Therese Desqueyroux de Francois Mauriac pdf – G. FRANJU film – Mauriac: algerie la torture

Association @lyon : Therese Desqueyroux de Francois Mauriac

François Mauriac

Thérèse Desqueyroux

Traduzione di Laura Frausin Guarino
Biblioteca Adelphi
2009, pp. 139

Kees van Dongen, Donna col cappello nero. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
KEES VAN DONGEN by SIAE 2009

Autore

François Mauriac  

Risvolto

Sin dalle prime pagine di questo libro – quando vediamo Thérèse, il piccolo volto «livido e inespressivo», uscire dal Palazzo di Giustizia dopo essere stata prosciolta dall’accusa di omicidio premeditato – ci appare chiaro per quale ragione questo memorabile personaggio non abbia mai smesso di ossessionare Mauriac. E non potremo che essere anche noi soggiogati dal fascino ambiguo di quella che l’autore non esitava a definire «una creatura ancora più esecrabile» di tutte quelle uscite dalla sua penna. La seguiremo, questa scellerata eppure irresistibile creatura, nel viaggio verso Argelouse: un pugno di fattorie oltre il quale ci sono solo i viottoli sabbiosi che si inoltrano verso l’oceano in mezzo a paludi, lagune, brughiere, «dove, alla fine dell’inverno, le pecore hanno il colore della cenere». Là Thérèse ritroverà quel marito che ha tentato di avvelenare, ma che l’ha scagionata per salvare «l’onorabilità del nome»: un ragazzone di campagna amante della caccia e del buon cibo, che lei ha sposato nella speranza di trovare rifugio da se stessa e da un pericolo oscuro. Ma neanche mettersi una maschera, cercare di vivere come anestetizzata, inebetita dall’abitudine, è servito: le «sbarre viventi» di una famiglia ottusa e conformista non sono riuscite a impedire che si compisse ciò che era scritto. Soltanto in una solitudine riconquistata a durissimo prezzo Thérèse potrà, forse, trovare una qualche forma di salvezza. I cuori puri, scrive Mauriac, non hanno storia; ma «quella dei cuori sepolti e intimamente legati a un corpo di fango» pochi hanno saputo raccontarla come lui.

http://www.adelphi.it/libro/9788845923876

Mauriac François

Thérèse Desqueyroux

Ven, 30/06/2006 – 21:58 — ildelaura

Ho incontrato François Mauriac in una raccolta di opere dell’autore francese (Il bacio al lebbroso, Groviglio di vipere), che mi aveva fatto scoprire, in traduzione, una scrittura quietamente appassionata, certamente un po’ datata se non altro rispetto a certi suoi contemporanei (basterebbe per tutti Céline), ma in ogni caso di spessore notevole per le tematiche affrontate, per la religiosità sofferta, per quel descrivere “il lato oscuro” del cuore umano con dolorosa partecipazione.

Devo a una collega l’insistenza gentile alla lettura di questo romanzo – considerato uno dei migliori dell’autore francese e pubblicato nel 1927 – per altro purtroppo del tutto scomparso dai circuiti editoriali e non facilmente reperibile neppure nelle biblioteche pubbliche. Più diffusa la versione in lingua originale, riedita anche recentemente, ma destinata a chi col francese abbia almeno una dimestichezza minima.

Mauriac racconta storie difficili dove il caldo torrido delle Landes è contrasto naturale al gelo interiore delle vite che si dipanano lente e pigre sotto il cielo di Francia.

La giovane che attraversa il racconto vive sul crinale pericoloso dei doveri per convenzione, in un’epoca in cui per una donna avere un’identità indipendente e dei pensieri propri è un lusso da pagare con l’intera esistenza. Ragazza dotata di un’intelligenza superiore alla media richiesta alle sue coetanee, forse proprio per meglio sopportare imposizioni maschili (paterne e successivamente, senza soluzione di continuità, coniugali) – che vorrebbero la donna come appendice naturale della “casa” in tutti i suoi significati – Thérèse sviluppa una crescente avversione alle catene con le quali, suo padre prima e la famiglia del marito poi, cercano di smorzarne lo spirito indipendente. Gli anni del liceo sono ripercorsi mentalmente come il periodo di maggiore felicità, quando, in un regime di libertà semi-vigilata solo da una vecchia zia sorda, la fanciulla vagava per boschi e prati con la sua migliore amica, un essere così diverso eppure stranamente complementare alla propria inquietudine interiore. Ma gli anni passano, l’adolescenza e la sua bella stagione finiscono: è tempo di diventare grandi.

