Non sapevo fare il più semplice dei nodi e ad ogni momento mi imbambolavo a guardarmi le mani annerite e piagate; quanto a lavorare sugli alberi, nemmeno il nostromo, nemmeno il gatto a nove code, riuscì mai a farmi salire oltre il primo pennone. Anche sul primo pennone, anche senza un filo di vento, mugolavo di terrore e quando finalmente riposavo i piedi sul ponte tremavo lungamente come se lassù avessi contratto il delirio.
Un giorno – navigavamo al largo delle Canarie – il nostromo Jones disse ad Harry Bell: – Bell, sgrossami un tantino questo inqualificabile Snye, sgrossamelo di quel tanto che noi non si debba arrossire in eterno di aver spartito un ponte con lui.
Rispose Harry Bell: – Già lo seguo e me ne interesso, senza che nessuno me l’avesse detto. Ma in quanto a fare di lui un marinaio, tranquillamente vi dico, nostromo, che alla fine di questa crociera non ne avremo cavato di più di quel che abbiamo cavato il primo giorno.
Al che il nostromo si fece gonfio e rosso come un tacchino e disse: – È questa la tua opinione, Harry Bell? Se non acquista un tantino sotto di te allora vuol dire che possiamo senz’altro frustarlo a morte oppure gettarlo fuoribordo agli squali. Se invece lo conserviamo, vorrà dire che se agli antipodi ci troveremo scarsi di viveri potremo mangiarcelo senza fare peccato mortale.
Non riferirò alcun altro fatto o discorso: il lettore si è già reso conto di quale calvario fu per me quella interminabile crociera agli antipodi; e passo subito al momento in cui divenni debitore di Harry Bell di questa vita che ha toccato, ora che scrivo, il suo sessantacinquesimo anno.
Ci fu una grande, straordinaria tempesta, il giorno in cui scadeva il sesto mese da quando eravamo partiti da Plymouth. Non domandatemi in qual punto dell’Atlantico ci trovassimo: sicuramente di molto a sud della Patagonia. La tempesta nacque nel tardo pomeriggio. Prese a tirare da sud-est un vento così forte che scavava l’oceano come un cucchiaio la minestra e sul filo delle ondate alte già quaranta piedi galoppavano branchi pazzi di schiuma. La temperatura si abbassò e la luce diminuì, sebbene i colori del lontano cielo rimanessero splendidi e fissi. C’era, ricordo, del rosso sangue, del verde giada e del giallo zolfo. D’un tratto presero a vorticare e a miscelarsi come in un mulinello e il risultato fu che il cielo assunse una tinta così sinistra da non poter reggere a fissarlo.
Harry Bell mormorò al suo amico Jackman: – Sbircia un attimo il cielo, Tom, e poi dimmi se non sei d’accordo con me che quello non è cielo per noi uomini. Così infatti, mi pare, doveva essere il cielo prima della nascita del nostro padre Adamo, e così immagino apparirà quando l’ultimo uomo sarà stato risucchiato in altra sfera.
Intanto dal “Valiant” segnalavano di manovrare in modo da ridurre il pericolo di collisioni. Alla murata di tribordo si adunarono alcuni dei più vecchi ed esperti marinai. Erano il secondo signor Strickyn, il nostromo Jones, Harry Bell, Tom Jackman, l’irlandese O’Shea e un paio d’altri. Urlavano, per sopraffare il vento..
Gridò il secondo: – I violini sono pronti e così i clarinetti, ma in fede mia io ne ho già abbastanza del preludio.
– Avete ragione, signor Strickyn! – urlò Jackman – ma nessuno potrà rifiutarsi di ballare. Oh, quanto preferirei di trovarmi nel più caldo di Salavera! [famosa battaglia navale vinta dall’immortale ammiraglio Lyttelton contro una coalizione franco-ispana: n. d. t.].
E il nostromo: – Ricordate, signor Stricklyn, la dannata tempesta allargo delle Faroer?
– Eccome! – urlò il secondo. Per colmo d’ironia ero imbarcato sul “Merryweather”! [letteralmente: “tempo felice”, nota nostra.]
– Ebbene – riprese Jones , – in quell’occasione pensai d’aver scontato il mio debito con l’ira del Signore. Per quel che riguarda l’aldiqua, beninteso. Ora però vedo che mi sbagliavo, e prego Dio di aver pietà dell’anima mia, se non della mia carcassa, e prego il re di voler pensionare la mia vecchia Susie.
E Harry Bell disse: – Dio aiuta gli uomini cui toccherà salire a riva nel colmo della tempesta.
– Solamente O’Shea non parlò, ma continuamente sputò in faccia all’oceano e gli faceva versacci.
