pdf Misteriosa Buenos Aires – Il salone dorato ita – El hombrecito del azulejo (Cuento) : Manucho

PDF]Misteriosa Buenos Aires

 

Dopo il racconto inaugurale, pubblichiamo oggi quello finale della raccolta Misteriosa Buenos Aires, «Il salone dorato», dello scrittore argentino Manuel Mujica Láinez.

Il salone dorato (1904)

di Manuel Mujica Láinez
traduzione di Mariana Califano

Sono cinque giorni che la signorina Matilde ha smesso di esistere e il salone dorato nel quale occupava così poco posto, tremula con il suo eterno ricamare nell’angolo delle vetrine, sembra ancora più enorme, come se la sua fragile assenza accentuasse la solitudine degli oggetti riuniti lì, convocati lì misteriosamente per quel congresso della bruttura di lusso che si tiene nelle grandi sale vecchie. Eppure niente è cambiato di posto. Niente è cambiato nel salone dalle cimase rampanti, nel corso degli ultimi quindici anni, da quando in esso hanno sistemato il letto impossibile della signora Sabina, interamente decorato con dipinti al Vernis Martin, e da quando in esso si è installata, eretta sui cuscini, la vecchia signora. Tutto è identico: il camino di marmo e bronzo, i bronzi e i marmi distribuiti su tavoli e consolle, le sciocche porcellane delle vetrine; il tendaggio damascato verde che cinge il diadema vittoriano della mantovana; i terribili mobili, invasori, sempre pronti allo sgambetto traditore, che alternano le dorature ai velluti e di cui spalliere e profili si incavano, si curvano, si increspano e folleggiano con la prolissità degli ornamenti bastardi.

La presenza del letto ha smesso di inquietare i suoi numerosi vicini. In quindici anni hanno avuto tempo di abituarsi a esso e al fatto che la sua incorporazione abbia trasformato la stanza in qualcosa di ibrido, qualcosa che non è né salone né camera da letto. Per merito di quello spostamento, la sala che solo si apriva di tanto in tanto, per i ricevimenti, ha raggiunto un’esistenza di insperata novità. In essa, nel corso di tre lustri, tre persone hanno convissuto: la signora Sabina nel letto distante, come un sovrano sul trono; la signorina Matilde di fianco al telaio, accanto al camino d’inverno, vicino alla finestra quando il calore si faceva opprimente; e Ofelia, la governante, che entrava e usciva, senza sistemare troppo perché la signora non vuole che si tocchino le sue cose. E nessun altro: in quindici anni, fatta eccezione per alcune rare visite, fatta eccezione per qualche medico, nessuno è mai entrato nella sala di via San Martín. La sordità crescente della signora Sabina ha finito per isolarla. E il suo carattere pure: il suo carattere autoritario, egoista, geloso, lamentoso. E così la vita infusa dalle tre donne all’ampio alloggio, è stata curiosamente statica, come se anche loro fossero tre mobili bizzarri aggiunti a quell’assemblea barocca.

La signorina Matilde ricamava, la signora leggeva; Ofelia attizzava il fuoco, compariva con il servizio da tè d’argento, tirava le tende al tramonto. La signorina Matilde ricamava sempre fiori e uccellini sui foulard, la signora leggeva, tra sospiri profondi, romanzi che si intitolavano “I misteri dell’Inquisizione” o “La verità di un epitaffio” o “La Marchesa di Bellaflor” o “La vergine di Lima”. A volte sollevava le palpebre venose, perché indovinava la presenza della governante accanto a sé. Aveva imparato a capire quello che le dicevano, dal movimento delle labbra. La signora Sabina dava un ordine. Lei li dava tutti. Sua nipote – la signorina Matilde – non poteva nulla, non significava nulla nel salone. E così, per un giorno che durò quindici anni, da quando la signora subì quel gravissimo attacco che, per quattordici mesi, le mantenne in bilico tra la morte e la vita, finché la vita ebbe la meglio e, paralizzata, sorda, la portarono nel salone le cui finestre si affacciano su via San Martín.

L’idea fu del dottor Giménez, il giovane medico che l’aveva in cura all’epoca. Visto che non poteva abbandonare i suoi alloggi, dopo quella lunga ed estenuante lotta con la morte, la cosa migliore era che passasse le sue ore nella stanza che amava di più, quella in cui aveva radunato più ricordi. In quel modo non avrebbe avuto l’impressione di essere rinchiusa nella sua alcova, ma di continuare a presidiare il suo salone delle feste. Alla signora Sabina l’idea piacque. Le piaceva tutto quello che poteva conferirle un’aura di stravaganza, di capriccio, di esclusività. Così era lei: esclusiva, distinta. Per questo, invece di raccogliere i capelli radi, che nel tempo aveva sostituito con un tupé, in una cuffia, annodava una sorta di turbante di garza il cui colore cambiava tutti i giorni.

