LA MOSSA DEL MATTO AFFOGATO di Roberto Alajmo – L’ARTE DI ANNACARSI

LA MOSSA DEL MATTO AFFOGATO di Roberto Alajmo

“…Attraverso una serie di sacrifici, l’avversario ti ha chiuso in gabbia. Uno dopo l’altro sono i tuoi stessi pezzi ad averti circondato e messo in un angolo da cui non puoi più scappare. Nel giro di poche mosse sei passato dall’illusione di poter vincere sfruttando i suicidi in serie dell’avversario, alla frustrazione di doverti suicidare tu, senza possibilità di scelta, e di fronte alla minaccia di un unico cavallo superstite. Per quanto l’avversario sia ormai dissanguato, l’ultima mossa servirà solo a stringerti il cappio attorno al collo…”

Avevamo avuto modi di accennare all’uscita del nuovo romanzo di Roberto Alajmo in questo post (dedicato al volume “1982”, edito da Laterza).
Ne parliamo, adesso, in maniera più approfondita ripartendo dal titolo del libro: La mossa del matto affogato (Mondadori, 2008, pagg. 241, euro 17).

Per chi conosce bene il gioco degli scacchi la mossa del matto affogato non è una novità. Si tratta di uno scacco matto speciale, il più umiliante: il re, bloccato dai propri stessi pezzi, non può più muoversi.
“…Attraverso una serie di sacrifici, l’avversario ti ha chiuso in gabbia. Uno dopo l’altro sono i tuoi stessi pezzi ad averti circondato e messo in un angolo da cui non puoi più scappare. Nel giro di poche mosse sei passato dall’illusione di poter vincere sfruttando i suicidi in serie dell’avversario, alla frustrazione di doverti suicidare tu, senza possibilità di scelta, e di fronte alla minaccia di un unico cavallo superstite. Per quanto l’avversario sia ormai dissanguato, l’ultima mossa servirà solo a stringerti il cappio attorno al collo…”
Il brano tra virgolette è estrapolato dal romanzo.
Un romanzo come una partita a scacchi, dove il titolo di ciascun capitolo è il codice di una mossa (dalla prima fino allo scacco finale). Un romanzo di ventisei capitoli, una partita in ventisei mosse.
Il protagonista (e il giocatore) si chiama Giovanni Alagna: un impresario teatrale che opera in una città siciliana (Palermo?) e che ha improntato attività e vita avvalendosi, all’occorrenza, di imbrogli più o meno gravi. Un personaggio algido e determinato, ma che finirà con il rivelarsi uno sconfitto. Un “vinto” che si aggiunge alla schiera di quelli già tratteggiati da Roberto Alajmo nei precedenti romanzi (Cuore di madre e È stato il figlio). Con la differenza che, stavolta, il perdente è un uomo di cultura, un uomo alquanto noto.
Alagna ottiene successo, beneficia delle luci della ribalta, conduce una vita persino al di sopra delle proprie possibilità. Poco importa se, per farlo, deve ricorrere al bluff, alle bugie, alle omissioni. Poco importa se – di fatto – si ritrova a usare gli altri con noncuranza e semplicità strabilianti, basandosi sul motto: “meglio rimorsi, che rimpianti!”
Meglio rimorsi, sì; ma quando i rimorsi crescono all’eccesso e hanno la faccia di tua moglie Elvira (che decide di cacciarti fuori di casa dopo l’ennesimo tradimento), o il viso duro e quasi ostile delle tue due figlie che non si fidano più di te; quando il rimpianto assume le dimensioni catastrofiche di atti di violenza compiuti ai tuoi danni da delinquenti senza scrupoli, mandati a riscuotere soldi che non sei in grado di restituire; allora, Giovanni Alagna, cominci a capire che la partita sta prendendo una piega che non avevi preso in considerazione. Cominci a capire che stai perdendo.
Alla fine non ti rimane che inscenare un’uscita di scena melodrammatica, da par tuo. Un’uscita di scena con i riflettori puntati addosso. Tu attore, e gli altri – chi ti ha amato e chi ti ha odiato – intorno a te, a farti da pubblico (o almeno, così ti pare) mentre ti ritrovi paralizzato da una serie di scelte sbagliate. Fine della partita, Alagna. Scacco matto. Non ti resta che affogare.
L’utilizzo della “seconda persona” nelle frasi precedenti non è casuale, ma riflette una coraggiosa e originalissima scelta narrativa dell’autore. Quella di scrivere un romanzo tutto in “seconda persona”, dalla prima all’ultima parola. Un romanzo, però, che scorre lieve, veloce (come la scrittura del suo autore: pulita, scevra da orpelli stilistici, frasi retoriche, pesanti aggettivazioni) e che riesce a colpire duro. Come usa dire lo stesso Alajmo: “I miei libri sono facili da mangiare, difficili da digerire”.