Thérèse viene convinta – e si convince – che sposare il figlio di ricchi possidenti sia cosa buona e giusta, anche se quel ragazzo così ordinario non le strapperà alcun brivido, né fisico né affettivo. Il matrimonio è quasi una via di salvezza, un rifugio sicuro ai venti tempestosi della vita (per chi soprattutto non conosce il calore di una vera famiglia) e rappresenta il cemento di un’amicizia giovanile forte (l’amica del cuore diventa infatti cognata), l’ingresso in una dimensione adulta, matura, finalmente quieta e saggia. Questa è la previsione serena della giovane, certa di poter cambiare la propria intima natura semplicemente indossando le vesti di uno status sociale diverso, come se il matrimonio (non già l’amore) fungesse da passaporto verso territori di stabilità emotiva.

Ben presto la sistemazione mostra tuttavia i contorni delle sbarre di una prigione organizzata, che pur senza assumere i tratti della congiura, acquista agli occhi di Thérèse tutta la pesantezza opprimente di una condanna a vita, nel groviglio dei “si deve” imposti dalla nuova condizione di donna sposata.

La giovane è trattata come un animale selvaggio da domare a forza, le sue idee sono stranezze da sopportare con pazienza, e la sua gravidanza – coronamento perfetto dei doveri imposti dalla vita coniugale – il pretesto per toglierle qualsiasi residuo di autonomia. Sopra di lei gravano l’onorabilità della nuova famiglia e il rispetto ad essa dovuto, cui tutto si sacrifica: l’amore, la libertà, la personalità. Nessuno è risparmiato. Non lei, né l’ingenua cognata, perdutamente innamorata di un ragazzo troppo intelligente per non avvertire la rete nella quale è rimasta intrappolata Thérèse. Incaricata dalla famiglia del marito di allontanare il giovane dall’amica, che ragioni patrimoniali vogliono sistemata altrimenti, ella viene affascinata e attratta dal pensiero confuso ma appassionato, giovanile e libero di Jean, il quale però si dimostra incapace, per superficialità o vigliaccheria, di lanciarle un’ancora di salvezza. L’atmosfera già soffocante dell’estate francese è ulteriormente appesantita dalle tendenze ipocondriache del marito di Thérèse, Bernard Desqueyroux, che involontariamente fornisce alla moglie un pretesto terribile e sconsiderato per mettere fine a una convivenza divenuta insopportabile. Ancora una volta, l’onore della famiglia viene anteposto alla verità: Thérèse sfugge alla giustizia e all’accusa di avvelenamento, ma non alla feroce vendetta della famiglia acquisita che la piega facendone una specie di sepolta viva cui tutto è negato, perfino l’affetto della figlioletta. A liberarla non sarà la pietà, ma l’orgoglio ferito di Bernard, in un attimo subito perduto di percezione esatta di un dolore incomprensibile.

Thérèse impara così che la morte non è l’unica soluzione al dramma dell’esistenza, e che la propria libertà si paga quanto meno con la coerenza verso se stessi.

Mauriac viene considerato uno scrittore “cattolico”, dove l’accezione del termine va pensata in relazione soprattutto a una scelta personale: le opere risentono della prospettiva religiosa senza tuttavia assumere un tono moraleggiante. Se la protagonista de Il bacio al lebbroso sceglieva coscientemente una vita di rimpianto espiatorio, a Thérèse è data la possibilità di ricominciare un percorso nuovo, oscurato appena dall’ombra di ciò che ha perduto per sempre. Il personaggio di Thérèse Desqueyroux occupa alcune altre novelle e il romanzo La fine della notte (1935) che assieme al primo darà luogo a I due romanzi di Thérèse Desqueyroux. Segno che la figura femminile in bilico tra salvezza e dannazione ha affascinato Mauriac più di altri suoi personaggi; segno soprattutto che non è così facile definire i contorni di giustizia, peccato, pena e redenzione da un punto di vista umano: qui più che altrove si nota una tenerezza dell’autore verso la donna carnefice di se stessa, una compassione dalle radici vagamente autobiografiche se non altro nella lotta interiore generata dalla considerazione di ciò che è stato commesso. La necessità di proporre un seguito e una conclusione in altri scritti fanno pensare a un conto in sospeso personale, quasi il bisogno di dare un’opportunità di salvezza eterna all’eroina maledetta.

L’impressione è che Thérèse incarni, nell’immaginario di Mauriac, un archetipo femminile di angelo caduto al quale probabilmente lo scrittore riconduce l’essenza intima della creatura femminile, capace di altezze inarrivabili nel bene e nel male, ma legata inesorabilmente al limite della propria natura umana, e perciò incapace di trovare da sola il percorso per una piena realizzazione.

