War of the Classes – Revolution full text : Jack London + Popoff e V. Evangelisti

War of the Classes: By Jack London – Internet Archive

Revolution and Other Essays
(Published by Macmillan, 1909)

[ Go to London’s Writings ]

“The present is enough for common souls,
Who, never looking forward, are indeed
Mere clay, wherein the footprints of their age
Are petrified forever.”
– Frontispiece


Contents

http://london.sonoma.edu/writings/Revolution/

«Caro compagno, tuo per la Rivoluzione». Rileggendo Jack London

12 gennaio 2016 Lascia un commento

Quest’anno ricorrono due anniversari: il 140° dalla nascita e il centesimo dalla morte di Jack London, giornalista, scrittore, socialista rivoluzionario, agricoltore, pirata, cacciatore e vagabondo

di Popoff

Centoquarant’anni fa nasceva Jack London. E questo non è un saggio ma solo l’intreccio di alcune suggestioni. Nel 1905 Corto Maltese, l’antieroe di Hugo Pratt, è presente in Manciuria al tempo della guerra russo-giapponese. Qui incontra proprio il giornalista e scrittore Jack London. Fa la conoscenza anche con il personaggio che lo seguirà, volente o nolente, in molte delle sue avventure: Rasputin, allora disertore dell’esercito zarista ed assassino senza motivo. È London a presentare Rasputin a Corto Maltese, che sta per imbarcarsi per l’Africa in cerca delle miniere di Re Salomone. Nel 1908 torna inArgentina, dove incontra nuovamente l’amico London. 

In realtà, John Griffith Chaney è nato  a San Francisco, il 12 gennaio 1876, abbandonato dal padre alla nascita, prende il proprio cognome dal  padre adottivo, John London. Nel corso della sua turbolenta giovinezza, Jack London fu pirata nella Baia di San Francisco, a Oakland e a Benicia, hobo vagabondo sui treni del Nord America, cacciatore di foche nell’Artico e cercatore d’oro nel Grande Nord. Molte vicende della sua incredibile biografia sono raccontate nei suoi romanzi, capolavori come Il tallone di Ferro, Il richiamo della foresta, Zanna Bianca, Martin Eden, Il lupo di mare, John Barleycorn, Il vagabondo delle stelle, La valle della luna, L’ammutinamento della Elsinore, Burning Daylight, La crociera dello Snark.

London pubblicò cinquanta volumi e cinquecento scritti di vario genere (articoli, racconti, saggi) e  continuò a vivere esperienze romanzesche: studiò i modi per praticare l’agricoltura sostenibile nel suo ranch a Glen Ellen; viaggiò per mare; fu corrispondente di guerra, reporter, fotografo, conferenziere. Rivoluzionario socialista lucido e poi disilluso, London non abbandonò mai la speranza in un riscatto per chi veniva dagli abissi della società. Morì tragicamente il 22 novembre 1916 per suicidio o per una accidentale overdose di antidolorifici. Anche questo episodio troverà un’eco nell’ultimo, recentissimo episodio di Corto Maltese, ambientanto nel “Grande Nord” londoniano, scritto da Juan Diaz Canales e disegnato da Ruben Pellejero, vent’anni dopo la morte di Hugo Pratt.

Un rapporto dell’Fbi, datato 1927, sottolinea il contenuto sovversivo degli scritti di Jack London: «Molti dei lavori di London rimandano a contenuti radicali, magari non apertamente, ma in un modo così convincente da essere tra i migliori scritti di propaganda esistenti».

Popoff propone l’incipit di Rivoluzione, uno degli articoli che compone l’omonima raccolta, e l’articolo-racconto “Perché sono diventato socialista”. Buona lettura

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Rivoluzione

Nel 1909 Jack London raccoglie alcuni dei suoi migliori scritti e pubblica Revolution and Other Essays, un libro in cui intreccia fantapolitica e teorie scientifiche e che si abbatte come un ciclone sul mercato editoriale, scatenando gli aspri attacchi dell’establishment. Riproposto nel 2007 per la prima volta in Italia, Rivoluzione rivela tutta la sua inquietante attualità in tredici profetiche riflessioni, sorrette dalla scrittura mozzafiato di Jack London, che riesce a trasformare sociologia, scienza, filosofia e politica in splendida letteratura.