Roberto Alajmo mi ha messo a disposizione le prime pagine del libro. Potrete leggerle di seguito
(Massimo Maugeri)

La mossa del matto affogato – Cap. I

Ora concentrati, non ti distrarre. Bisogna assolutamente che riesca a pensare qualcosa da gettare in faccia alle persone venute fin qui. Loro se l’aspettano, e anche a te conviene approfittarne. Sono i momenti in cui basta una parola, una frase, per rovesciare l’opinione che il mondo si è fatto su una determinata persona. O per rafforzarla, a seconda dei casi. Tu devi puntare decisamente a rovesciarla. Hanno tutti dei preconcetti, su di te: se li sono fatti nel tempo e sarà difficile convincerli a cambiare idea proprio ora. Però è sicuro che non ci saranno altre occasioni: adesso o mai più. L’hai capito, no? Tutta questa gente è venuta perché ha delle aspettative. Detto in sintesi: sperano di vederti morire. Te la senti di deluderli?
Non scherzare, il momento è serio. È uno di quei frangenti da affrontare con un minimo di consapevolezza perché è come un riflettore che si accende sulla tua vita. Bisogna farsi trovare pronti. Niente di peggio che lasciarsi sorprendere con un dito nel naso o con la biancheria sporca: rischi di restare cristallizzato in quella condizione nei secoli dei secoli. Devi aver cura della tua igiene fisica e morale, svuotare i cassetti da tutta la roba compromettente. Buttare tutto. Nella spazzatura, proprio. E proprio tutto: ogni singola cassetta, rivista, oggetto, lettera, diario, qualsiasi cosa.
Bisognerebbe. Eppure non lo si fa mai, si rimanda. Per cui, quando poi succede il disastro, è sempre troppo tardi. L’ideale sarebbe pensarci per tempo, fare pulizia di frequente, cancellare la posta elettronica e i messaggi dal telefonino. Mai lasciarsi prendere dalla pigrizia, perché da un momento all’altro il grande riflettore della cronaca potrebbe illuminare la tua vita e svergognarti per sempre.
In casi del genere, lo sputtanamento assume le forme più impensate. Una perquisizione postuma da parte della polizia, per esempio: basterebbe una soffiata, una falsa segnalazione, un errore di notifica, e la tua esistenza verrebbe rivoltata come un calzino. C’è sempre qualche buco che speravi di nascondere all’interno della scarpa. Non puoi sapere quanta gente frugherà nella tua stanza, ma prova a immaginarli mentre guardano ovunque, pure dietro ai libri, sullo scaffale della saggistica.
Se anche la polizia non venisse a perquisire la casa, rimarrebbe sempre la penosa ricognizione degli eredi. Nel cassetto, in mezzo a lettere e souvenir dei momenti felici, è sempre pronto a spuntare l’oggetto indicibile, quello che mai e poi mai un estraneo avrebbe potuto immaginare. Diranno: pareva una persona così perbene, così gentile, e invece anche lui aveva le sue debolezze. Tutto il resto sarà dimenticato: da quel momento in poi, fino all’eternità, la tua memoria rimarrà associata alla vergogna, fosse anche l’unica vergogna che ti eri concesso nell’arco della vita.
Oltre al fatto in sé, morire comporta una serie di effetti collaterali. Quindi, prudenza. Meglio evitare, per esempio, di sparare cazzate in punto di morte. Conviene tenere da parte qualche bel pensiero per quando servirà; sperando di avere il tempo per rifletterci. Ma anche preparandosi prima, non è detto che poi si riesca a trovare modo di pronunciare le ultime parole famose, e di pronunciarle come si deve. In ogni caso, niente di preordinato. L’eccesso di preparazione rischia di far perdere quel minimo di spontaneità che è fondamentale per un finale di partita senza troppa retorica.
A proposito di finali e di partite: una volta ti hanno raccontato di un tizio che era un maniaco del poker. Dalla mattina alla sera non faceva altro che sbirciare cinque carte una dopo l’altra. Ma sempre, proprio in continuazione, anche quando era solo: aveva inventato il poker con tre morti, una variante in cui a giocare e a vincere era solamente lui. Insomma, quando viene il suo momento questo tizio cade in coma, e ci rimane per un mese. Poi un giorno, improvvisamente, apre gli occhi e guarda i parenti al capezzale come se fosse sorpreso di vederli lì. Li fissa, muove le labbra per dire qualcosa, e i parenti si fanno ancora più sotto per ascoltare quale ultimo messaggio ha da regalare trovandosi sulla soglia dell’aldilà, resuscitando apposta da un coma che pareva irreversibile. E lui, distillando le ultime energie, apre la bocca e dice una sola singola parola:
– Cip.
Ti rendi conto? Cip, e muore. Un’occasione del genere buttata via, l’attesa di tutto quel pubblico di parenti e amici andata delusa. O forse no, perché se adesso tu ti trovi nella situazione in cui ti trovi e perdi tempo a raccontare una storiella del genere vuol dire che quell’unica parola, cip, meritava di essere detta, meritava di essere ricordata e meritava di essere raccontata. Ancora oggi, almeno tu sei qui a riflettere su quel cip, su quello che voleva significare nel contesto dell’esistenza di quel tizio. O a quello che non voleva significare. Perché esiste anche la possibilità che mentre muori stai facendo o pensando qualcosa di assolutamente irrilevante, nell’economia complessiva della Storia dell’Umanità. Viene la morte e ti trova impreparato.