I primi tempi la adagiavano faticosamente su una sedia a rotelle, che spingevano al centro della stanza, ma immediatamente, su consiglio del medico, lasciarono perdere. Dove sarebbe stata più comoda la signora Sabina se non nel suo letto, accerchiata da cuscini, da stole di merletti, da fiocchi, da fazzoletti, con i libri a portata di mano? Alla signora piacque anche quello. Le sembrava che quanto meno la muovessero e la agitassero, tanto più sarebbe stata sovrana del suo piccolo stato, governato da quel letto solo in virtù della sua differenza, della sua arbitraria intromissione in un salone dei ricevimenti; e ancor di più per la circostanza -sottilissima- per cui solo lei poteva occupare, tra tanti mobili, quel mobile intruso, orgoglioso, gerarchico. Usava la sua sedia a rotelle solo la mattina, quando la portavano a fare il bagno nella stanza accanto.

Infine il dottor Giménez insinuò nel suo animo la convenienza del fatto che per governare la sua immensa casa popolata da domestici, la signora Sabina si avvalesse dell’intermediazione della sua governante. Per quale motivo avrebbero dovuto infastidirla quotidianamente il suo maggiordomo, il suoi cuoco, il suo portiere, la sua servitù, se non poteva sentirli? E per di più questo non avrebbe fatto altro che irritarle i nervi: i suoi nervi che era doveroso coccolare molto.

Anche questa proposta piacque alla signora. Il giovane medico la comprendeva decisamente. Poco a poco, i domestici smisero di presentarsi nel salone dorato. E quando si affacciavano, la signora tuonava: che parlassero con Ofelia, che si accordassero con Ofelia. Lei non aveva bisogno di loro nei suoi alloggi; avevano troppo da fare nel resto di quella casa sontuosa, in cui la seconda sala, la “hall”, la sala da pranzo, la sala da biliardo precedevano la serie di stanze da letto, tutte piene come quel salone, di una fauna e di una flora immobile di mobili, di mobili, di mobili, di tappeti, di tappezzerie, di specchi, di quadri, di vasi, di tende accigliate di nappe, di statue di gladiatori e paggi e di altri mobili e di altri mobili, come consono alla posizione sociale della signora a Buenos Aires. E ora la signorina Matilde è morta. Da cinque giorni. La signorina Matilde, che era come un topolino grigio.

La signora pensa a lei, vagamente, pigramente, in questa domenica mattina. Il volto carnoso, il violento profilo borbonico, si stagliano sui cuscini, tra i merletti e l’arabesco delle iniziali. Prende il corposo romanzo (“Le rovine del mio convento” di Fernando Patxot) e s’immerge nella lettura. Ma non riesce a leggere. Ogni istante, la figura di sua nipote si infila nel groviglio dei capitoli e passeggia, con i suoi occhioni viola, con il suo chingon stretto, con le sue mani agili, tra i personaggi confabulanti che si nascondono nelle catacombe per dibattere su questioni morali e che sostengono dispute furibonde mentre risuona la campana del monastero. La signorina Matilde, che era come un topolino grigio… La signorina Matilde, che ricama, ricama… Ipocrita!

C’è qualcosa che la signora Sabina non le ha mai perdonato ed è il filarino con il dottor Giménez: l’“affaire”, come l’aveva chiamato allora, impennando la voce da soprano.

Successe quasi subito dopo che la sistemarono nella sala dorata. Durante i quattordici mesi precedenti -quelli in cui sembrava che stesse per lasciare questo mondo- la signora visse in uno stato di semi-incoscienza, ignara di quello che le succedeva attorno. Con il miglioramento riprese lucidità, e la signora Sabina cominciò a vederci chiaro: tra la signorina Matilde e il dottore c’era “qualcosa”; qualcosa di ancora indefinibile, ma comunque qualcosa. Quando il medico entrava, l’anziana spiava sua nipote e la vedeva abbassare le palpebre sul telaio come se fuggisse lo sguardo di Giménez, che era giovane e aitante e indossava una redingote impeccabile. Il medico allungava le visite con vari pretesti. All’inizio la signora Sabina credeva lo facesse perché era interessato ai suoi racconti. Era stata famosa nei salotti bonaerensi per l’arte della narrazione. Così dispiegò per lui i fuochi d’artificio, le vecchie storie che ricamava con gesti ed esclamazioni: il racconto di quando conobbe l’Imperatrice Eugenia a Parigi, durante l’Esposizione Universale del 67 (“da queste parti, solo Carlotta Romero poteva vantare spalle come le sue); il racconto dell’assassinio di Felicitas Guerrero de Álzaga, nel 1872; quello del matrimonio di Fabián Gómez con la Gavotti, nel 1869. Sul conto di Fabián Gómez era a conoscenza di dettagli inauditi, visto il suo legame con gli Anchorena e con i Malaver. Rievocandolo, erigeva una sorta di castello favoloso enumerando le varie proprietà della signora Estanislada e poi si precipitava a riferire le avventure del Conte del Castaño, soprattutto quella del pranzo in cui una celebre “cocotte”, Cora Pearl, (la signora abbassava la voce) emerse nuda da uno sformato di pasta sfoglia.

