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‘Shakespeare. Il teatro dell’invidia’ di René Girard

 

William Shakespeare è probabilmente il drammaturgo più conosciuto e rappresentato in assoluto. In tutto il mondo. Nonostante ciò continua a sorprenderci
Molto del suo fascino sta nel fatto che ancora non lo scopriamo del tutto. E ogni volta che abbiamo a che fare con le sue pièces ci stupisce.
Le sue opere sono amate per le motivazioni più svariate: le memorabili frasi che fa dire ai personaggi; le storie d’amore che ha creato; la sua fervida fantasia; gli intrecci; i richiami a personaggi più o meno noti; le storie classiche, barocche e senza tempo a cui ha dato vita;…

Ma per la verità c‘è dell’altro. Forse lo avevamo intuito, ma non sapevamo metterlo bene a fuoco o dargli un nome. Si chiama “desiderio mimetico”. Lo ha teorizzato René Girard in “Shakespeare. Il teatro dell’invidia”, un testo di critica composto da quasi 600 pagine… ma d’altronde è necessario un libro così lungo per contenere (o quasi) l’immensa opera del celebre drammaturgo inglese. Girard (classe 1923), noto antropologo francese, naturalizzato americano, le cui tesi hanno influsso anche su critica letteraria, psicologia, sociologia e arti affini, ha sviluppato da molti anni una teoria che lega insieme la società e la violenza, i rapporti umani e l’invidia, eviscerando molte di queste caratteristiche anche nei testi letterari.
Ha scritto diversi libri, portando avanti l’idea che ogni cultura umana è basata sul sacrificio come via d’uscita dalla violenza mimetica (cioè imitativa) e le sue riflessioni si sono indirizzate verso l’unione di tre concetti principali:
1. il desiderio mimetico,
2. il meccanismo del capro espiatorio,
3. la capacità del testo della Bibbia di svelare sia l’uno (1) che l’altro (2).
E proprio tutto ciò è al centro dell’analisi che fa Girard delle opere del bardo inglese in “Shakespeare. Il teatro dell’invidia”, pubblicato originariamente nel 1990 in Francia e riedito per la terza volta in Italia nel 2012 da Adelphi, di Milano.
In esso lo studioso rivela e analizza cosa lega tutta l’opera del famoso autore inglese: lo studio del desiderio e della crisi mimetica.
Il titolo del libro è di forte impatto, ma, come ammette lo stesso autore, non tutto nell’opera dell’autore inglese è riconducibile all’”invidia” e Shakespeare usa questa parola poche volte nelle sue pièces, preferendo usare l’espressione “desiderio indotto” che, però, come precisa Girard, nonostante le intenzioni del drammaturgo non è l’equivalente del desiderio mimetico. Infatti il desiderio indotto lascia intuire una passività del soggetto ricevente, mentre invece questa passività non accade mai, in quanto è necessaria una collaborazione nel ricevere lo stimolo.
Come dimostra Girard, lo sviluppo del teatro shakespeariano è lo sviluppo del desiderio mimetico in quanto tale. In Shakespeare, “drammatico” è sinonimo di “desiderio mimetico”. Il celebre drammaturgo e poeta inglese ne tratta in tutte le sue opere. Ora in maniera più evidente, ora in maniera più celata.
Girard fa notare che il bardo inglese, nello scrivere le sue pièces, non parte tanto dai “caratteri”, quanto piuttosto dalle situazioni mimetiche. Per spiegarlo meglio, analizza anche i sonetti che, secondo la sua analisi, parrebbero degli “studi” da cui poi il celebre drammaturgo  avrebbe sviluppato alcuni personaggi e situazioni delle sue pièces.
Sostiene, inoltre, che di solito non si considera Shakespeare fra gli autori psicologici a causa del fatto che, non tenendo in considerazione il desiderio mimetico, si interpreta male la sua opera.
Shakespeare. Il teatro dell’invidia” è un libro così approfondito, dettagliato e interessante che farne una riduzione è difficile e riduttivo in quanto Girard si dimostra un vero esperto di Shakespeare, letteratura, studi legati a psicologia e psicanalisi, estetica e percezione dell’arte, Bibbia e teatro!

