The Plastic Cardboard Sonata di Enrico Falcone e Piero Persello

The Plastic Cardboard Sonata > Enrico Falcone e Piero Persello

on11/04/2016

 

C’è bisogno di ben più d’un attimo per muoversi dalla poltroncina della sala, dove si resta inchiodati al termine di «The plastic cardboard sonata», film italianissimo che al Bari International film Festival ha finalmente fatto il suo esordio europeo, naturalmente e rigorosamente soltanto dopo essere già “passato” in festival e concorsi di tutto il mondo, dall’India al Canada, passando per l’Uruguay.
E mentre lo spettatore attento vive in un personalissimo religioso silenzio la fine della proiezione barese, ecco che spicca il commento di uno dei giurati (sic) che già sui titoli di coda si lancia nella (per lui) ludica attività di coniare nuovi e simpatici neologismi, come la coniugazione del verbo “servillare”: «Il protagonista servilla parecchio; il film è molto Conseguenze dell’amore».

Azzardare subito tali paragoni, senza nemmeno lasciare che gli ultimi fotogrammi di una Roma crepuscolare e spersonalizzata si sedimentino nell’animo dello spettatore, è un pessimo tentativo di privare questo film della sua potente anima autoriale. Già, perché mentre il Servillo di «Le conseguenze dell’amore» è un uomo con una sua identità, un mafioso che vive in un luogo quasi oleografico e che è calato in una storia magistralmente raccontata da Sorrentino, l’agente immobiliare senza nome di «The plastic cardboard sonata» è un piccolo uomo solo che non ha il pieno controllo nemmeno della minuscola rete di complici che dovrebbero coadiuvarlo nella quotidiana messinscena per la vendita di appartamenti in un quartiere-modello, come potrebbe esserlo Porta di Roma, un sobborgo ordinato e anonimo che nell’ultimo decennio è sorto a cavallo del Grande raccordo anulare, tra Casal Boccone e il Parco delle Sabine.

Ma Enrico Falcone e Piero Persello non si limitano alle panoramiche ad inquadratura fissa di una delle tante zone residenziali che potrebbero benissimo fare anche da sfondo a un film sugli “amici” di Mafia Capitale. I due autori ci portano nel cuore di questi nuovi complessi residenziali, che spesso sorgono attorno a un polo commerciale, interamente costruiti e arredati allo stesso modo. E lo fanno con il volto di Andrea Vasone, che incarna il dramma e la solitudine urbana di un personaggio “senza nome”. Così come sono senza nome tutti i protagonisti, che nei titoli di coda sono identificati convenzionalmente con la professione o il ruolo che esercitano all’interno della pellicola. Tranne Sky, il cane. Perché, oggi, dei nostri vicini non conosciamo il nome, ma sappiamo come si chiama il cane.

Nuovi quartieri per vecchie inquietudini, tanto che la Sonata (quadripartita) di plastica e cartone potrebbe benissimo intitolarsi anche «L’uomo di seconda mano»; la ciclicità entro cui si risolvono i 77’ del film è scandita dal discorso di presentazione del quartiere che il protagonista ripete persino a sé stesso mentre ne ascolta una versione registrata. La spersonalizzazione più totale del protagonista avviene dunque per sottrazione, privando le sue parole di ogni margine di errore ed emotività, standardizzandole e disumanizzandole, come se l’agente immobiliare fosse un androide computerizzato. Ad avvalorare questo intento c’è, nei primi minuti del film, un montaggio alternato tra il protagonista, intento nell’ascolto della propria stessa voce, e un monologo teatrale che ha per protagonista una donna, coperta da una maschera di trucco che rende ancora più “plastica”, per analogia, la presenza scenica dell’agente immobiliare.