Un giorno in cui, per la seconda volta, recitava l’episodio per il dottor Giménez, sorprese nello specchio lo sguardo d’intesa scambiato tra il medico e sua nipote. Si sentì immediatamente come se le si fosse gelato il cuore e la sua gelosia, impetuosa, montò mentre proseguiva nella descrizione (“Fabián dovette regalarle una collana con dodici fili di perle per convincerla a farlo”). Il dottore rise e la signora Sabina indovinò sulle sue labbra parole gentili, ma l’incantesimo si era spezzato. Le avevano inferto la piaga peggiore:  ferire in piena civetteria. Appena il dottor Giménez uscì dalla stanza, disse di essersi stufata di quel medico e che voleva provarne un altro. Inutili furono le obiezioni della signorina Matilde (“quell’ipocrita”) e di Ofelia (“quella stupida”). Si rifiutò di accoglierle e sprofondò nel suo libro respirando pesantemente. Più tardi fece una scenata atroce a sua nipote per un motivo futile e Giménez non fece più ritorno alla casa di via San Martín.

La signorina Matilde… la signorina Matilde… sempre nel suo angolo, che ricama, ricama… Commediante! Di sicuro stava calcolando che un giorno avrebbe potuto ereditare, e che quella casa e le carrozze e la fortuna le sarebbero potute appartenere. E ora è morta… è morto il topolino grigio.

Ah, meglio non pensare alle cose tristi, alle disgrazie, al calcolo, all’incomprensione… Oggi è domenica. La signora farà il suo bagno caldo e, di nuovo a letto, reciterà le sue preghiere. Poi riprenderà la lettura truculenta di Patxot, che agisce come un narcotico, perché altrimenti si ossessionerebbe e finirebbe per vedere il piccolo fantasma di sua nipote con il solitario telaio, che ricama, ricama…

Ofelia la solleva con le sue braccia robuste e la porta in bagno con la sedia a rotelle.

Ofelia… Ora rimarranno faccia a faccia, fino alla fine… Ma così la lotta sarà più equilibrata. Prima erano due contro una: due cospiratrici ad affrontare la signora ricca, sorda, invalida.

Ofelia, con la sua mascolina bruschezza… taciturna, severa… Avrebbe dovuto sbarazzarsi di lei da anni. Ma a quel punto è impossibile. Ma forse adesso farebbe comodo che qualcun altro entrasse nel salone dorato, perché altrimenti finirebbe per perdere la ragione e per gridare in mezzo al mobilio indifferente e pomposo. Chissà, forse sarebbe un bene aprire le porte a quei domestici che servono in casa sua da tanti anni, alcuni dei quali non conosce nemmeno. Mentre ci pensa, la sua vanità si infiamma con la passione dell’altera figura che mette in scena da quando si è ammalata. No: la signora Sabina non riceve nessuno, nessuno. A Buenos Aires non c’è nessuno di così originale, così esclusivo come la signora Sabina.

Che commenti faranno a Buenos Aires? Cosa diranno della signora eccentrica di via San Martín, asserragliata dietro le sue statue, i suoi divani, le sue poltrone, i suoi armadi?

Ofelia… Ofelia… Ofelia è come un uomo. A nessuno verrebbe da pensare a lei come una donna. E quanto ha voluto bene alla signorina Matilde! Anche questo, la signora aveva indovinato. Doveva indovinare tutto, perché vivevano recitando, nascondendole tutto. Forse le voleva troppo bene… davvero troppo… vai a sapere!… Ma adesso il topolino grigio è morto…

Ofelia le friziona dolcemente le spalle con un profumo raffinatissimo, le mette la vestaglia, la incipria, le sistema il turbante trasparente, la adagia sulla sedia a rotelle. Tornano in sala molto lentamente. La signora Sabina la abbraccia con gli occhi sporgenti. Ah, non sentirà nulla, ma ci vede benissimo, vede persino l’ultima minuzia, l’oggetto più piccolo delle sue vetrine piene zeppe! Che bello è il salone dorato, il salone dei grandi ricevimenti! Mansilla le ha detto proprio in quella stanza che in tutta Buenos Aires non esiste un salotto così europeo. In fondo all’alloggio, tra il ritratto di suo padre, il generale, e quello di sua madre, con il pettine grazioso, le porte di quercia sono entrambe spalancate.

-Che cosa significa?- chiede stupita -Chi ha dato l’ordine di aprire?

Volta il viso alla ricerca del disegno della risposta sulle labbra della governante, ma la faccia rigida rimane impassibile. Ofelia spinge la sedia fino al centro del salone, scansando i tavoli ricolmi di ventagli e di gruppi di porcellane di Sassonia. La signora Sabina contorce la faccia tosta da vecchia principessa e agita le mani sulle quali gli anelli si posano come scarabei verdi e azzurri.

-Ha perso il lume della ragione? Dove mi porta?

Ofelia fa ruotare la sedia. Vanno fino alle porte di quercia, fino alla “hall” in stile Francesco I, illuminata da un lucernario per i cui vetri multicolore passeggiano dee incoronate d’alloro.