Sebbene il testo non esaurisca l’interezza dell’opera del bardo inglese (mancano infatti pièces come “Tito Andronico” e “Macbeth” e vengono fatti solo un paio di accenni a “La bisbetica domata”, “La commedia degli errori”, “Romeo e Giulietta” e “Re Lear”), appare comunque come una pietra miliare nello studio, analisi e critica shakespeariana.
Girard stesso, nell’”Introduzione” ammette che, sebbene sia consapevole che tutta l’opera del celebre drammaturgo sia pervasa dal desiderio mimetico, ha analizzato approfonditamente solo le pièces che ha ritenuto fondamentali, cioè quelle «che costituiscono la prima rappresentazione teatrale della configurazione mimetica da essi illustrata» (pag. 22)  Per questo stesso motivo, a volte prescinde dal seguire un ordine rigorosamente cronologico.
Le opere teatrali alle quali è dedicato più spazio e che quindi sono più approfonditamente e maggiormente analizzate sono “Sogno di una notte di mezz’estate”, “Giulio Cesare”, “Troilo e Cressida” e “Racconto d’inverno”. Ma non mancano capolavori come “I due gentiluomini di Verona”, “Il mercante di Venezia”, “Molto rumore per nulla”,  “Amleto”, “La dodicesima notte” e i Sonetti. Girard fa notare che persino in “Come vi piace”  che è un’opera pastorale, è presente il desiderio mimetico.
E ben tre capitoli sono dedicati allo studio della crisi del degree, cioè dei conflitti sociali.

Se ci si domanda perché si dovrebbe desiderare qualcosa altrui, Girard risponde che c’è qualcosa di insoddisfacente negli oggetti che possono essere posseduti, ma non in quelli che non possono essere posseduti ed inoltre che «Il desiderio che parla per primo si espone, e per tale motivo può divenire un modello mimetico per il desiderio che ancora non si è espresso. Il desiderio esibito corre il rischio di essere copiato più che contraccambiato.» (pag. 138) Secondo lo studioso, Troilo (di “Troilo e Cressida”) costituisce l’esempio shakespeariano più compiuto dell’individuo che decanta pubblicamente la propria buona sorte, aprendo in maniera del tutto sconsiderata la via alla propria cornificazione, al solo scopo di rafforzare una passione incerta. Nel consegnare Cressida a Diomede, Troilo suscita desiderio mimetico in quest’ultimo, elogiando la sua donna in partenza.
Proseguendo nello studio dello sviluppo del desiderio mimetico, lo studioso sostiene, poi, che la tendenza incontrollata che hanno i grandi e potenti a vantarsi «è uno sforzo per fare dei loro interlocutori degli specchi compiacenti» per un qualcosa che una volta conquistato perde ogni realtà e a cui perciò «solo l’invidia sembra poter ridare una certa consistenza.» (pag. 238)
Lo studioso nell’andare avanti con l’analisi delle opere, si rende conto che con il tempo, il fine di Shakespeare è il desiderio e il mantenimento di questo, non il suo appagamento, come invece era stato nelle prime commedie. Orsino, di “La dodicesima notte”  (evoluzione della commedia pseudo narcisistica cominciata con “La bisbetica domata” e passata per “Come vi piace” in direzione di una sempre minor differenziazione tra i personaggi coinvolti) è l’emblema del desiderio inappagabile.
Man mano che il desiderio progredisce verso la sua “maturità” (cioè verso forme più complesse), l’assenza di indifferenziazione si accentua sempre più perché due esseri umani che si imitano reciprocamente finiscono per assomigliarsi.
Nel sistema dell’amor di sé, dell’essere uguale a qualcun altro e dell’indifferenziazione dei personaggi rientra un altro espediente che è quello dei gemelli indistinguibili, un artificio che sfruttato da Shakespeare nella “Commedia degli errori”, poi torna sotto altre forme, come per esempio, nei ritratti del padre e dello zio contemplati da Amleto.