Impreparato: sarebbe bello poter pronunciare questa parola impunemente, come si faceva a scuola. Arriva la morte, tu rispondi:
– Impreparato.
E lei:
– Va bene, ma ti voglio risentire prima che finisca il quadrimestre.
Al massimo, certe volte, ti mettevano una piccola i sul registro, e ogni discussione era aperta su come interpretarla. Faceva media o no, quella i di impreparato? Mistero. Dipendeva dall’umore degli insegnanti, dalla disposizione d’animo che ciascuno di loro aveva nei tuoi confronti.
Se anche in un momento come quello che stai vivendo l’impreparazione fosse motivo di rinvio, potresti almeno guadagnare tempo. Prima della fine del quadrimestre c’è un sacco di tempo, o almeno così ti sembra quando devi scampare all’interrogazione su un argomento di cui non sai niente. Purtroppo invece no: la fine del quadrimestre e gli scrutini arrivano sempre prima di quanto tu possa immaginare.
Ecco, vedi? Se morissi in questo preciso istante, nel Registro Universale dei Pensieri Formulati in Punto di Morte, rimarrebbe scolpita in maniera indelebile questa cazzatina della i sul registro di classe. Che figura, se qualcuno andasse a controllare. Che occasione sprecata. Ma chi se ne frega? Gliene frega qualcosa, a Dio? Adesso, nella situazione in cui ti trovi, non è il momento di aprire una digressione sulla effettiva esistenza di Dio; ma sulla Sua sfera di interessi magari sì. Che ne sai? Lo possono incuriosire gli ultimi pensieri di un singolo morituro? Tutte le cose che stai pensando adesso vanno a finire registrate da qualche parte? No, perché se funziona così allora è il caso di fermarsi un attimo a pensare sul serio. Evitiamo di fare altre figure di merda. Anche perché il tuo interlocutore in questo momento non è solo l’eventuale Dio. Ci sono un sacco di persone che si aspettano da te un’uscita all’altezza di tutto il resto. Si tratta di non deluderle: arrivati a questo punto sarebbe un peccato.
Intanto però i minuti passano, e continui a divagare. Nell’ambito dell’inaccettabile spreco della tua morte, stai per sprecare anche quest’ultimo istante di fama cristallizzata che ti è concesso. Almeno potresti fare come dicono che succeda: che nell’ultimo istante ti ripassa in mente tutta la vita trascorsa. In questa evenienza qualcuno aveva individuato un’ipotesi di vita eterna. Perché nella vita che ti ripassa davanti agli occhi c’è anche quell’ultimo istante che tutti li contiene. Proprio tutti: compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante, eccetera, eccetera. Se non ti sbagli, dev’essere stato Borges. Ecco: nella circostanza potresti sfoderare una citazione di Borges, che fa sempre un certo effetto. Ma le persone che hai davanti non sanno nemmeno chi è, Borges. Nel contesto, sarebbe uno spreco. Ancora uno spreco.
È triste che tutte le persone attorno a te in un momento del genere siano tanto ignoranti. Non sono all’altezza di assistere allo spettacolo che stai per offrire loro. Purtroppo ognuno ha il pubblico che si ritrova, e nemmeno tu te lo sei potuto scegliere. Ce l’hai e te lo devi tenere. Però ammettilo: nel bene e nel male, te lo sei meritato, un pubblico così. Sono le persone che hanno seguito l’ultima parabola della tua esistenza così come l’hai voluta costruire tu, secondo i tuoi criteri. Alcuni ti hanno seguito fedelmente per ore, giorni, settimane, mesi; per anni, addirittura. Chi più chi meno, sono gli stessi che hanno creduto in te. Solo che ora ti si sono rivoltati contro. Tu non sei cambiato, ma loro sì. Molte di queste persone hanno scoperto che le avevi ingannate, e hanno gettato la maschera dell’amicizia, della stima, del rispetto che ti avevano tributato fino a ieri. Questo ti pare veramente assurdo, perché invece fra ieri e oggi tu non sei cambiato. Assolutamente no. Per l’intero arco della tua vita sei rimasto sempre fedele allo stesso personaggio.
In fondo, però, puoi ancora sfruttare la loro ignoranza. Non è necessario che stia lì a spiegare chi era e chi non era Borges, sempre ammesso che la citazione gli appartenga davvero. Non ne avresti nemmeno la possibilità, del resto. Fregatene, come te ne sei sempre fregato. Fai pure finta che sia roba tua, questa storia di tutta la vita che ritorna a scorrere nell’ultimo istante, e così all’infinito. Ti hanno creduto sempre, vuoi che non ti credano proprio adesso? È solo un piccolo sforzo. Chi avrebbe il coraggio di mentire, nelle condizioni in cui ti trovi?
E prima ancora, scusa tanto: chi l’ha detto che tu debba morire sul serio?
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Tuesday, 30 March 2010
L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo

Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

– Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

– Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

– Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

– La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

– Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri

Roberto Alajmo: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
recensione di Simona Lo Iacono

Maupassant venne in Sicilia attratto dalla Venere conservata a Siracusa.
L’aveva vista per la prima volta nell’albo di un viaggiatore, in fotografia. “Fu probabilmente lei che mi decise ad intraprendere il viaggio; parlavo di lei e la sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. (…) è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. (…). La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.
Anche la Sicilia è donna. Anche la Sicilia è il simbolo della carne.
Affrontare un viaggio in Sicilia, dunque, da straniero o da isolano, da pellegrino o da esule, non è che affondare in quella carne. Percorrerne le cavità, i promontori. I vuoti. Con vista da amante. Con paura d’amante. Con la consapevolezza che prendere la Sicilia è anche lasciarla, o farsene abbandonare. È l’atto finale e disperato dell’amplesso là dove persino la compattezza dell’isola è un’illusione.
E possederla vuol dire frantumarla, farne scaglie. Resti.
Così Roberto Alajmo ne “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Annacarsi per un siciliano è più che affrettarsi. È anche prendere tempo senza fare realmente qualcosa, vivendo una sospensione mista di perplessità, noia, mancanza reale di voglia. E sembrerebbe forse assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”.
Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
E tuttavia questa assurdità non stupirebbe mai un siciliano. Non chi – come noi – al tutto, e al contrario di tutto, si abitua fin dall’alzata dello sguardo su questa terra, e all’affioro dei sensi percepisce: no. Ma che vuol dire sì. E il mare. Che vuol dire anche cielo. E l’isolamento. Che vuol dire anche stare al centro del mondo.
Nessuno più del siciliano è triste e contento di esserlo, orgoglioso ostentando pietà, ostile palesando ospitalità, individualista fingendosi indignato di non far parte del tutto.
Contraddizione, o meglio adattamento, al caso, alle circostanze che mutano rotta, ai destini capovolti e poi di nuovo ristabiliti, a un andare della storia al rovescio e poi di nuovo al dritto, ma senza mai veramente sapere cosa è dritto e cosa è rovescio.
Una baldoria dell’uomo e delle sue oscenità, dei suoi vizi e anche delle sue debolezze, o forse solo ostinazione alla sopravvivenza. All’incosciente vivere oggi senza soppesare un futuro. Ché il futuro, alla fine, non è mai dipeso da noi.
Sorrido vedendo che Roberto ne “l’arte di annacarsi” elenca i “luoghi comuni” allumandoli di luce buona, di storia, di spiegazioni. Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Di Siracusa, non dirò, da buona siracusana, perché assaporo le parole che Roberto ha dedicato a piazza Duomo, alla sua luce bianca, lattea, di una qualità riservata agli dèi e alle creature dell’aria. Mi soffermerò invece su Avola, o su Portopalo, tutti territori facenti parte della giurisdizione del Tribunale che dirigo e da cui mi provengono quelli che io chiamo i “processi del mare”: clandestini ammarati e pescati dalle reti. Pesci con gambe e occhi scuri, sopravvissuti alle onde. Viandanti senza scalo e giunti a me senza nome.