Per le dieci della notte la tempesta era completa.
Cielo e mare si azzuffarono. Fulmini scoppiavano a mazzi.
La forza del vento era tale che strappò i fanali del “Diomedes” e roteandoli come palle di brace li scagliò oltre l’orizzonte. Gli alberi crepitavano, le vele tuonavano come cannoni d’assedio. Le onde erano alte cento piedi e le voragini che continuamente si aprivano potevano facilmente ingoiare interi villaggi con guglie e campanili.  I vascelli ci sparivano in un attimo e ne riaffioravano dopo un tempo infinito. Alla luce dei lampi si vide che il “Northumbria”, col timone spezzato, roteava come una trottola.
Manco a dirlo, io me ne stavo sottocoperta. Il fasciame rimbombava, amache e lanterne sbattevano, oggetti andavano e venivano a  seconda dell’inclinazione. Topi e bacherozzi erano usciti dai loro buchi e fissavano negli occhi gli uomini. I quali pregavano o imprecavano, cantavano o sospiravano.  Io singhiozzavo perdutamente, con la testa avviluppata in una coperta.
Verso la mezzanotte il boccaporto si spalancò e si affacciò, sprizzando acqua da tutti i pori, il nostromo Jones.
– O’Shea! – urlò, – Chandler, Mullins e Snye. Fuori, a lavorare a riva! Subito a riva o la nave è spacciata!
I chiamati si alzarono e salirono, io stramazzai sull’impiantito e lì andavo e venivo con gli altri oggetti, sempre con la testa incappucciata.
– Snye! – urlò Jones. – Tu salirai soltanto sul primo pennone. Fuori, verme schifoso!
Per tutta risposta io lancia uno strido acutissimo, che competeva con gli altri fragori della tempesta.
– Snye! O sali su quel pennone o ti ci impiccheremo!
Intanto il nostromo scendeva verso di me e un marinaio disse: – Spezziamogli il cranio, tanto è già bell’e incappucciato!
In quel momento risuonò la voce salvatrice di Harry Bell, il quale rientrava da quattro ore di fatiche e di rischi mortali in coperta.
– Io, – disse Hary Bell, – io prenderò il posto di Snye. E perché abbiate a guadagnarci nel cambio, salirò fino a riva.
– Non so perché lo fai, Harry Bell, – gridò il nostromo, – ma se vuoi farlo sbrigati! – e sparirono insieme sul ponte.
Fu appunto in quella salita a riva che si perdette O’Shea. La bufera lo strappò da un traversino e lo scagliò in mare a miglia di distanza.
Dopo trenta ore quella inaudita tempesta si placò e le tre navi accostarono per esaminarsi e medicarsi a vicenda. Io cercai di prendere in disparte Hary Bell per protestargli eterna riconoscenza, ma il vecchio non mi lasciò nemmeno incominciare e mi piantò in asso per presentarsi al nostromo Jones che accennava di volergli parlare.
– Harry Bell, – disse il nostromo, – non voglio domandarti perché hai fatto quello che hai fato per il turpe Bobby Snye, ma tu devi raccontarmi ciò che hai provato a riva nel colmo della tempesta.
– Ve lo racconterei, nostromo, se non mi trattenesse il timore che voi non crederete un’oncia quella che purtuttavia è la verità.
– Tu dimmi la tua verità, – rispose Jones tremendamente serio, – e io son pronto a ripeterla al capitano Stimson e allo stesso commodoro.
Allora Harry Bell gli raccontò, con tutta la concisione e insieme la minuziosità che un intenditore quale il nostromo meritava, della sua salita a riva e del lavoro che fece lassù nel colmo della più rande tempesta, a memoria di vecchio marinaio. E durante il lavoro a riva ebbe visioni.
. Visioni? – fece il nostromo.
– Visioni, – confermò Harry Bell, – o, per meglio dire, spettacoli. Spettacoli incredibilmente nitidi e calmi in quel caos mortale. Ma è proprio qui, nostromo, che non vorrete e non potrete credermi.
– Ti ripeto, Harry Bell: tu dimmi la tua verità e io sarò pronto a giurarla davanti ai Lords, sotto pena del capestro.
Allora Harry Bell riferì le sue visioni.