Leggendo il libro di Girard si evince, quindi, in maniera forte e chiara come le opere del bardo inglese non siano separate tra loro, ma facciano parte di un corpus unitario fatto di collegamenti, citazioni, rimandi, precisazioni ed evoluzioni tematiche, sia di situazioni che di desideri mimetici, come nel caso dell’”Otello”. La storia del Moro di Cipro è simile a quella di Claudio in “Molto rumore per nulla”, se non fosse per il fatto che quest’ultima è una commedia e quindi ha un finale diverso. Il finale di “Otello” ha qualcosa in comune con quello di “La dodicesima notte” in cui Orsino in preda alla gelosia vorrebbe uccidere Olivia come ha fatto “l’egiziano”.  Anche “Racconto d’inverno” ha qualcosa di avvicinabile a “Otello” e “Molto rumore per nulla”, ma mentre in queste ultime due pièces il desiderio mimetico si instaura in ambiente militare ora con un inferiore di grado, ora con un superiore, in “Racconto d’inverno” si instaura con un pari grado.
Rispetto a “Otello” e “Molto rumore per nulla””, in “Racconto d’inverno” manca il “villain” e questo, per Girard è il motivo per cui questa pièce è meno famosa rispetto alle altre due. Lo studioso sottolinea che «non si può rifiutare agli spettatori il colpevole pieno di scelleratezza del quale si aspettano con diletto il castigo. Questo capro espiatorio sacrificale deve polarizzare le loro ostilità in modo tale da risparmiare l’eroe il quale, in realtà, è il “doppio” identico.» (pagg. 504-505)
In “Otello” il villain era Jago, in “Molto rumore per nulla” c’era Don Juan. Dei due, il più consistente, come personaggio, dice, è Jago.
In tutte e tre le pièces non si consuma adulterio.
I protagonisti di “Racconto d’inverno” sono paragonabili a quelli di “I due gentiluomini di Verona”; la differenza sta nel fatto che in quest’ultima pièce, Valentino, era considerato, almeno in parte, adultero e responsabile del comportamento abominevole di Proteo; mentre invece nel “Racconto d’inverno”, la colpevolezza di Polissene non esiste che nell’immaginario di Leonte.
Il personaggio di collegamento tra Claudio (di “Molto rumore per nulla”) e Otello (di “Otello”) da un lato e Leonte (di “Racconto d’inverno”) dall’altro, è individuato da René Girard in Postumo, protagonista di “Cimbelino”.
Lo studioso afferma inoltre che a partire da “Molto rumore per nulla” (opera in un certo senso capostipite, in quanto ha preceduto tutte queste pièces, tranne “I due gentiluomini di Verona”), Shakespeare mette in scena un desiderio più maturo e approfondito di quello che figura nei drammi giovanili. Qui i personaggi sono consapevoli dell’influenza mimetica e la pièce mostra come il suo contagio operi all’interno di una piccola comunità anche e particolarmente tra coloro che sembrano indifferenti e ostili alle tendenze collettive. Qui il desiderio opera interamente sulla base del sentito dire e di conversazioni udite di nascosto, quindi, la risoluzione dell’”impasse” in cui si trovano i protagonisti non viene da loro stessi, ma dalla comunità. Infatti, dice lo studioso, il vero argomento della commedia sono i mutamenti nello stato d’animo collettivo.

In realtà René Girard non ha scoperto niente di nuovo. E ne è consapevole. Il suo merito, però, è quello di essere stato il primo a teorizzarlo e definirlo “desiderio mimetico”.
Lo studioso sostiene che la prima interpretazione mimetica riguardo la vita e le opere del bardo inglese sia stata opera di James Joyce (sebbene, secondo lui, l’autore irlandese non dica tutto) e lo dimostra inserendo a ¾ del suo testo un’analisi del capitolo dell’ “Ulisse” in cui Stephen Dedalus tiene una conferenza su William Shakespeare e inventa una parte della vita del celebre drammaturgo inglese tramite l’analisi (cosa innovativa per l’epoca) del desiderio mimetico presente nelle sue pièces.

Già in passato Girard si era misurato con la critica letteraria ed è giunto alla conclusione che la rivalità mimetica costituisce la materia prima di tutta la grande letteratura occidentale, a cominciare dai classici greci e latini che tanto hanno ispirato Shakespeare, come la “Storia di Roma” di Tito Livio per “Lo stupro di Lucrezia”, o Piramo e Tisbe rievocati al termine del “Sogno di una notte di mezz’estate” (e che fanno venire in mente anche “Romeo e Giulietta”).
Si meraviglia, però, del fatto che in passato la rivalità mimetica sia stata assente dalle dissertazioni di filosofi, psicologi, sociologi, psicoanalisti e persino polemologi, così come del fatto che il suo paradosso (desiderare qualcosa che in realtà non si vuole, solo perché lo vuole qualcun altro) sia stato ignorato dai teorici dell’imitazione, da Platone ad Aristotele a Gabriel Tarde, nonostante il concetto di “mimesi” sia la chiave di tutta la critica teatrale fin dall’antica Grecia.
Solo Proust, dice Girard, in “Réchèrche”, si è avvicinato al desiderio mimetico dimostrando come ogni “malgrè” significhi in realtà un “parce que”.