La signora si dibatte, indignata, ma comprende che se vuol mantenere almeno la parvenza del comando, la cosa più assennata sarà quella di stare in silenzio. Così, strabuzzando gli occhi, dichiara: – Ha ragione. È tempo che veda come va casa mia.

In verità, prova un’improvvisa nostalgia della sua casa immensa, che non percorre da quindici anni e nel cui cuore si è ritirata in clausura come un’assurda Bella Addormenta protetta da una selva di mobili e arazzi.

-Ha ragione, Ofelia. Mi sembra che…

La sua voce tentenna perché sono arrivati nella “hall” e non la riconosce.

Al posto della luce ingioiellata proiettata dalla mitologia del lucernario, una triste penombra si stringe negli angoli e fluttua nell’aria. Istintivamente, guarda verso l’alto: larghe macchie nere oscurano il “vitraux”. I suoi occhi si abituano piano piano alla tenebra.

-E il lampadario?- grida-. E i bauli?

Perché il lampadario colossale, nel cui bronzo ridevano i fauni, non pende più dal tetto e i bauli intarsiati non sono più allineati contro il damasco rosso delle pareti.

La signora Sabina dà libero sfogo ai suoi nervi. Le unghie curate si contraggono sui braccioli della sedia.

-Dove sono, Ofelia, dov’è tutto? Dove sono i quadri?

I quadri accavallavano le loro cornici scolpite fino al soffitto. Uno di essi raffigurava Napoleone che premiava un granatiere della sua guardia; un altro raffigurava l’interno di un atelier in cui una modella pudica si riscaldava accanto al fuoco; un altro un prete che conversava con la sua marchesa; un altro… un altro… Ma non ce n’è nessuno. Non c’è niente: né quadri né mobili, né lampadario né arazzi. Solo un tavolo rotondo e qualche sedia spaiata a mettere in evidenza l’ampiezza spoglia della stanza.

L’anziana impotente scruta la fisionomia di Ofelia.

-Dov’è tutto quanto, ladra? Dove sono i domestici? Chiami i domestici!

Alza la voce:

-Vediamo! Qualcuno, qualcuno! Venite!

Nel frattempo, la sedia ruota lentamente. La governante la ferma davanti alla porta che dà sulla sala da pranzo. Sul pannello centrale è inchiodato un cartello: «Bruno Digiorgio, sarto.»

Entrano. I campioni di stoffa sono impilati sul bancone; i manichini circondano la stufa, sopra la quale rimane, come un ironico testimone, la tela dipinta della “Corsa di Atalanta” nell’imitazione di un gobelino. Qui c’è più luce. La signora Sabina si accorge che le labbra di Ofelia si muovono e decifra le sue parole:

-Sì è iniziato a vendere tutto quindici anni fa, quando lei era molto malata. All’epoca cominciò la rovina.

-Come la rovina? Quale rovina?

La signora si strappa la parrucca e disfa il turbante. Sono di nuovo nella “hall”. Sulla porta della sala da biliardo, un altra targa riporta: «Valentín Fernández e soci. Vendite all’asta e mediazioni.» e quella della seconda sala dice: «Azcona. Realizzazione di oggetti artistici.» E così le scritte si moltiplicano di stanza in stanza. Ai piedi della scala, la cui base era nobilitata da un menestrello di marmo, scomparso come tutto il resto degli oggetti e dei mobili, si ammucchiano i cartelli e le frecce che indicano fino in cima. «Mlle. Saintonge, cappelleria», «Carmen Torres, fiori artificiali», «Gutiérrez e Morandi, fotografi», e un altro battitore d’asta e un pittore e «il Ricamo Francese» e «Loperena, liutaio.»

Un tic scuote la signora Sabina.

-La signorina Matilde- ricalca Ofelia, imperturbabile- lavorava per «il Ricamo Francese»- Grazie a lei e all’affitto delle stanze, lei ha potuto continuare a vivere nella casa.

-Ma… Con che diritto…? Come mai non sono stata messa al corrente? Con che diritto…?

-I medici dissero che saperlo le sarebbe stato fatale. E più passava il tempo più le cose andavano peggiorando. Il male veniva da lontano, dai tempi di suo fratello. Lei ha speso molto. Le ipoteche… l’amministrazione…

-Dovevate dirmelo!

-Ho insistito centinaia di volte affinché glielo dicessero, ma non c’è stato nulla da fare. La signorina Matilde si opponeva.

-Quell’audace impicciona, a risolvere le cose!

Ofelia dà un taglio alle parole e un ghigno le contrae i lineamenti mascolini:

-La signorina Matilde era una santa. Quando il dottor Giménez volle sposarsi con lei, lo respinse per non lasciarla da sola.

La signora soffoca un sospiro. La sua vecchia gelosia è lì, verde, vibrante, tanto forte quanto lo sconcerto che la travolge.

Tornano indietro attraverso la squallida “hall”. A un’estremità il salone dorato brilla, cortigiano; di qua c’è la foschia, l’impurità, la distruzione, il damasco macchiato di umidità, i cristalli sporchi, la solitudine domenicale di quella casa che lunedì si riempirà di estranei, senza padroni.