Il racconto del non-luogo avviene, dunque, attraverso il racconto del non-uomo, o dell’uomo di seconda mano, costretto a riciclarsi senza mai reinventarsi, al punto da assorbire ciò che avviene attorno a sé (come per esempio i dialoghi di altre persone) per poi riciclare frasi o atteggiamenti, andando per luoghi comuni. Le visite del quartiere avvengono in automobile, nell’abitacolo dove la macchina da presa pesca sapientemente la metamorfosi quotidiana dell’agente immobiliare che alla luce del sole è un affabile e distinto professionista, ma alla luce crepuscolare dei lampioni che si riflettono sul parabrezza ricorda la glacialità e l’imperturbabilità del Tom Hardy di «Locke», altra anima in pena che vive la propria epopea drammatica inchiodato al sedile di un’automobile mentre deve fare i conti con gli stravolgimenti personali che lo stanno per far diventare un altro uomo.

Ed è questa rinascita a “uomo nuovo” che traccia un filo rosso all’interno della “finta” ciclicità del film. La narrazione gira in maniera circolare come le lancette dell’orologio che si riflettono in uno specchio. E la narrazione gira in maniera circolare anche come i dischi in vinile che l’agente immobiliare ama ascoltare ogni sera. Ma il solco dei vinili non è un cerchio perfetto: è una spirale che permette alla Sonata di evolversi fino al suo termine naturale, prima che una mano capovolga il disco per farlo riprendere da capo sull’altro lato.
Nemmeno la circolarità delle lancette è perfetta, perché riflesse nello specchio scandiscono un tempo che scorre al contrario, un tempo che scorre contro sé stesso.

Basti questo estetismo per dare l’idea tutta semiologica del percorso introspettivo che il personaggio compie, in questo che potrebbe essere definito un “romanzo di de-crescita”, una regressione a stato embrionale e una progressiva perdita di tutte le proprie sicurezze. La “mano” che gira il disco in vinile della vita dell’agente è l’immaginaria propaggine di un’entità a più teste, un’idra formata dalla cliente esigente e scostante, dalla cameriera della trattoria, dai collaboratori inaffidabili, dai vicini russi che irrompono nel silenzio della notte con il proprio entusiasmo sessuale o dalla scatoletta di fagioli danneggiata nella busta della spesa. L’apparente imperturbabilità dell’agente immobiliare è minata dall’ambiente che lo circonda, al punto che l’atto erotico dei vicini di casa non è elemento scatenante del desiderio, ma di una reazione violenta mal repressa.

L’ordine oleografico del quartiere è lo specchio di una vita regolare, ordinata, al punto che i campi lunghissimi sulle strade sinuose del quartiere Porta di Roma sono il palcoscenico su cui sembra svolgersi tutto l’arco temporale di un’esistenza umana. «Il centro è a un quarto d’ora di metro. I parcheggi non mancano. È tutto nuovo: le case, i palazzi, i parchi. L’ideale per le coppie. È tutta un’altra vita». Il protagonista vive in un perenne stato di apatia che sconfina nell’autismo e nella sociopatia. Falcone e Persello compiono uno straordinario lavoro di indagine sul volto del protagonista, scansionando il tempo e lo spazio con prolungati primissimi piani che indugiano sul micro-cambiamento fisico che fa da specchio deformante al macro-cambiamento interiore, complice anche l’ottimo lavoro di fotografia di Giuseppe Maio.

In una delle registrazioni che caratterizzano la diegesi sonora della vita dell’agente, una voce femminile sostiene che «le parole non sono pazze; è la sintassi ad esser pazza». È la voce femminile con cui l’agente sostiene fantasiosi e bizzarri dialoghi, ma è anche l’unica relazione “vera” che lui riesce a intrattenete con una entità altra. Se vogliamo, la voce femminile è anche il segno di una personalità bifronte, che si manifesta anche nelle numerose inquadrature dove l’agente è visto tramite un vetro, quasi come se la macchina da presa intenda concretamente filtrare o deformare l’essenza del personaggio. E l’occhio meccanico della cinepresa trova un suo alter ego umano, quello della cameriera che osserva la figura dell’agente andarsene, “attraverso il vetro”, come un pallido riflesso di sé stessa che se ne va sfocando.