Nell’analisi dei sonetti del bardo inglese, lo studioso contrasta e corregge la teoria delle “littérarité” di Roland Barthes e quella dei critici secondo cui la poesia per essere letteratura deve essere fatta di pure figure retoriche. René Girard sostiene infatti che «lungi dall’essere antipoetica, la teoria mimetica rende conto dell’essenza stessa della retorica amorosa» (pag. 482) e in Shakespeare (sia nelle poesie che nei drammi) le metafore spesso indicano “mimetismo” di una parte del corpo (di solito gli occhi) con l’amore. E per dimostrarlo porta come esempi le espressioni «lasciar decidere d’amore gli occhi degli altri» e «amore che ferisce soltanto a sentir dire».
I personaggi usati da Shakespeare nei sonetti sono 2 o 3 (poeta + dark lady +, eventualmente, un altro poeta) e lo studioso fa notare che la diversità stupefacente di variazioni sullo stesso triangolo amoroso mimetico si ritrova poi nelle sue opere teatrali. Per esempio, il sonetto n° 42 “Che tu abbia lei non è tutta la mia pena” richiamerebbe la sindrome del “ruffiano e becco” già espressa da Joyce e rintracciabile in personaggi come Pandaro di “Troilo e Cressida”. Il sonetto n° 144, “Ho due amori per conforto e disperazione”, invece, evocherebbe la gelosia di Claudio su Ero e il Principe in “Molto rumore per nulla”, di Otello su Desdemona e Cassio in “Otello” e di Leonte nei confronti di Ermione e Polissene in “Racconto d’inverno”.

Nel capitolo sui Sonetti, ma anche in quello finale, su “La tempesta”, Girard, sulla scorta di Joyce, arriva a supporre che il bardo inglese nello scrivere le sue opere abbia usato eventi mimetici che riguardavano la propria vita.
Per Girard “La tempesta” sarebbe una specie di allegoria della carriera artistica di Shakespeare e dei vincoli a cui in passato si era dovuto assoggettare e che, da anziano, gli sono insopportabili.  Questo sarebbe il motivo per cui, pur essendo presenti tutti i temi essenziali shakespeariani (la seduzione mimetica, la crisi sacrificale, gli inganni della rivalità mimetica, i doppi mostruosi e la crisi del degree, …) non c’è un intreccio credibile a legarli e essi non hanno la forza drammatica che avevano le pièces scritte in precedenza, «l’effetto globale è più allegorico che veramente drammatico, contrariamente alle grandi opere tragiche dell’inizio e della maturità.» (pag. 551)

Secondo Girard, la rivalità mimetica è il prodotto di una “mediazione interna”, cioè di comportamenti conflittuali con qualcun altro che proliferano soltanto in una società in via di indifferenziazione.
Ad un livello più ampio, quello societario, la crisi mimetica porta alla disintegrazione del “degree”, cioè della gerarchia e dell’ordine sociale, così come esplicita Ulisse nel discorso ad Agamennone in “Troilo e Cressida”.
La presenza del desiderio verso chi è al rango superiore è normale ed è una cosa positiva perché incoraggia il raggiungimento di una qualche gloria, ma è distruttiva se si cerca di impadronirsi del “grado” a cui si aspira (come nel “Giulio Cesare”, opera tutta basata sulla disintegrazione della gerarchia e dei valori sociali).
La crisi del degree pervade tutte le opere shakespeariane.
Nell’”Amleto” la crisi del degree è di tipo temporale in quanto l’argomento del dramma verte sul fatto che secondo Amleto non ci sarebbe stato il rispetto di un intervallo decente tra la morte del vecchio re e il nuovo matrimonio della moglie.
Inoltre, questa pièce, come mostra Girard, pur essendo una tragedia di vendetta, scritta dal bardo inglese seguendo la moda dell’epoca, mette in mostra, invece, la crisi del concetto di vendetta: ne mette in discussione il principio. Come ribadisce più volte lo studioso, Shakespeare, «pur offrendo al pubblico il tipo di spettacolo che richiede, allo stesso tempo inserisce tra le righe, per coloro che riescono a leggerla, una critica distruttiva dello spettacolo stesso.» (pag. 459)