– Una volta che la nave s’impennò in cima all’onda più gigantesca, vidi il porto di Canton nella Cina. Laggiù faceva bel tempo e mare liscio. E vidi distintamente una squadra inglese entrare in porto, ma non potei leggere i nomi delle navi. E una volta che la nave sprofondò nella voragine più spaventosa, vidi chiaramente il popolo dei capodogli in cerimonia. Avevano eletto il loro re e stavano giusto incoronandolo; il tutto con grande pompa e dignità, proprio come facciamo noi a Westminster. E una volta che la nave ruotò su se stessa – per un terribile colpo di mare, probabilmente lo stesso che strappò quel povero irlandese matto – quella volta, dalla mia posizione pericolosissima ma estremamente privilegiata, potei vedere il cimitero del mio villaggio nello Staffordshire. E vidi la tribù dei miei fratelli, cognate e nipoti portare fiori e sorrisi alla tomba dei miei genitori, e dai sorrisi capii che i due vecchi erano morti da gran tempo.
Per il resto della crociera non accadde più nulla di lontanamente simile e, per non affliggere anima viva con la relazione dei miei particolari, incessanti dolori e disagi, passo immediatamente al nostro ritorno a Bristol ventotto mesi dopo la partenza da Plymouth, Informerò soltanto che il primo amico di Harry Bell, Tom Jackman, morì di malattia e venne sepolto in mare al largo della Guinea.
Sbarcai con Harry Bell dal “Diomedes” e dopo una sosta in un bar per l’ultimo rum accompagnai il vecchio all’Ospizio degli Ex-Marinai della Reale Flotta da Guerra. In vista dell’edificio Harry Bell posò a terra la sua sacca per salutarmi decentemente, ma io gli feci certo perder più tempo di quel che avesse preventivato.
– Hary Bell, – gli dissi, – non mi capacito che vi ritiriate in un ospizio. Indubbiamente questo è un onorevole ospizio e, a quel che vedo, i ricoverati portano una bellissima divisa rossa e turchina. Ma voi non siete un vecchio bisognoso. Siete sempre stato uomo temperato e certamente avete risparmiato bene. Come mai non ritornate al vostro villaggio nello Staffordshire? Forse che non potete vivere lontano dal mare?
– Non è qyesto, Bobby Snye, – mi rispose. -È che io non sono un illuso come Jimmy Barnet.
– Non vi ho mai sentito nominare questo Barnet – osservai.
– Fu l’uomo che io accompagnai a questo ospizio così come adesso tu ci hai accompagnato me. L’uomo che mi fu maestro sul mare. Ebbene, Jimmy Barnet si illuse di poter tornare a casa sua dopo quarant’anni di mare. Volle ritirarsi nel suo villaggio natio, a ducento miglia dalla costa più vicina. Metà della casa paterna gli spettava di diritto e Jimmy ci avrebbe abitato in comunione col fratello Clem maniscalco. “Mi piacerà”, diceva, da quel povero illuso che era, “mi piacerà dormire le mie ultime notti nel letto in cui mia madre mi partorì e sedere alla tavola dove mangiai lamia prima zuppa; e resterà pur qualcuno che fu ragazzo quando io ero ragazzo e con lui passeremo le serate. Berremo birra e vino drogato a seconda della stagione, io gli racconterò del mare e lui mi racconterà della terraferma, e sarà bello, immagino, sentirci un uomo intero fra tutt’e due”.
Harry Bell sospirò profondamente e proseguì:
Lo accompagnai alla diligenza per l’interno, gli sistemai il bagaglio e gli dissi: “Sta’ bene com’è giusto che tu stia, Jimmy Barnet, e ricordati che ti tutta la flotta del Re tu per me verrai sempre il primo”. Jimmy Barnet guardava al disopra della mia testa, al mare. Gli dava l’ultima occhiata, lunga sì, ma non esageratamente grave, senza affetto e senza rancore. Ci aveva consumato quassi tutta la vita e francamente ne aveva abbastanza, lo lasciava come alla fine si lascia un individuo estremamente interessante ma sostanzialmente equivoco con cui si è convissuto per tanti, troppi anni. Poi la diligenza partì.
– Benissimo, – dissi io stupidamente. – E perché mai, Harry Bell, non fate lo stesso di Jimmy Barnet che vi fu maestro sul mare?
Il vecchio si spazientì. – Tu sei molto svagato, mastro Snye. Non m’hai sentito che l’ho trattato da povero illuso? Ascolta il seguito più attentamente. Appena dieci giorni dopo lo ritrovai, col medesimo bagaglio, in una viuzza di Bristol, che cercava proprio di questo ospizio. Mentre ce lo accompagnavo, mi raccontò come erano andate le cose al paese. “Nulla di mio”, mi disse, “nulla di mio è rimasto lassù. Come entrammo nella valle mi sporsi dal finestrino e guardai a mezzacosta dove sorgeva la casa di nostro padre. Non vidi altro che qualche rudere affumicato. Scesi al presbiterio e con molta fatica mi diedi a conoscere.