L’altro giorno ho ricevuto una lettera. Veniva dall’Arizona e iniziava così: “Caro compagno.” Alla fine la persona concludeva con “Tuo per la Rivoluzione”. Per rispondere ho aperto così la mia lettera: “Caro compagno.” e ho concluso con “Tuo per la Rivoluzione”. Negli Stati Uniti ci sono quattrocentomila persone su quasi un milione, tra uomini e donne che cominciano le proprie lettere con  che “Caro compagno” e le concludono con “Tuo per la Rivoluzione”. In Germania tre milioni di persone cominciano le proprie lettere con “Caro compagno” e le concludono con “Tuo per la Rivoluzione”; in Francia sono un milione, in Austria ottocentomila; in Belgio trecentomila; in Italia duecentocinquantamila; in Inghilterra centomila; in Svizzera; centomila; cinquantacinquemila in Danimarca; trentamila in Spagna – sono tutti compagni, tutti per la Rivoluzione.

Sono numeri, questi, che fanno impallidire le grandi armate di Serse e di Napoleone. Ma non sono i numeri della conquista e del mantenimento dell’ordine costituito, bensì le cifre della conquista e della rivoluzione. Lanciato il richiamo, queste persone compongono l’esercito di sette milioni di uomini e donne che, in rapporto alle attuali condizioni, lottano con tutte le forze per portare il benessere nel mondo e rovesciare completamente l’ordine della società che conosciamo.

Non c’è mai stata una rivoluzione del genere nella storia del mondo. Non vi è alcuna analogia con la rivoluzione americana o quella francese. Questa rivoluzione è unica ed è colossale. A confronto, le altre rivoluzioni sono come asteroidi davanti al sole. E’ l’unica del proprio genere perché è l’unica rivoluzione mondiale in un mondo la cui storia abbonda di rivoluzioni. Non solo: si tratta anche del primo movimento organizzato di uomini e donne che diventa movimento mondiale, i cui confini sono i confini del pianeta stesso.

Sono tanti gli aspetti che rendono questa rivoluzione così diversa da tutte le altre rivoluzioni. Essa non è sporadica e casuale. Non è una fiammata dello scontento popolare che un giorno si leva e quello dopo svanisce. E’ una rivoluzione più vecchia della generazione che la rappresenta e una storia con le sue tradizioni, con un elenco di martiri che solo quello della cristianità supera. Ha anche una propria letteratura che è milioni di volte più scientifica, imponente e accurata della letteratura di qualsiasi rivoluzione precendente.

Queste persone si descrivono con la parola “compagno”: compagno della rivoluzione socialista. Non si pensi che sia una parola vuota, coniata giusto per fare effetto. Questa parola rinsalda i legami tra le persone affratellandole come dovrebbero, rendendole salde e unite sotto il rosso stendardo della rivolta. Non fraintendiamo: questo stendardo rosso simbolizza la fratellanza degli uomini, non l’incendiario significato che gli viene attribuito dalla spaventata mente borghese. Il legame tra i rivoluzionari è vivo e caloroso. Supera i confini geografici, trascende il pregiudizio razziale e si è dimostrato persino più potente del Quattro di Luglio, l’americanismo dell’aquila con le ali spiegate dei nostri progenitori…

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*da Rivoluzione, di Jack London, Mattioli 1885, 2007, 16 euro.

Come sono diventato socialista

È BENE SPIEGARE CHE SONO DIVENTATO SOCIALISTA IN UN MODO PIUTTOSTO SIMILE A QUELLO IN CUI I PAGANI TEUTONICI DIVENNERO CRISTIANI: MI FU SCOLPITO A FORZA. Non solo al momento della mia conversione non ero un simpatizzante del socialismo, ma lo stavo combattendo. Ero molto giovane e inesperto, non sapevo molto e anche se non avevo mai sentito parlare di una scuola chiamata «individualismo» elogiavo la forza con tutto il mio cuore.

Questo perché ero forte. Per forte intendo dire che godevo di ottima salute e avevo muscoli d’acciaio, caratteristiche ben visibili. (…) Il mio ottimismo era dovuto al fatto che fossi sano e forte, non avevo debolezze né venivo mai cacciato da un padrone perché non ero in forma; avevo sempre trovato un lavoro, che fosse spalare carbone o stare sulle navi, o qualsiasi altro lavoro manuale.