Anche “Sogno di una notte di mezz’estate” è teatro di una crisi del degree e quindi, pur essendo una commedia, dovrebbe seguire la stessa logica sacrificale. Invece è l’opera più effervescente che l’autore inglese abbia mai scritto, la più anticipatrice riguardo molti aspetti del processo mimetico e che rappresenta il culmine del suo interesse per il desiderio mimetico in tutte le sue forme. E’ stata questa l’opera decisiva per la “scoperta” di Shakespeare da parte di Girard.
Nelle commedie della maturità, è come se il processo del desiderio qui presente fosse ridotto in frammenti.
Secondo l’antropologo franco-americano, chi ama “Sogno di una notte di mezz’estate” non può non amare anche “Troilo e Cressida” perché ci sono tanti punti di contatto. Per esempio il discorso di Ulisse sulla crisi del degree nel “Troilo e Cressida” è simile a quello di Oberon e Titania su quella strana notte di mezz’estate (sebbene quello di Ulisse sia più sinistro), cioè su quella crisi dell’ordine che ha accordato «i sentimenti umani con i fenomeni naturali.» (pag. 278)
Il macrocosmo e il microcosmo sono legati mimeticamente in Shakespeare e discorsi sul ribaltamento della natura sono presenti un po’ dovunque: “Otello”, “Timone d’Atene”, “Giulio Cesare”, “Racconto d’inverno”, “Re Lear”, …
Quest’ultimo, in particolare, unisce le due dimensioni della crisi mimetica: quella familiare (analizzata da Shakespeare in “Sogno di una notte di mezz’estate”) e quella politica (presente in “Troilo e Cressida”). La problematica centrale del “Re Lear” è il passaggio catastrofico dalla “mediazione esterna” (rituale) a quella “interna” (mimetica), causa prima della crisi del degree descritta da Gloucester nelle sue osservazioni astrologiche e nella confutazione della superstizione ad essa legate.
La differenza tra “Sogno di una notte di mezza estate” e “Troilo e Cressida” per Girard è che nel primo c’è una vasta gamma di fenomeni mimetici e in essa i meccanismi del desiderio e della rivalità operano in modo così scorrevole che la loro presenza rimane relativamente inosservata; mentre invece nel secondo viene mostrata la complessa gamma dei fenomeni mimetici e l’opera termina nel modo più distruttivo possibile.
In “Sogno di una notte di mezz’estate” sono più i giochi mimetici ed i loro capovolgimenti e sostituzioni che non la trama vera e propria. In questa magistrale pièce, dal desiderare di essere un’altra persona, si passa all’elenco di parti del corpo del rivale particolarmente belle, poi all’immedesimarsi retoricamente negli animali, al trasformarsi in animali, … fino al mito delle fate e degli elfi, prodotto, secondo Girard, da personaggi in preda a frenesia mimetica e in una situazione così vorticosa che rischia di arrivare all’annullamento delle differenze come succede alla Natura e alle 4 stagioni che si sono confuse tra loro fino a diventare qualcosa di mostruoso. Una satira di tutto ciò si ritrova negli artigiani che si organizzano per realizzare uno spettacolo teatrale e, in particolare, in Rocchetto che vorrebbe interpretare tutti i ruoli.
Da qui è facile per Girard fare un salto e parlare del teatro e della recitazione, di cui, dice, oltre al piacere dovuto al desiderio per essere qualcun altro, c’è anche qualcosa di erotico dovuto alla presenza del pubblico. Non sarà un caso se le prove degli artigiani-attori si svolgono nello stesso bosco dove si sono nascosti gli innamorati e le fate.
Il simbolo del teatro, per Girard, è il mezzano di “Troilo e Cressida” perché «il teatro fornisce una gratificazione e una frustrazione voyeuristiche simili a quelle cui aspira Pandaro.» (pag. 258)
Come fa notare lo studioso, sebbene il personaggio del ruffiano esistesse già in letteratura, è con Shakespeare fa un passo avanti; infatti, non solo vuole soddisfare i desideri sessuali dei suoi “clienti”, ma qui si cerca da solo i suoi clienti e se non hanno desiderio, glielo fa venire. E facendolo venire agli altri, lo fa venire anche a se stesso tramite il riflesso di quelle parole d’elogio. Questo rende il mediatore instabile e imparziale.
Spiega Girard, nelle sue digressioni, che il lavoro che fa Pandaro è lo stesso della pubblicità: per stimolare il desiderio di Cressida nei confronti di Troilo usa l’arte di sedurre per interposta persona, portando a modello Elena e le sue tecniche di seduzione.
Oltre a Pandaro, che è un politico del desiderio erotico, nella stessa pièce c’è anche un mediatore politico in senso stretto; si tratta di Ulisse che, per ovviare al problema della mancanza di autorità da parte di Agamennone, fa ricorso a espedienti mimetici simili a quelli adottati da Pandaro in campo sentimentale.
Shakespeariano come pochi, il tema del mediatore si ritrova quasi ovunque nelle opere del celebre drammaturgo (nel “Giulio Cesare”, Cassio è l’equivalente del ruffiano Pandaro e del suo equivalente politico Ulisse), ma è in “Troilo e Cressida” che ha la sua elaborazione più compiuta. Il personaggio cardine di Pandaro domina la pièce a livello simbolico ed è il massimo emblema del desiderio e della manipolazione mimetica nel teatro del bardo inglese dato che incita sempre gli altri a svolgere questo o quel ruolo.
La ricorrente presenza del mediatore nel teatro shakespeariano spiega anche perché quella dell’opera nell’opera sia una caratteristica tipica del suo teatro.