Il bloc notes su cui l’agente scarabocchia alcuni ritratti è lo strumento con cui sembra esternare il proprio stato d’animo. La scrittura e il disegno sono visti come gli unici mezzi espressivi a disposizione del personaggio. Questa dimensione artistico-letteraria lo relega ancor più in uno stato di repressione umana che scatena ulteriori reazioni nel mondo circostante. La mano che sta per voltare il disco della sua vita sta assumendo nuove forme, altre teste si aggiungono al controllo di quella propaggine pronta a carpire i fili del destino del protagonista. La disperazione di una complice abbandonata, una rapina per il pizzo, litigi, risse: elementi che già facevano parte del micro-mondo di «The plastic cardboard sonata», ma che ora si palesano prepotentemente nella vita del protagonista che «dal buio guarda il cuore della luce».

La realtà irrompe in maniera violenta in un mosaico costruito con tasselli di finta perfezione. Una giacca leggermente sporca, i capelli lievemente spettinati e la dimenticanza della cravatta sono segni minuscoli, che però nella psicologia del personaggio sono il simbolo di un effetto farfalla che sta per scatenare un’evoluzione psicologica verso una ri-nascita del proprio pensiero. La realtà irrompe nella vita dell’agente immobiliare, un abbandono lo risveglia dal suo torpore esistenziale. Il cedimento a ogni logica fatta di una “perfezione di plastica e cartone” lascia spazio al sentimento e all’empatia. Accoglie e abbandona, contribuendo al meschino gioco della vita che quasi sempre va diversamente da come vorremmo, in un finale che sorprende lo spettatore, privandolo di alcune aspettative, arricchendolo di altre, senza però risultare consolatorio o risolutivo.

Ne risulta un lavoro di sceneggiatura che potrebbe sembrare lacunoso o incompleto, ma che utilizza magistralmente la ciclicità per calare il protagonista in una realtà kafkiana, apparentemente impercettibile ma invece capace di sconvolgere l’individuo. L’alternanza tra le panoramiche di un quartiere (che vive in una totale condizione di “immobilismo umano”) e i primissimi piani dreyeriani sui volti dei protagonisti è la cifra stilistica che contrappone le miserie individuali a una felicità collettiva fatta di plastica e cartone.

In un’analisi già di per sé lunga (ma mai esaustiva quanto basta), si rischia di non dare abbastanza credito al lavoro di Pasquale Mollo, che ha dotato il film di una colonna sonora incredibile, quasi mai invadente, ma sempre straniante e alienante. La solitudine del protagonista non passa soltanto attraverso la luce crepuscolare violentata dai lampioni, ma anche tramite le note che caratterizzano i motivi musicali che spesso dominano la scena come e più della fotografia di Giuseppe Maio, che a sua volta ha eseguito un lavoro egregio.

Ma sarebbe ingeneroso non porre l’accento sulla prestazione di Andrea Vasone, vincitore del premio “Artisti 7607 per il migliore attore protagonista” al Bari International film Festival. È un premio importante che ripaga tutto il resto della squadra, che avrebbe meritato il premio al miglior film. Considerando anche il livello della categoria Nuove proposte del Bif&st, si può dire senza timore di smentita che la “giuria popolare” non è quasi mai uno strumento equo nella valutazione di lavori cinematografici. In sostanza, Andrea Vasone non si limita a essere il personaggio del film, ma è il film stesso. Coadiuvato naturalmente da un ottimo lavoro di tutta la troupe, che ne accentua la bravura. Ma è, e resta, l’essenza del film, quindi premiandolo come miglior attore si sottintende il valore assoluto di un film che non ha ancora un distributore, ma che è stato realizzato con soli quindici mila euro. Che è un po’ come se un cuoco vi cucinasse un pollo arrosto spendendo un euro. Se il pranzo vi soddisfa, allora significa che non avete mangiato un pollo: avete mangiato un miracolo.

Nicola Nimi Cargnoni

http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=36238

The Plastic Cardboard Sonata – Trailer- from Giuseppe Maio on Vimeo.

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