“Thérèse, molti diranno che tu non esisti. Ma io so che tu esisti, io che, da anni, ti spio e spesso ti sbarro il passo, e ti tolgo la maschera…. Avrei voluto che il dolore, Thérèse, ti consegnasse a Dio… Sul marciapiede su cui ti lascio, ho almeno la speranza che tu non sia sola” [p. 23]



EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

François Mauriac (1885-1870), membro nel biennio 1907-1909 della prestigiosa École des Chartres e letterato, comincia presto a pubblicare poesie e romanzi sotto l’influsso di Murras e Barrès. Durante gli anni Trenta si impegna politicamente denunciando i regimi totalitari fascisti e allo scoppio del secondo conflitto mondiale, prende parte a quella “resistenza intellettuale” che rifiuta il governo collaborazionista di Vichy. Sotto lo pseudonimo di Forez pubblica Le Cahier noir. Dopo la Guerra scrive per Le Figaro e l’Express e abbandona di fatto l’attività di romanziere per dedicarsi alle cronache politiche e sociali (raccolte nei Bloc-notes dal 1952). Premiato dall’Académie française nel 1926, ne diventerà membro nel 1933.
Nel 1952 riceve il premio Nobel per la Letteratura. Tra i suoi romanzi più famosi: Il bacio al lebbroso (1922), Thérèse Desqueyroux (1927) Groviglio di vipere (1932), Vita di Gesù (1936). Thérèse Desqueyroux ispirò anche il film di
Georges Franju del 1962.

Mauriac, FrançoisThérèse Desqueyroux, Mondadori, Milano 1988 (Oscar narrativa). Traduzione di Enrico Piceni. Introduzione di Paola Dècina Lombardi. Oggi: Adelphi, 2009.

Tit. orig.: “Thérèse Desqueyroux” (1927)

http://www.lankelot.eu/letteratura/therese-desqueyroux-di-francois-mauriac.html

Accusata di tentato avvelenamento ai danni del marito Bernard (Philippe Noiret), l’infelice Thérèse Dusqueyroux (Emmanuelle Riva) rievoca durante il processo le traversie che hanno distrutto il suo matrimonio: l’inquietudine, la necessità di rispettare le convenzioni, l’amicizia salvifica con la cognata Anne (Edith Scob).

Dramma diretto da Georges Franju, che adatta l’omonimo romanzo di François Mauriac (anche sceneggiatore con il figlio Claude). Il regista aggiorna la vicenda alla contemporaneità, mirando a tratteggiare l’ipocrisia della vita di provincia e l’alienazione derivante da una vita coniugale opprimente e castrante: a tale scopo, punta scopertamente sula caratterizzazione della protagonista femminile (analizzandone tormenti e contraddizioni) e lavora sull’ambientazione (quasi uno specchio dell’interiorità di Thérèse), incupendone i tratti grazie al notevole bianco e nero di Raymond Heil e Christian Matras e destrutturando la linea narrativa. Il risultato è un film dolente e angosciante, coerente nella propria denuncia di base e tecnicamente ben confezionato; anche se l’impressione finale è quella di un prodotto eccessivamente studiato a tavolino che lascia meno di quello che promette. Buone interpretazioni del cast, in cui spicca una straordinaria Emmanuelle Riva (vincitrice della Coppa Volpi come miglior attrice alla Mostra di Venezia). Musiche di Maurice Jarre.

http://www.longtake.it/movies/info/delitto-di-therese-desqueyroux-il

Algérie: dès 1955, François Mauriac dénonçait la torture dans L’Express

Le 15 janvier 1955, dès le début de la guerre d’Algérie, et quelques semaines après l’envoi des premiers renforts français dans les Aurès, L’Express aborde, sous la plume de François Mauriac, la question de la torture. Nous publions ici l’intégralité de cet article.

[Archives] Dans L’Express du 15 janvier 1955, François Mauriac aborde la question de la torture. Il rapporte, sous la forme d’un dialogue, le témoignage d’un ami de Constantine. Celui-ci raconte “le baquet d’eau sale où la tête est maintenue jusqu’à l’étouffement”, “le courant électrique sous les aisselles et entre les jambes”, “l’eau souillée introduite par un tuyau dans la bouche”.