Girard fa notare che lo studio del desiderio mimetico da parte di Shakespeare è così approfondito che arriva perfino a trovare un rimedio contro di esso. Lo teorizza in “Troilo e Cressida”. Questa pièce emblematica dell’opera shakespeariana mostra la complessa gamma dei fenomeni mimetici non solo ricorrendo a un ristretto gruppo di personaggi, ma al contesto molto più ampio di 2 società in guerra tra loro e Shakespeare fa dire a Ulisse che la situazione è giunta a un punto tale che l’unico rimedio efficace è il male stesso.
Achille si ribella all’autorità di Agamennone, capo dei Greci, perché vorrebbe essere al posto di quest’ultimo; Aiace, invece, vorrebbe essere Achille. Quando il troiano Ettore propone una sfida viene strategicamente scelto Aiace perché se Achille morisse sarebbe una grave perdita, mentre invece la vittoria di Aiace dovrebbe provocatoriamente istigare Achille.
La stessa strategia di Ulisse (e di Pandaro), la usa Cressida, che, dal canto suo, allude ai “Greci spensierati” quando Troilo si dimostra poco affettuoso nei suoi confronti non facendo niente per fermare i Greci che sono venuti a prenderla per condurla nel loro campo. C’è quindi uguaglianza tra strategia sentimentale e strategia politica. Per Shakespeare l’amore “è” o genera la guerra; non sono in opposizione, ma in alleanza.
Troilo e Cressida” contiene la riflessione teorica più elaborata sulla crisi del degree che, però, lascia aperte delle domande sul finale:
– nella sua conclusione assistiamo a un sacrificio collettivo?
– Ulisse allude all’origine sacrificale della società umana?
Secondo  René Girard, questa pièce è una sfida alla concezione aristotelica del teatro come catarsi e lo studioso crede che «non sia eccessivo definirla come il vero teatro della crudeltà che Artaud ha sempre sognato, senza mai poterlo realizzare.» (pag. 258)
In un’opera di poco precedente, il “Giulio Cesare”, invece, Shakespeare segue la parabola della violenza fino alla fine e lì trova la violenza unanime dell’assassinio fondatore. Questa è la tragedia che lo esplora ed espone in maniera magistrale, sebbene lo stesso concetto si trovi, se non esplicitamente, almeno implicitamente sottoforma di allusioni e indicazioni, in un numero considerevole di altre opere scritte dal bardo inglese.
Nel “Giulio Cesare”, la battaglia di Filippi è un momento di violenza generale che, però, segna una rinascita del degree ponendo fine alla crisi mimetica; quindi la violenza dell’assassinio di Cesare “è” la violenza fondatrice dell’Impero Romano.
Dal punto di vista mimetico, quest’opera è un dramma essenziale e imprescindibile all’interno dell’opera shakespeariana, non solo rispetto alla crisi del degree, ma anche a ciò che la risolve, cioè il meccanismo del capro espiatorio o della condanna a morte per decisione unanime: l’imitazione mimetica non verte più su un oggetto da desiderare, ma su un antagonista comune (cioè su una vittima da assassinare).
Ciò che “Giulio Cesare” e “Troilo e Cressida” insegnano è che solo il meccanismo della messa a morte per decisione unanime, cioè il capro espiatorio, può porre fine alla violenza.