Roberto ne raccoglie le storie riferite ai crocicchi di vie, sulle albe di pescherecci che rientrano. Racconta di quella notte del Natale ‘96 in cui si persero 300 naufraghi che s’inturbinarono tra le correnti. I loro fantasmi si aggirano ancora da queste parti, senza pace e senza sepoltura, forse rigettati in mare una volta ripescati dall’acqua.
Un discorso a parte merita Palermo, dove la decadenza degli edifici viene coltivata come un fasto e dove a ogni sbrecciatura più o meno grave di intonaci, a crepe e lineature del tempo, è facile rimediare con una decisione provvisoria che fa presto a diventare definitiva, o con una panacea adatta a ogni male: la transenna.
E poi l’effigie di madre. Che la Sicilia sa mascherare di reverenza al marito, ma che s’infratta dietro apparenze di remissività. Sorrido davanti alla buffa immagine della “madre ebrea” a cui sono assimilati, nel libro, i siciliani. Che non dice al figlio: se non mangi ti ammazzo. Dirà piuttosto, senza preoccuparsi di dissimulare il ricatto: se non mangi mi ammazzo.
E mi balza dal passato l’immagine di mia nonna, spannata come un’anima e drittissima su gambe che sostenevano una figuretta di nemmeno un metro e venti. Diceva: facite chiddu ca vulite (fate quello che volete). Tanto, poi, si faceva sempre quello che diceva lei.
La mafia, infine. L’unico luogo comune che esiste per davvero. E che ha invece l’abilità di fingersi irreale e fantasioso, più una leggenda eroica da brigante. Con molti ragionevoli motivi, in fondo, per esistere.
Un fumo, più che una mentalità. O piuttosto una ventata di quelle gustose, che portano odore di soffritto e padella, e che segui incantato come da una Circe. Salvo poi a scoprire che non provenivano dalla cucina.
Più che la sua abilità nel nascondersi colpisce la nostra capacità di non vederla, di non farsene toccare come se invece che cosa nostra, fosse sempre cosa d’altri.
Solo quando approda nei tribunali sembra assumere consistenza, materia, sangue.
Fino a che, dalle grate, torna a uscire fuori come un filo di fumo.
Roberto Alajmo non tace responsabilità. Non sorvola sulle ataviche ribaltature di ruoli. Lo stato che manca e lo stato che punisce. Che dà e che ritira la mano. Che non sa amare e che si sente in colpa.
È forse un siciliano verace, uno di quelli che per viaggiare resta al suo posto, e che per inforcare le lenti e guardare sa che non è necessario andare troppo lontano. Di certo, è un siciliano che ama pur sapendo che quell’atto d’amore è morte, discesa agli inferi, eremitaggio.
Se ammanta con ironia le mancanze, è solo perché – in fondo – sa che l’unico modo per sopravvivere, qui, ora è sempre, è svolare con leggerezza di acrobata, o con levità di illusionista.
Un circense, il siciliano. Che transuma di vita in vita, e che cambia solo in apparenza. Che forse è come quella “passiata” sullo stretto. Sempre in bilico tra due mondi. Su una soglia.
E allora meglio l’arte di “annacarsi”, di fare e non fare. Di allungare e accorciare.
A ben pensarci, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente.
Un buon modo per dire che oscillare è forse l’unico ormeggio alla terra ferma.

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