La signora Sabina non toglie gli occhi dalle labbra di Ofelia, dalla faccia di Medusa di Ofelia.

-La signorina Matilde era una santa. Viveva per lei, per non farla soffrire.

E Ofelia scoppia a piangere, in un pianto grottesco, un pianto da uomo disperato.

Il salone delle feste, con il letto laccato Vernis Martin sul fondo, fa pensare a una magnifica nave, una galera cui la tormenta ha obbligato a gettare l’ancora in un porto nebbioso, abitato da gente miserabile, rapace, ostile.

Come risplendono le porcellane nelle vetrine, il girotondo delicato di pastori e musicanti!  Come risplendono gli specchi e il tappeto Aubusson e le sedie e le lampade che indicano il cammino fino al letto ricoperto di pelli e merletti, fino al romanzo di Fernando Patxot e ai profumi mescolati sul comodino!

Ma la signora non scosta lo sguardo dalla bocca di Ofelia. Non vede il salone dorato in cui il camino canta dolcemente. Non vede altro che la bocca di Ofelia.

-Io me ne vado, signora Sabina. Devo annunciarle che me ne vado. Me ne vado oggi stesso. È già tutto sistemato.

-Se ne va? Lei se ne va? È matta?

-Sì, signora Sabina, me ne vado. Io non sono una santa. La signorina Matilde era una santa. Viveva per lei, per il suo egoismo. Io non potrei. Non voglio farlo.

La governante le volta le spalle. Si allontana. E la signora sorda si mette a gridare, a gridare, e la sua voce acuta attraversa il salone dorato e vola attraverso le stanze vuote, tra i manichini impalati di Bruno Digiorgio, tra i cappelli meravigliosi come fruttiere, tra le macchine fotografiche e gli orribili fiori artificiali, tra le dee di vetro e i violini che dormono. Lunedì la casa si riempirà di nemici. Dovrà resistere fino a lunedì, da sola nel salone dorato insidiato dalle altre stanze, come animali grigi e neri, come lupi e iene attorno a un grande fuoco.

http://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/18-01-2013/misteriosa-buenos-aires/

El hombrecito del azulejo

[Cuento – Texto completo.]

Manuel Mujica Láinez


Los dos médicos cruzan el zaguán hablando en voz baja. Su juventud puede más que sus barbas y que sus levitas severas, y brilla en sus ojos claros. Uno de ellos, el doctor Ignacio Pirovano, es alto, de facciones resueltamente esculpidas. Apoya una de las manos grandes, robustas, en el hombro del otro, y comenta:

-Esta noche será la crisis.

-Sí -responde el doctor Eduardo Wilde-; hemos hecho cuanto pudimos.

-Veremos mañana. Tiene que pasar esta noche… Hay que esperar…

Y salen en silencio. A sus amigos del club, a sus compañeros de la Facultad, del Lazareto y del Hospital del Alto de San Telmo, les hubiera costado reconocerles, tan serios van, tan ensimismados, porque son dos hombres famosos por su buen humor, que en el primero se expresa con farsas estudiantiles y en el segundo con chisporroteos de ironía mordaz.

Cierran la puerta de calle sin ruido y sus pasos se apagan en la noche. Detrás, en el gran patio que la luna enjalbega, la Muerte aguarda, sentada en el brocal del pozo. Ha oído el comentario y en su calavera flota una mueca que hace las veces de sonrisa. También lo oyó el hombrecito del azulejo.

El hombrecito del azulejo es un ser singular. Nació en Francia, en Desvres, departamento del Paso de Calais, y vino a Buenos Aires por equivocación. Sus manufactureros, los Fourmaintraux, no lo destinaban aquí, pero lo incluyeron por error dentro de uno de los cajones rotulados para la capital argentina, e hizo el viaje, embalado prolijamente el único distinto de los azulejos del lote. Los demás, los que ahora lo acompañan en el zócalo, son azules corno él, con dibujos geométricos estampados cuya tonalidad se deslíe hacia el blanco del centro lechoso, pero ninguno se honra con su diseño: el de un hombrecito azul, barbudo, con calzas antiguas, gorro de duende y un bastón en la mano derecha. Cuando el obrero que ornamentaba el zaguán porteño topó con él, lo dejó aparte, porque su presencia intrusa interrumpía el friso; mas luego le hizo falta un azulejo para completar y lo colocó en un extremo, junto a la historiada cancela que separa zaguán y patio, pensando que nadie lo descubriría. Y el tiempo transcurrió sin que ninguno notara que entre los baldosines había uno, disimulado por la penumbra de la galería, tan diverso. Entraban los lecheros, los pescadores, los vendedores de escobas y plumeros hechos por los indios pampas; depositaban en el suelo sus hondos canastos, y no se percataban del menudo extranjero del zócalo. Otras veces eran las señoronas de visita las que atravesaban el zaguán y tampoco lo veían, ni lo veían las chinas crinudas que pelaban la pava a la puerta aprovechando la hora en que el ama rezaba el rosario en la Iglesia de San Miguel. Hasta que un día la casa se vendió y entre sus nuevos habitantes hubo un niño, quien lo halló de inmediato.