Frequenti ed illuminanti sono i collegamenti che Girard fa con la Bibbia.
In questo testo, infatti, è contenuto qualcosa che si avvicina alla crisi del degree: si tratta del riferimento alla protezione sacrificale del capro espiatorio e si sente sicuro di affermare che Shakespeare, in maniera geniale, «ha individuato nella religione sacrificale il punto più alto della propria concezione, l’interpretazione mimetica dei rapporti umani.» (pag. 346)
Per Girard, l’autore inglese ha una visione nuova di quello che è il concetto di capro espiatorio ed è stato il primo drammaturgo a fissare la propria attenzione sull’assassinio fondatore. In particolare lo ha fatto con il “Giulio Cesare”, una delle opere teatrali più emblematiche del disastro causato dal desiderio mimetico e probabilmente l’unica tragedia focalizzata solo sul concetto dell’assassinio fondatore e basta. Secondo lo studioso, Shakespeare estende in ogni senso (rivelazione dell’assassinio fondatore e catarsi) le possibilità della tragedia ben al di là di quanto avesse mai fatto qualsiasi scrittore di teatro prima di lui. Dice Girard: «Shakespeare è contemporaneamente più vicino ai Greci e più lontano da loro di quei poeti che si limitano a ripetere la tradizione senza comprenderla, o a innovarla secondo il loro capriccio personale […] Egli va al cuore del concetto di tragico.» (pag. 360)
Il “Giulio Cesare” non è incentrato né su Cesare né sui suoi assassini, non tratta di un episodio della storia romana, ma della violenza collettiva in quanto tale, sebbene il drammaturgo contestualizzi l’evento alle idi di marzo e poi alla battaglia di Filippi. Il suo protagonista è il compimento del rito: è ciò che da unità all’opera. In questa pièce, gli “oggetti” del conflitto interessano al bardo inglese molto meno della rivalità mimetica e degli effetti di indifferenziazione che genera. Il vero protagonista è proprio il desiderio mimetico (ed i suoi effetti), cioè il rituale del capro espiatorio. Si tratta di un dramma singolare dove si ha una contrapposizione tra una forma rituale (protagonista) e degli esseri umani (antagonisti). In pratica una nuova visione del capro espiatorio.
Nel rito connesso all’espiazione della colpa nel capro espiatorio, si ha una prospettiva mitica e il colpevole è solo uno. Shakespeare, invece, decostruisce parzialmente la vittimizzazione del personaggio “cattivo” suddividendo in egual misura la colpa della violenza tra soggetto attivo e soggetto desiderante. La sua grandezza sta nel vedere in una fonte mitica un fondo nascosto di rivalità mimetica. In sostanza, egli attenua fino ad annullarle le differenze tra i protagonisti. Avvicina il capro espiatorio all’umano e l’umano al mitico.
Una volta che la rivalità mimetica oltrepassa una certa soglia, i rivali ingaggiano tra loro lotte interminabili (che non si fondano più su degli oggetti), il cui effetto è di renderli sempre più indifferenziati: diventano tutti dei doppi gli uni degli altri. E si genera odio.
Girard dice che questo testo è dominato da un’unica opposizione: da una parte c’è la bellezza morale ed estetica del sacrificio che vogliono i cospiratori (e che viene giustifica da Bruto dicendo di non voler uccidere il braccio destro di Cesare, cioè Marc’Antonio, e pertanto di non voler distruggere l’autorità, ma solo ristabilirla), dall’altra la confusione sanguinaria dell’invidia mimetica che si genera nel popolo.
Mentre la mimesi del desiderio significa disunione tra coloro che non possono possedere lo stesso “oggetto”, la mimesi del conflitto (cioè la crisi del degree) rende solidali gli uni con gli altri coloro che combattono insieme contro lo stesso nemico e quello che succede in grande in politica, succede anche in piccolo; cioè: dopo aver ascoltato Bruto e poi Marc’Antonio, la folla mette a morte uno spettatore sfortunato, il poeta Cinna (reo di essere un poeta e di avere un omonimo al Senato) con una parodia grottesca di quello che avevano appena fatto i cospiratori. Ma quello che è stato imitato non è il significato mimetico del loro gesto, cioè la pietà sacrificale del capro espiatorio in nome della virtù repubblicana, bensì la vendetta/assassinio. La mimesi del conflitto, quindi, si ispira a ciò che il modello fa e non a ciò che dice.
La crisi del degree è onnipresente nel teatro di Shakespeare e la rottura dell’armonia rinvia sempre a qualche interazione di doppi e all’annullamento di una differenza provocato dallo stesso sforzo per accentuarla.

Girard approfitta poi dall’analisi dei doppi e della discordia in “Racconto d’inverno”, una delle ultime pièces scritte da celebre autore inglese, per individuare un collegamento con il Libro della Genesi contenuto nella Bibbia e per sgretolare il gusto perverso ed erroneo, che si è ereditato nei secoli, di dare la colpa ad Eva (cioè alla donna) del peccato originale, cioè per aver colto quella mela che poi anche Adamo avrebbe mangiato, dimostrandosi quindi, anch’egli colpevole. Shakespeare, come dimostra lo studioso, non si è lasciato ingannare da quest’interpretazione e, come si evince dalle sue opere, «è la donna il veicolo privilegiato della verità.» (pag. 514) Girard porta ad esempio anche Ippolita di “Sogno di una notte di mezz’estate”.
Sempre analizzando “Racconto d’inverno”, dimostra poi come prevalga un finale legato non più al concetto di capro espiatorio, ormai superato in Shakespeare, ma alla resurrezione. Nel V atto, infatti, quella che da Leonte viene creduta la statua di sua moglie Ermione, morta 16 anni prima, in realtà si rivela essere proprio la donna viva e vegeta. Poco prima, era “riapparsa” a palazzo anche la loro figlia, Perdita, scomparsa da anni e che fisicamente è uguale alla madre.