Il pastore mi spiegò che la nostra casa era andata distrutta in un grande fuoco e, quanto a mio fratello Clem, da ben dodici anni era emigrato in America con tutta la famiglia. Pensa, Harry, che noi forse abbiamo incrociato la nave che ce lo portava. Il pastore si disse comunque contento che fossi tornato io, così qualcuno l’avrebbe finalmente aiutato a strappar la gramigna dalla tomba dei miei genitori.,  Io non volli saperne di più e mi sedetti sui gradini del presbiterio, ad aspettare la diligenza per l’ovest. E aspettando badavo a tener lontani con smorfie e versi i bambini troppo curiosi e intanto mi ripetevo: “Torno dai vecchi marinai che sono gli unici fratelli rimastimi al mondo, mi ritiro nell’ospizio di Bristol dove avrei dovuto fermarmi subito, non fossi stato un vecchio stupido illuso.”
Ciò detto, Harry Bell sogguardò il portale dell’ospizio per farmi intendere che per lui era il momento di separarci. Gli raccolsi la sacca ma prima di porgergliela gli feci quella tal domanda che non mi era stato possibile fargli da dopo quella straordinaria tempesta oceanica.
– Almeno ora mi spiegherete, Harry Bell, perché prendeste il mio posto a riva.
– Perché? – fece Harry Bell, strappandomi la sacca di mano. – Ma perché, Bobby Snye, eri un poveraccio impacchettato dalla ronda. E sul mare è giusto che ci muoia chi l’ha scelto.
Arrossi violentemente, ma per fortuna Harry Bell si era già avviato all’ospizio. Lo seguii con lo sguardo fino a che entrò nelle segreteria. Poi volsi le spalle all’ospizio, a Bristol, al mare, e camminavo verso Chichester, fermamente deciso ad arrivarci a piedi e, quel che più conta, a metter testa a partito per il resto della mia vita.
Infatti, non ero finito nella flotta e sul “Diomedes” perché acciuffato dalla barbara “press gang”. Ero l’unico figlio di un agiato e stimatissimo cittadino di Chichester, troppo tenero e liberale con me che avevo bassi sentimenti e cattive inclinazioni. Tra i diciotto e i ventun anni ne combinai tante e tali che alla fine il mio pur amorosissimo genitore non solo mi serrò la borsa ma fece emettere dal magistrato un’ordinanza per cui non potevo allontanarmi più di un miglio dalla città di Chichester. Di questa ingiunzione non mi preoccupai eccessivamente, anche perché ero riuscito a corrompere il conestabile. Prova ne sia che il guaio più grosso e fatale lo combinai a Towbridge, a trenta miglia da Chichester. A Towbridge, in una nottata persi al gioco cinquanta ghinee che avevo fraudolentemente riscosso da un debitore di mio padre e, peggio, ne persi altre cento che mi prestò un certo usuraio che era nel contempo spadaccino e biscazziere. Non trovai il coraggio di presentarmi e confessarmi a mio padre, non avevo nessun mezzo di soddisfare altrimenti quel terribile debito e d’altra parte mi era stato concesso brevissimo respiro, e in un tale stile da darmi gli incubi diurni. E così, per farla corta, quando si trovò a fuggire per la strada di Newbury inseguito da quel tal creditore coi suoi scagnozzi armati di coltelli e bastoni animati, il vostro Bobby Snye non ebbe altro scampo che saltare sul carrozzone che portava a Plymouth le reclute della marina.»

Una crociera agli antipodi e altri racconti fantastici Beppe Fenoglio

La sposa bambina

Quando tornò, c’era con lui l’uomo di Catinina. Col panettiere testimone, le promise il lume a petrolio per subito e di farle il poggiolo, tempo sei mesi.

Catinina il lume a petrolio l’ebbe subito, e poi anche il poggiolo, ma dopo

un anno buono, che lei aveva già un bambino sulle braccia. Perché Catinina non era la donna che per aver la grazia dei figli deve andarsi a sedere sulla santa pietra alla Madonna del Deserto e pregare tanto. Questo primo figlio, dei nove che ne comprò nella sua stagione, l’addormentava alla meglio in una cesta e poi subito correva sotto l’ala a giocare a tocco e spanna con quei maschi di prima. Dopo un po’ il bambino si svegliava e strillava da farsi saltare tutte le vene, finché una vicina si faceva sull’uscio e urlava a Catinina: «O disgraziata, non senti la tua creatura che piange? Vieni a cunarlo , o mezza zingara!» Da sotto l’ala Catinina alzava una mano con una bilia tra il pollice e l’indice e rispondeva gridando: «Lasciatemi solo più giocare questa bilia!» :  B. Fenoglio, La sposa bambina  in Un giorno di fuoco e altri racconti

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