Ese niño, ese Daniel a quien la Muerte atisba ahora desde el brocal, fue en seguida su amigo. Le apasionó el misterio del hombrecito del azulejo, de ese diminuto ser que tiene por dominio un cuadrado con diez centímetros por lado, y que sin duda vive ahí por razones muy extraordinarias y muy secretas. Le dio un nombre. Lo llamó Martinito, en recuerdo del gaucho don Martín que le regaló un petiso cuando estuvieron en la estancia de su tío materno, en Arrecifes, y que se le parece vagamente, pues lleva como él unos largos bigotes caídos y una barba en punta y hasta posee un bastón hecho con una rama de manzano.

-¡Martinito! ¡Martinito!

El niño lo llama al despertarse, y arrastra a la gata gruñona para que lo salude. Martinito es el compañero de su soledad. Daniel se acurruca en el suelo junto a él y le habla durante horas, mientras la sombra teje en el suelo la minuciosa telaraña de la cancela, recortando sus orlas y paneles y sus finos elementos vegetales, con la medialuna del montante donde hay una pequeña lira.

Martinito, agradecido a quien comparte su aislamiento, le escucha desde su silencio azul, mientras las pardas van y vienen, descalzas, por el zaguán y por el patio que en verano huele a jazmines del país y en invierno, sutilmente, al sahumerio encendido en el brasero de la sala.

Pero ahora el niño está enfermo, muy enfermo. Ya lo declararon al salir los doctores de barba rubia. Y la Muerte espera en el brocal.

El hombrecito se asoma desde su escondite y la espía. En el patio lunado, donde las macetas tienen la lividez de los espectros, y los hierros del aljibe se levantan como una extraña fuente inmóvil, la Muerte evoca las litografías del mexicano José Guadalupe Posada, ese que tantas “calaveras, ejemplos y corridos” ilustró durante la dictadura de Porfirio Díaz, pues como en ciertos dibujos macabros del mestizo está vestida como si fuera una gran señora, que por otra parte lo es.

Martinito estudia su traje negro de revuelta cola, con muchos botones y cintas, y la gorra emplumada que un moño de crespón sostiene bajo el maxilar y estudia su cráneo terrible, más pavoroso que el de los mortales porque es la calavera de la propia Muerte y fosforece con verde resplandor. Y ve que la Muerte bosteza.

Ni un rumor se oye en la casa. El ama recomendó a todos que caminaran rozando apenas el suelo, como si fueran ángeles, para no despertar a Daniel, y las pardas se han reunido a rezar quedamente en el otro patio, en tanto que la señora y sus hermanas lloran con los pañuelos apretados sobre los labios, en el cuarto del enfermo, donde algún bicho zumba como si pidiera silencio, alrededor de la única lámpara encendida.

Martinito piensa que el niño, su amigo, va a morir, y le late el frágil corazón de cerámica. Ya nadie acudirá cantando a su escondite del zaguán; nadie le traerá los juguetes nuevos, para mostrárselos y que conversen con él. Quedará solo una vez más, mucho más solo ahora que sabe lo que es la ternura.

La Muerte, entretanto, balancea las piernas magras en el brocal poliédrico de mármol que ornan anclas y delfines. El hombrecito da un paso y abandona su cuadrado refugio. Va hacia el patio, pequeño peregrino azul que atraviesa los hierros de la cancela asombrada, apoyándose en el bastón. Los gatos a quienes trastorna la proximidad de la Muerte, cesan de maullar: es insólita la presencia del personaje que podría dormir en la palma de la mano de un chico; tan insólita como la de la enlutada mujer sin ojos. Allá abajo, en el pozo profundo, la gran tortuga que lo habita adivina que algo extraño sucede en la superficie, y saca la cabeza del caparazón.

La Muerte se hastía entre las enredaderas tenebrosas, mientras aguarda la hora fija en que se descalzará los mitones fúnebres para cumplir su función. Desprende el relojito que cuelga sobre su pecho fláccido y al que una guadaña sirve de minutero, mira la hora y vuelve a bostezar. Entonces advierte a sus pies al enano del azulejo, que se ha quitado el bonete y hace una reverencia de Francia.

-Madame la Mort…

A la Muerte le gusta, súbitamente, que le hablen en francés. Eso la aleja del modesto patio de una casa criolla perfumada con alhucema y benjuí; la aleja de una ciudad donde, a poco que se ande por la calle, es imposible no cruzarse con cuarteadores y con vendedores de empanadas. Porque esta Muerte, la Muerte de Daniel, no es la gran Muerte, como se pensará, la Muerte que las gobierna a todas, sino una de tantas Muertes, una Muerte de barrio, exactamente la Muerte del barrio de San Miguel en Buenos Aires, y al oírse dirigir la palabra en francés, cuando no lo esperaba, y por un caballero tan atildado, ha sentido crecer su jerarquía en el lúgubre escalafón. Es hermoso que la llamen a una así: “Madame la Mort.” Eso la aproxima en el parentesco a otras Muertes mucho más ilustres, que sólo conoce de fama, y que aparecen junto al baldaquino de los reyes agonizantes, reinas ellas mismas de corona y cetro, en el momento en que los embajadores y los príncipes calculan las amarguras y las alegrías de las sucesiones históricas.