L’écrivain l’écoute. L’Express sera désormais à la pointe du combat contre la torture. Au nom d’une vision humaniste que partagent avec François Mauriac les grandes signatures du journal. Le titre de ce premier article de l’écrivain est le même qui sera choisi trois ans plus tard, en 1958, par l’éditeur du livre d’Henri Alleg sur le même sujet: La Question. La torture peut-elle être considérée comme un mal nécessaire à la lutte contre le terrorisme? Français Mauriac choisit de répondre non.

L’Express du 15 janvier 1955

“Je hais cruellement la cruauté, et par nature et par jugement, comme l’extrême de tous les vices.” Montaigne (Livre II, Ch. 11). “C’est à Moi que vous l’avez fait.” Matt. XXV, 40.

– Vous seul pouvez parler… Vous seul.
Je détourne la tête. Que de fois l’aurai-je entendu ce “vous seul”! Mes ennemis croient que je cède à la passion d’occuper la scène. Je soupire:
– Il faudrait des preuves. On n’a jamais de preuves.
– Moi, j’ai vu, dit l’homme.
Je l’observe à la dérobée: je connais bien ce regard: celui de mon ami R., celui de ce prêtre de la Mission de France qui travaille dans la région de Constantine, le regard de ceux qui ont vu de leurs yeux, qui ne peuvent plus penser à rien d’autre ; toutes les fleurs du monde sont flétries pour eux. Des obsédés, bien sûr. Moi-même, je commence à la subir, cette obsession, mais un écrivain est habile à s’évader. J’insiste, presque suppliant :
– À quoi bon, puisque “ça” ne laisse pas de traces!
– Ils n’ont pas renoncé aux coups de nerf de boeuf, vous savez! Mais la baignoire, ou plutôt le baquet d’eau sale où la tête est maintenue jusqu’à l’étouffement, mais le courant électrique sous les aisselles et entre les jambes, mais l’eau souillée introduite par un tuyau dans la bouche jusqu’à ce que le patient s’évanouisse…
– Ce n’est pas possible, dis-je.
– Mais oui: comme pour la Brinvilliers, comme pour Damiens… Cela ne laisse guère de traces en effet, non plus que les goulots de bouteille enfoncés…

Je l’interromps:
– Je sais… d’autres m’ont raconté. Mais pourquoi? pourquoi?
– Il s’agit d’obtenir des suspects (et je ne prétends certes pas qu’ils soient tous innocents) l’aveu de leur participation directe ou indirecte au terrorisme. Mais surtout, on attend d’eux qu’ils dénoncent leurs camarades. Je me rappelle celui qui avait fini par céder: il était fou de désespoir et de honte: “Je suis déshonoré, gémissait-il, je les ai livrés…”. Songez que ces tortures sont coupées d’interrogatoires qui se prolongent durant des heures et on les laisse presque toujours sans nourriture. Alors ils signent n’importe quoi.

– Mais… les juges?
– Oh! avant de les conduire au palais de Justice, on rend les victimes présentables… Un rien de toilette, quoi! Il n’empêche qu’au début de novembre les comparutions avaient lieu très tôt ou très tard pour qu’il n’y eût pas de témoins. Le 12 novembre à 7 heures du matin, ma femme, qui faisait le guet, a tout de même vu des garçons encore tout sanglants, à leur entrée chez le juge.
– Sans avocat? Je croyais que la présence de l’avocat était exigée par la loi.
– Nous ne sommes prévenus ni de l’heure ni du jour de la comparution. Pour avoir quelque chance d’assister un client, j’ai dû faire le guet, moi aussi, à la porte du juge: oui, huit heures d’affilée…
– La police a donc le droit de détenir un individu plus de vingtquatre heures sans le déférer au magistrat? On m’avait pourtant dit…
– L’article 114 du code pénal réprime en effet la séquestration arbitraire.

– Mais là encore, comment faire la preuve?
– Oh! très aisément ; il suffit de rapprocher deux dates: celle de l’arrestation et celle du mandat de dépôt ou de l’ordonnance de mise en liberté.
– Alors pourquoi ne pas déposer plainte?
– Croyez-vous que les victimes s’en privent? Des plaintes? Combien n’en a-t-on pas déposé! Aucune n’a jamais été instruite. Vous entendez bien: aucune, à ma connaissance, du moins. Pauvres “citoyens français”! Ils n’ont pas plus de recours que nos “protégés”.
– Écoutez, je me rappelle qu’une fois au moins vous vous êtes trompé. France-Maghreb était intervenu en faveur de Moulaï Merbah, secrétaire général d’une fraction du MTLD. Le ministre de l’Intérieur a eu la preuve qu’il s’agissait d’une erreur, que ce suspect n’avait pas été torturé.