Per questo motivo, soddisfatto della mia giovane vita e in grado di mantenere il mio posto di lavoro e di vincere nella lotta, ero un individualista rampante. Era piuttosto naturale perché ero un vincente. Perciò consideravo la concorrenza e la competizione una cosa da veri uomini. Essere UOMO significava scrivere questa parola a caratteri cubitali nel mio cuore. Avventurarmi e combattere come un uomo,svolgere il lavoro di un uomo (anche per una paga da ragazzo), queste erano le cose che avevo raggiunto e che si facevano parte di me come nessun’altra. E guardando avanti all’orizzonte di un futuro nebuloso e interminabile, giocando a quello che ho concepito essere il gioco dell’uomo, avrei continuato a viaggiare, godendo di ottima salute, senza incidenti e con muscoli sempre vigorosi. Come dicevo, questo futuroappariva interminabile. Mi vedevo affrontare una vita senza fine come una delle bestie bionde di Nietzsche, desiderosa e conquistatrice di superiorità e di forza pura.

Devo confessare che non pensavo ai disgraziati, ai malati e agli uomini in difficoltà, ai vecchi e ai mutilati, se non maturando che, a meno di incidenti, avrebbero potuto essere efficienti nel lavoro quanto me, se lo avessero voluto realmente. Gli incidenti rappresentavano il fato, scritto anche in maiuscole e non c’era possibilità di evitarlo. Napoleone aveva avuto un incidente a Waterloo, fatto che non ha smorzato in me il desiderio di essere un novello Napoleone.

(…) La dignità del lavoro era per me la cosa più importante. Senza aver letto Carlyle o Kipling, formulai un vangelo del lavoro che avrebbe messo i loro in ombra. Il lavoro era tutto: santificazione e salvezza. Non potreste comprendere l’orgoglio che ottenevo da una dura giornata di lavoro. Ero uno fra gli schiavi salariati più coscienziosi che un capitalista avrebbe mai potuto sfruttare. Mostrarmi inoperoso agli occhi dell’uomo che mi pagava il salario era un peccato, in primo luogo, contro me stesso e in secondo luogo, contro di lui. Lo consideravo un crimine secondo solo al tradimento ma altrettanto malvagio. In breve, il mio individualismo eroico era dominato dall’etica ortodossia borghese. Leggevo giornali borghesi, ascoltavo i predicatori borghesi e non reagivo alle banalità urlate dai politici borghesi. Non dubito che se altri eventi non avessero cambiato la mia vita, mi sarei trasformato in un crumiro professionista (uno degli eroi americani del Presidente Eliot), la mia testa e le mie capacità di guadagno sarebbero state irrimediabilmente distrutte da un manganello nelle mani di qualche sindacalista militante.

Ma un giorno, di ritorno da un viaggio in mare lungo sette mesi, appena compiuti diciotto anni, pensai di cominciare a vagabondare per il mondo. Tra i bagagli dei treni merci abbandonai l’Occidente, dove gli uomini lottavano e il lavoro non mancava e cacciava l’uomo, mi avventurai verso i centri di lavoro industriali dell’Oriente, dove gli uomini erano inetti e cercavano lavoro. In questa avventura mi sono trovato a guardare alla vita da un punto di vista nuovo e completamente diverso. Ero passato dal proletariato a quello che i sociologi amano chiamare il «decimo sommerso», ed ero sorpreso di scoprire il modo in cui veniva reclutato questo sommerso.

Vi trovai ogni sorta di uomini, molti dei quali un tempo erano stati in buona salute come me, come le «bestie bionde»; marinai, soldati, operai, tutti lacerati e deformati dalla fatica, dal travaglio e dagli incidenti, alla deriva come cavalli alla fine della loro carriera. Ho mendicato, rabbrividivo con loro per il freddo sui carri merci e nei parchi pubblici, ho ascoltato storie di vita iniziate sotto i migliori auspici come la mia, con forza fisica pari o migliore alla mia, che si sono concluse sotto i miei occhi con lo sfascio e il risucchio nella parte più misera della fossa

E mentre ascoltavo queste storie ho iniziato a riflettere. Ero vicino alle donne di strada e agli uomini delle fogne. Ho visto l’immagine della fossa sociale tanto vividamente come se fosse una cosa concreta e li ho visti in fondo alla fossa, io sopra di loro, non lontano, appeso alla parete scivolosa con forza e sudore per non scivolare. Confesso di aver avuto paura. Che sarebbe successo quando non avrei avuto più le forze? Quando non sarei più stato in grado di lavorare al fianco di uomini giovani e forti? In quel momento decisi e formulai un giuramento simile a questo: «Ho sempre lavorato con tutte le forze, ma sono sempre più vicino al fondo della fossa. Uscirò fuori dalla fossa, ma non grazie ai muscoli del mio corpo; e non svolgerò più il lavoro duro e che Dio mi fulmini a morte se lavorerò ancora in modo duro, più di quanto il mio corpo possa sopportare o sia assolutamente necessario fare». E da quel momento mi sono dato da fare per sfuggire al duro lavoro.