-Madame la Mort…

La Muerte se inclina, estira sus falanges y alza a Martinito. Lo deposita, sacudiéndose como un pájaro, en el brocal.

-Al fin -reflexiona la huesuda señora- pasa algo distinto.

Está acostumbrada a que la reciban con espanto. A cada visita suya, los que pueden verla -los gatos, los perros, los ratones- huyen vertiginosamente o enloquecen la cuadra con sus ladridos, sus chillidos y su agorero maullar. Los otros, los moradores del mundo secreto -los personajes pintados en los cuadros, las estatuas de los jardines, las cabezas talladas en los muebles, los espantapájaros, las miniaturas de las porcelanas- fingen no enterarse de su cercanía, pero enmudecen como si imaginaran que así va a desentenderse de ellos y de su permanente conspiración temerosa. Y todo, ¿por qué?, ¿porque alguien va a morir?, ¿y eso? Todos moriremos; también morirá la Muerte.

Pero esta vez no. Esta vez las cosas acontecen en forma desconcertante. El hombrecito está sonriendo en el borde del brocal, y la Muerte no ha observado hasta ahora que nadie le sonriera. Y hay más. El hombrecito sonriente se ha puesto a hablar, a hablar simplemente, naturalmente, sin énfasis, sin citas latinas, sin enrostrarle esto o aquello y, sobre todo, sin lágrimas. Y ¿qué le dice?

La Muerte consulta el reloj. Faltan cuarenta y cinco minutos.

Martinito le dice que comprende que su misión debe ser muy aburrida y que si se lo permite la divertirá, y antes que ella le responda, descontando su respuesta afirmativa, el hombrecito se ha lanzado a referir un complicado cuento que transcurre a mil leguas de allí, allende el mar, en Desvres de Francia. Le explica que ha nacido en Desvres, en casa de los Fourmaintraux, los manufactureros de cerámica. “rue de Poitiers”, y que pudo haber sido de color cobalto, o negro, o carmín oscuro, o amarillo cromo, o verde, u ocre rojo, pero que prefiere este azul de ultramar. ¿No es cierto? N’est-ce pas? Y le confía cómo vino por error a Buenos Aires y, adelantándose a las réplicas, dando unos saltitos graciosos, le describe las gentes que transitan por el zaguán: la parda enamorada del carnicero; el mendigo que guarda una moneda de oro en la media; el boticario que ha inventado un remedio para la calvicie y que, de tanto repetir demostraciones y ensayarlo en sí mismo, perdió el escaso pelo que le quedaba; el mayoral del tranvía de los hermanos Lacroze, que escolta a la señora hasta la puerta, galantemente, “comme un gentilhomme”, y luego desaparece corneteando…

La Muerte ríe con sus huesos bailoteantes y mira el reloj. Faltan treinta y tres minutos.

Martinito se alisa la barba en punta y, como Buenos Aires ya no le brinda tema y no quiere nombrar a Daniel y a la amistad que los une, por razones diplomáticas, vuelve a hablar de Desvres, del bosque trémulo de hadas, de gnomos y de vampiros, que lo circunda, y de la montaña vecina, donde hay bastiones ruinosos y merodean las hechiceras la noche del sábado. Y habla y habla. Sospecha que a esta Muerte parroquial le agradará la alusión a otras Muertes más aparatosas, sus parientas ricas, y le relata lo que sabe de las grandes Muertes que entraron en Desvres a caballo, hace siglos, armadas de pies a cabeza, al son de los curvos cuernos marciales, “bastante diferentes, n’est-ce pas, de la corneta del mayoral del tránguay”, sitiando castillos e incendiando iglesias, con los normandos, con los ingleses, con los borgoñones.

Todo el patio se ha colmado de sangre y de cadáveres revestidos de cotas de malla. Hay desgarradas banderas con leopardos y flores de lis, que cuelgan de la cancela criolla; hay escudos partidos junto al brocal y yelmos rotos junto a las rejas, en el aldeano sopor de Buenos Aires, porque Martinito narra tan bien que no olvida pormenores. Además no está quieto ni un segundo, y al pintar el episodio más truculento introduce una nota imprevista, bufona, que hace reír a la Muerte del barrio de San Miguel, como cuando inventa la anécdota de ese general gordísimo, tan temido por sus soldados, que osó retar a duelo a Madame la Mort de Normandie, y la Muerte aceptó el duelo, y mientras éste se desarrollaba ella produjo un calor tan intenso que obligó a su adversario a despojarse de sus ropas una a una, hasta que los soldados vieron que su jefe era en verdad un individuo flacucho, que se rellenaba de lanas y plumas, como un almohadón enorme, para fingir su corpulencia.

La Muerte ríe como una histérica, aferrada al forjado coronamiento del aljibe.