– Oui, et Mitterrand était de bonne foi. C’est lui qui a été dupe. Je connais bien toute l’histoire: Moulaï Merbah ne fut conduit devant le doyen des juges d’instruction que le 5 novembre et ce fut le 9 que son avocat, depuis cinq jours à Alger, put enfin communiquer avec lui et apprit de sa bouche les tortures qu’il avait endurées. Son dos était couvert de plaies ouvertes ou à peine fermées. Un gardien de prison affirma que l’accusé était dans cet état-là lorsqu’il avait été écroué. Mais le médecin légiste, invité à l’examiner, fut d’avis que Moulaï Merbah se portait le mieux du monde: c’est ce certificat qu’a eu entre les mains le ministre de l’Intérieur.

– Vous voyez! La preuve irrécusable fera toujours défaut.
– Non! Pour beaucoup de cas, nous avons des témoins. Ma femme a vu la poitrine blessée d’Abd el-Haziz. Le juge a consenti à appeler un médecin légiste, mais non à ce que l’examen ait lieu en présence d’un professeur de la Faculté d’Alger. Je pourrais vous raconter l’histoire d’Adad Ali, conseiller municipal d’Alger, dont journalistes, avocats, magistrats qui se trouvaient dans le couloir quand on l’amena, constatèrent l’état d’hébétude. À la face, aux jambes, les traces de coups étaient visibles. Le juge convoqua sur l’heure un médecin. Et Laichaoui, l’ami de Mme Mounier, de Domenach, du professeur Madouze, comment douterions-nous de sa parole quand il raconte ce qu’il a subi?

Nous nous taisons. L’homme rêve un instant, puis il dit:
– La détention en elle-même, quelle torture! On parle d’Oudjda. Si vous connaissiez la prison de Tizi-Ouzou! Les détenus y sont parqués à soixante et onze dans des pièces de cent cinq mètres carrés. Il leur est interdit d’ouvrir la bouche, fût-ce pour prier. Des “droit commun” les surveillent: l’école de Himmler, quoi! Quel héritage!
Encore un silence et j’entends de nouveau l’éternelle parole:
“Vous seul… Si les gens savaient… Vous, ils vous croiront.”
Je secoue la tête:
– Mais non! ils s’irritent au contraire de ce qu’on les oblige à voir ce qu’ils sont résolus à ignorer. Ils admettent que toute civilisation repose sur une horreur cachée: prostitution, traite des femmes, police des moeurs, maisons de correction, geôles pour les fous et les idiots, toutes les tortures: c’est le mal nécessaire. Malheur à qui ose en parler ouvertement! Les Aztèques scellaient des débris humains dans les pierres du temple élevé à la gloire du dieu Soleil.

– Mais nous ne sommes pas des Aztèques.
– Non, bien sûr! Nous sommes les Français de cette France dont les meilleurs fils, de génération en génération, ont mieux compris qu’aucun autre peuple et mis en pratique le Sermon sur la montagne, Nous sommes cette France qui a proclamé les Droits de l’Homme à la face d’une Europe enivrée.
– … Oui, et dire que, pour la plupart de ceux que nous faisons souffrir, la France reste cette France-là!
– Les bourreaux n’auront donc même pas l’excuse des conquérants, car ce n’est pas par la force, c’est par son message humain que la France reste conquérante: en la déshonorant, ils la désarment.

Il soupire: “Les bourreaux perdront tout!” Il se lève, me tend la main, hésite et d’une voix timide:
– Avez-vous lu mon livre sur les Malgaches?
Je baisse la tête. Il insiste:
– Les parlementaires malgaches… Ils sont innocents, vous savez! Ils souffrent depuis des années. L’un d’eux s’affaiblit, va peut-être mourir. Ce sont des chrétiens, vos frères. Vous devriez…
Je réponds: ” Oui… oui… ” Je l’accompagne jusqu’à la porte. Me voici seul. J’ouvre distraitement l’album des disques de Mozart, les Sonates pour piano interprétées par Gieseking, que J… m’a rapporté de New York. J’en choisis un… Mais non: l’horreur de ce que j’ai entendu emplit encore la pièce. Cette musique du ciel n’est pas pour moi. Je suis comme un homme qui a pris part, sans le vouloir, à un crime et qui hésite à aller se livrer.

Extrait de Algérie, la désillusion, L’Express Roularta éditions, 2011.

http://www.lexpress.fr/actualite/monde/afrique/algerie-des-1955-francois-mauriac-denoncait-la-torture-dans-l-express_1201581.html

Octobre à Paris (1962) Le massacre du 17 octobre 1961 à Paris : « ici on noie les Algériens ! »

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