Tra l’altro, durante un viaggio di circa diecimila miglia attraverso Stati Uniti e Canada, mi trovai a vagabondare alle Cascate del Niagara e fui beccato da un poliziotto borghese; mi è stato negato il diritto di difendermi, sono stato condannato a una pena detentiva di trenta giorni perché senza fissa dimora e senza mezzi visibili di sostentamento, sono stato ammanettato e incatenato a un gruppo di uomini nelle mie stesse condizioni, sono stato portato giù al paese di Buffalo e registrato presso il penitenziario di Erie County; mi hanno rasato la testa e i baffi e mi hanno vestito a strisce da carcerato, sono stato vaccinato obbligatoriamente da uno studente di medicina praticante, mi hanno fatto marciare incatenato e ho lavorato sorvegliato da guardie armate di fucili Winchester; il tutto per amore dell’avventura, come le «bestie bionde». Non ho altro da aggiungere sebbene possa affermare che questa esperienza ha attenuato il mio entusiastico patriottismo, abbandonando la mia anima. Ho compreso che per la mia vita uomini, donne e bambini erano più importanti delle linee geografiche immaginarie.

Ritornando alla mia conversione, penso sia evidente che l’individualismo rampante mi aveva abbandonato e che adesso dentro di me nasceva qualcos’altro. Senza saperlo ero stato un individualista e adesso ero un socialista inconsapevole, di stampo non scientifico. Ero rinato senza cambiare nome e andavo in giro a scoprire cosa fossi diventato. Tornai di corsa in California e iniziai a leggere. Non mi ricordo quale fu la mia prima lettura, ma è un dettaglio irrilevante. Ero già quell’altro, qualunque fosse il mio nome; e con l’aiuto dei libri ho scoperto di essere diventato socialista. Da quel giorno ho letto parecchi libri, ma nessuno di argomento economico; nessuna dimostrazione lucida della logica e dell’inevitabilità del socialismo mi ha colpito così tanto profondamente e in modo talmente convincente quanto quel giorno in cui ho visto le pareti della fossa sociale crescere intorno a me fino a soffocarmi e io che scivolavo in fondo alla miseria più profonda.

* tratto da «Lotta di classe e altri saggi sul socialismo di inizio ’900» (collana Persistenze, prefazione di Goffredo Fofi, pagine 128, euro 14,00) pubblicato nel 2013 da Malcor D’Edizione

http://popoffquotidiano.it/2016/01/12/caro-compagno-tuo-per-la-rivoluzione-rileggendo-jack-london/

il richiamo della foresta | Libro Audio – The call of the wild – Internet Archive e film

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LONDON DEL POPOLO DEGLI ABISSI

http://www.controappuntoblog.org/2012/07/06/london-del-popolo-degli-abissi/

The Scarlet Plague, by Jack London (MPL Book Trailer #154)

John Tavener: 4 composizioni – The Scarlet Plague by Jack …

 

Jack London: una vita per il socialismo

Pubblicato il · in Interventi ·

di Valerio Evangelisti

JackLondon-GuerraDiClasse.jpg[Questo articolo è la mia introduzione a Jack London, Guerra di classe. Il sogno di Debs. Saggi sulla lotta di classe negli Stati Uniti e un racconto, ed. Gwynplaine, 2009, pp. 192, € 14,00.]

Anzitutto liberiamoci delle stupidaggini. C’è chi di recente (Nicola Lagioia) ha messo in dubbio le convinzioni socialiste e rivoluzionarie di Jack London, tanto da definire i conflitti sociali che gli stanno a cuore “occasione”, “contesto”, “apparato scenografico”. Ora, nell’edizione francese delle opere di London, curata da Francis Lacassin (Laffont, 1990), il volume sesto, dedicato ai saggi, ai romanzi, ai racconti, agli articoli di London incentrati sul tema della lotta di classe conta quasi duemila pagine. E mancano molti suoi interventi sulle riviste Masses, The Appeal to Reason, International Socialist Review e altri periodici di sinistra, nonché i testi, mai registrati, di centinaia di conferenze e di comizi a favore prima del Socialist Labor Party, poi del Socialist Party of America.