-Y además… -prosigue el hombrecito del azulejo.

Pero la Muerte lanza un grito tan siniestro que muchos se persignan en la ciudad, figurándose que un ave feroz revolotea entre los campanarios. Ha mirado su reloj de nuevo y ha comprobado que el plazo que el destino estableció para Daniel pasó hace cuatro minutos. De un brinco se para en la mitad del patio, y se desespera. ¡Nunca, nunca había sucedido esto, desde que presta servicios en el barrio de San Miguel! ¿Qué sucederá ahora y cómo rendirá cuentas de su imperdonable distracción? Se revuelve, iracunda, trastornando el emplumado sombrero y el moño, y corre hacia Martinito. Martinito es ágil y ha conseguido, a pesar del riesgo y merced a la ayuda de los delfines de mármol adheridos al brocal, descender al patio, y escapa como un escarabajo veloz hacia su azulejo del zaguán. La Muerte lo persigue y lo alcanza en momentos en que pretende disimularse en la monotonía del zócalo. Y lo descubre, muy orondo, apoyado en el bastón, espejeantes las calzas de caballero antiguo.

-Él se ha salvado -castañetean los dientes amarillos de la Muerte-, pero tú morirás por él.

Se arranca el mitón derecho y desliza la falange sobre el pequeño cuadrado, en el que se diseña una fisura que se va agrandando; la cerámica se quiebra en dos trozos que caen al suelo. La Muerte los recoge, se acerca al aljibe y los arroja en su interior, donde provocan una tos breve al agua quieta y despabilan a la vieja tortuga ermitaña. Luego se va, rabiosa, arrastrando los encajes lúgubres. Aun tiene mucho que hacer y esta noche nadie volverá a burlarse de ella.

Los dos médicos jóvenes regresan por la mañana. En cuanto entran en la habitación de Daniel se percatan del cambio ocurrido. La enfermedad hizo crisis como presumían. El niño abre los ojos, y su madre y sus tías lloran, pero esta vez es de júbilo. El doctor Pirovano y el doctor Wilde se sientan a la cabecera del enfermo. Al rato, las señoras se han contagiado del optimismo que emana de su buen humor. Ambos son ingeniosos, ambos están desprovistos de solemnidad, a pesar de que el primero dicta la cátedra de histología y anatomía patológica y de que el segundo es profesor de medicina legal y toxicología, también en la Facultad de Buenos Aires. Ahora lo único que quieren es que Daniel sonría. Pirovano se acuerda del tiempo no muy lejano en que urdía chascos pintorescos, cuando era secretario del disparatado Club del Esqueleto, en la Farmacia del Cóndor de Oro, y cambiaba los letreros de las puertas, robaba los faroles de las fondas y las linternas de los serenos, echaba municiones en las orejas de los caballos de los lecheros y enseñaba insolencias a los loros. Daniel sonríe por fin y Eduardo Wilde le acaricia la frente, nostálgico, porque ha compartido esa vida de estudiantes felices, que le parece remota, soñada, irreal.

Una semana más tarde, el chico sale al patio. Alza en brazos a la gata gris y se apresura, titubeando todavía, a visitar a su amigo Martinito. Su estupor y su desconsuelo corren por la casa, al advertir la ausencia del hombrecito y que hay un hueco en el lugar del azulejo extraño. Madre y tías, criadas y cocinera, se consultan inútilmente. Nadie sabe nada. Revolucionan las habitaciones, en pos de un indicio, sin hallarlo. Daniel llora sin cesar. Se aproxima al brocal del aljibe, llorando, llorando, y logra encaramarse y asomarse a su interior. Allá dentro todo es una fresca sombra y ni siquiera se distingue a la tortuga, de modo que menos aun se ven los fragmentos del azulejo que en el fondo descansan. Lo único que el pozo le ofrece es su propia imagen, reflejada en un espejo oscuro, la imagen de un niño que llora.

El tiempo camina, remolón, y Daniel no olvida al hombrecito. Un día vienen a la casa dos hombres con baldes, cepillos y escobas. Son los encargados de limpiar el pozo, y como en cada oportunidad en que cumplen su tarea, ese es día de fiesta para las pardas, a quienes deslumbra el ajetreo de los mulatos cantores que, semidesnudos, bajan a la cavidad profunda y se están ahí largo espacio, baldeando y fregando. Los muchachos de la cuadra acuden. Saben que verán a la tortuga, quien sólo entonces aparece por el patio, pesadota, perdida como un anacoreta a quien de pronto trasladaran a un palacio de losas en ajedrez. Y Daniel es el más entusiasmado, pero algo enturbia su alegría, pues hoy no le será dado, como el año anterior, presentar la tortuga a Martinito. En eso cavila hasta que, repentinamente, uno de los hombres grita, desde la hondura, con voz de caverna:

-¡Ahí va algo, abarájenlo!

Y el chico recibe en las manos tendidas el azulejo intacto, con su hombrecito en el medio; intacto, porque si un enano francés estampado en una cerámica puede burlar a la Muerte, es justo que también puedan burlarla las lágrimas de un niño.

FIN

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