Dice Girard: «la grande forza di Shakespeare deriva dalla sua abilità di liberarsi a un tempo di due cattive astrazioni: il desiderio privo di imitazione che immaginano psicologi e psicoanalisti e l’imitazione priva di desiderio che immaginano filosofi e studiosi di estetica.» (pag. 114)
Lo studioso si preoccupa di smontare psichiatria e psicanalisi spicciola e banale che vedono, per esempio, in “Sogno di una notte di mezz’estate” in Elena che ama Demetrio del masochismo e in Demetrio che la maltratta del sadismo: per lo studioso, invece, non bisogna perdere di vista «il principio mimetico unitario che governa tali atteggiamenti antitetici.» (pag. 88).
Per lui il termine magico di questo mimetismo è “essere”: “essere” qualcun altro per “avere” qualcosa che quello ha. Poi, una volta che si è diventati quello, l’oggetto del possesso non ha più importanza.
Analizzando l’amore di sé in “La bisbetica domata” e “Come vi piace”, Girard sgretola Freud e il suo concetto di narcisismo.
In “Troilo e Cressida” smonta il credo psicanalitico per cui la fonte reale dei desideri sarebbe una legge culturale esterna, a cominciare dall’amore proibito per la mamma. Girard dimostra, invece, come Cressida assurga al ruolo di “mamma” quando appena sveglia Troilo la rifiuta e sia invece desiderata quando sta per andarsene con i Greci.
Secondo lui, Freud, Marx, Nietzsche e i loro odierni seguaci hanno causato effetti disastrosi sull’interpretazione di Shakespeare, l’autore di teatro per il quale i padri contano di meno o contano solo in quanto si de-paternalizzano. In “I due gentiluomini di Verona”, per esempio, mostra che la figura del padre, al contrario di quello che sostiene Freud, svolge solo la funzione di maschera del desiderio mimetico.
Tutto il teatro del bardo inglese sarebbe fondato sul principio dell’autodistruzione dell’autorità in ogni sua forma. Dice Girard: «La distruzione o l’indebolimento di ogni legittima autorità è un tratto ricorrente nel teatro di Shakespeare, e molto spesso ha luogo con il concorso attivo dell’autorità stessa. […] Se non sono già morti all’inizio dell’opera, padri e governanti di ogni genere sono comunque già con un piede fuori dalla scena: Egeo, Teseo, Riccardo II, Enrico IV, Riccardo III, Duncan, Lear. Se non scompaiono del tutto, sono ridotti all’impotenza, come nella “Commedia degli errori”. Il desiderio mimetico è quindi l’abbattimento dell’autorità o di quella che appare come tale.» (pag. 294)

Come dimostra Girard, Shakespeare era, quindi, avanti rispetto alla filosofia del suo tempo e lo è anche oggi rispetto ad esteti, psicologi e psicoanalisti.
Shakespeare. Il teatro dell’invidia” è un testo fondamentale per conoscere il celebre autore inglese e per amarlo di più. E’ un libro appassionante che più lo leggi e più ne vuoi sapere.
Un testo chiaro, essenziale, confacente ed interessante. Un testo ampio.
La scrittura di René Girard (che noi italiani leggiamo nella traduzione di Giovanni Luciani) si dimostra fluida, elegante ed appassionante, con un giudizio estetico, antropologico e critico che coniuga con equilibrio le esigenze analitiche con il gusto e le capacità di chi non si è mai avvicinato prima all’analisi antropologico-psicologica delle opere del bardo inglese. Si rivolge certamente agli addetti ai lavori (registi, attori, drammaturghi e critici), ma anche agli appassionati di teatro, antropologia e psicologia, in un “dialogo” con i lettori sincero, paritetico, costruttivo ed emozionante; Girard spiega, motiva e divulga ogni suo pensiero creando un perenne e fertile contatto con i lettori che così apprendono cognizioni con cui rapportarsi in futuro non solo a Shakespeare e al teatro, ma in genere all’esistenza e all’umanità.
In conclusione: un libro imprescindibile per chi vuole conoscere approfonditamente l’opera shakespeariana.
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“Shakespeare. Il teatro dell’invidia”
di René Girard (traduzione in italiano di Giovanni Luciani)
edito da Adelphi, Milano, 2012, III edizione

http://www.teatro.it/rubriche/news/shakespeare_il_teatro_dell_invidia_di_ren_girard_38052

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