Come si fa a dire che il conflitto di classe fosse, per l’autore di una quantità tanto imponente di interventi, puro “apparato scenografico”? Certi critici e prefatori dovrebbero, prima di pronunciarsi, informarsi un po’ meglio sull’assieme delle opere dello scrittore che intendono analizzare, e magari sulla sua vita — se non è chiedere troppo. Certo, Lagioia dice, a sua giustificazione, di appartenere a una generazione “cresciuta senza Dio e senza Marx”. Me ne dispiace per lui. Jack London, di sicuro, non era della stessa pasta.
Tutta la prima parte di uno dei suoi romanzi più noti (senza essere dei migliori), Il tallone di ferro (1907), è l’esposizione, in forme divulgative, delle tesi di Marx ed Engels sui più svariati temi: la teoria del plusvalore, le crisi da sovrapproduzione, lo sfociare in guerra delle stesse, l’azione rivoluzionaria, l’inevitabile reazione di une borghesia disposta a dimenticare, di punto in bianco, gli ideali democratici di cui si dice portatrice. Il resto è una critica serrata della socialdemocrazia che, con la sua politica di compromessi, conduce il proletariato alla disfatta. Affrontare temi simili per una vita intera (London si dimise dal partito socialista americano solo l’anno — 1916 — della sua morte, rimpiangendo i tempi del più radicale Socialist Labor Party, a cui aveva aderito nel 1896) sarebbe puro orpello, occasionale e insincero? Non potrebbe crederlo nessun commentatore in buona fede.
Tanto più che London, oltre che ne Il tallone di ferro, tornò a trattare dello scontro sociale e delle teorie marxiane in una quantità di occasioni. Si pensi, oltre ai saggi raccolti nel presente volume, al racconto molto noto Il sogno di Debs (1909), in cui divulga i principi del sindacalismo rivoluzionario, e illustra l’idea di uno sciopero generale capace di mettere termine al capitalismo; o al meno conosciuto I favoriti da Mida (1909), che ha al centro una società segreta proletaria che si incarica di giustiziare, sistematicamente, i magnati dell’industria e della finanza. Erano questi, probabilmente, i “sogni di London” quando conduceva attraverso l’America una vita grama, passando da un lavoro faticoso a un altro più penoso ancora, sperimentando di persona tutte le forme possibili di sfruttamento.
Ciò lo segnò al punto che, divenuto ricco e famoso, e proprietario della fattoria Beauty Ranch (un’esperienza narrata in chiave quasi favolistica nel romanzo La Valle della Luna, 1913), concesse ai propri braccianti salari più che degni e la giornata lavorativa di otto ore, malgrado i malumori e i rimbrotti degli altri proprietari di quella regione della California. Ospitò anche, gratuitamente, tutti i vagabondi che bussavano alla porta della sua abitazione, la “Casa del Lupo” (“Lupo” era uno dei soprannomi di London). Allora, probabilmente, non credeva più nella rivoluzione (La Valle della Luna contiene pagine magnifiche sullo sciopero dei ferrovieri americani e sul suo fallimento); e, mentre accusava il riformismo socialista della disfatta del movimento operaio, in parallelo imputava a se stesso di condurre una vita che lo aveva separato dal proletariato nel cui seno era nato e cresciuto, e per il quale si era battuto come un leone (la “belva bionda di Nietzsche”, per citare Il tallone di ferro).
E’ in questa chiave che va interpretato Martin Eden (1909), uno dei capolavori di London, cupo presagio che anticipa di sette anni il suicidio dell’autore. Eden, figlio delle classi subalterne, cresciuto in tutti gli inferni del capitalismo più spietato, cerca il proprio riscatto nell’affermazione individuale, come scrittore e come uomo. Imbevuto di teorie superomistiche, affascinato da Spencer e dalla sua fede in un progresso inevitabile, cultore dell’individualismo più radicale (la vita sarebbe una corsa di cavalli, in cui devono prevalere gli animali di razza), vede soddisfatte tutte le sua aspirazioni. E’ a quel punto che coglie la solitudine della sua condizione. Ha vinto, ma non gli è rimasto attorno nessuno dei vecchi compagni di lotta e di lavoro. La vita che conduce è falsa e ambigua, e lui non riesce più a sentirla come propria. Passando di disagio in malessere, odiando come odia l’ipocrisia (detesta le opere liriche per ciò che hanno di artefatto), finisce per suicidarsi. L’alienazione cui Eden si è condannato è troppo dolorosa, per essere tollerata.
Racconto autobiografico? In parte sì, ma non per ciò che riguarda l’“ideologia” — metto il termine tra virgolette per rispetto alle definizioni marxiane – fatta propria dal protagonista. Le contraddizioni vissute da Martin Eden sono, in fondo, meno stridenti di quelle sperimentate da Jack London stesso. Partecipante nel 1894 alla marcia di un milione di disoccupati e di affamati, la Kelly’s Army, su Washington, e lì convertito alle idee egualitarie (racconterà l’esperienza, nel 1907, in uno straordinario libro di ricordi: La strada); arrestato nel 1897 per un comizio improvvisato, valutato dalla polizia “incendiario”, a favore del Socialist Labor Party; emarginato nel 1902 nelle vie di Londra, in una discesa all’inferno che narrerà in una testimonianza memorabile (Il popolo dell’abisso, 1903); candidato due volte sindaco di Oakland (nel 1901 e nel 1905) per il Socialist Party of America; conferenziere e agitatore in ambito universitario, quale presidente dell’Intercollegiate Socialist Society, di cui era segretario Upton Sinclair; finanziatore di giornali sovversivi e persino di comitati di sciopero, London fu al tempo stesso uno degli scrittori più letti e amati del suo tempo, e come tale ammesso nei salotti (in cui non rinunciava a preconizzare alla borghesia la sua imminente estinzione), e titolare di guadagni favolosi — se non fosse stata altrettanto favolosa la rapidità con cui li dilapidava.
In Martin Eden confliggevano l’umile origine e la ricchezza acquisita; in Jack London, molto più acutamente, il benessere (che qualche compagno non scordava, di tanto in tanto, di rimproverargli) e le convinzioni che avevano improntato tutta la sua esistenza. Ciò non toglie, naturalmente, che il suo socialismo non fosse esente da contraddizioni, come tutto il socialismo della sua epoca, soprattutto negli Stati Uniti. Colpito da Nietzsche (lo si nota in Il lupo dei mari, in Il tallone di ferro, in Martin Eden ecc.), cercava di conciliarlo con Marx, come facevano alcuni sindacalisti rivoluzionari. La sua soluzione narrativa consisteva nel condannare alla sconfitta, seppur grandiosa, chi si affidava al solo Nietzsche (Eden, Lupo Larsen), mentre una vittoria magari postuma poteva arridere a chi, ai valori individuali, sapeva aggiungere la consapevolezza che non può esistere superuomo che non sia di massa. London, innamorato in gioventù della forma fisica personale, poi condannato quarantenne, dalle droghe e dall’alcool, a un rapido decadimento, vedeva nell’azione collettiva una soluzione ai problemi propri (lo dice a tutte lettere in un saggio diventato celebre, Come sono diventato socialista, 1903), e nell’alleanza tra sfruttati, cioè tra debolezze, la nascita di una forza capace di sovrastare quelle dominanti.
Il nemico che London combatte, anche entro se stesso, è l’individualismo, bersaglio preferito dei suoi comizi. Sembra, in prosa, esaltare l’esatto contrario. Ogni tanto arriva a dire che la supremazia dell’uomo bianco è inevitabile (per esempio nel romanzo L’Avventura, 1913), o a mettere in scena un conflitto tra ariani e classi inferiori, etnicamente contaminate (L’ammutinamento dell’Elsinore, 1912). A chi, di parte fascista — pare incredibile, ma oggi in Italia ci si può tranquillamente e impunemente definire come tali — sostiene queste interpretazioni, è piuttosto facile replicare.
Posto che un’ala del socialismo dei primi del ‘900 era indubbiamente razzista e colonialista — in Italia è il caso di Antonio Labriola, invocato come precursore dai comunisti — Jack London si colloca altrove. Crede in un primato di civiltà della razza bianca, non c’è dubbio. Attribuisce a un suo segmento, gli anglosassoni, l’invenzione dello sport che meglio rappresenta l’indole umana: la boxe. Dai colpi rapidi come le parole inglesi (in La scimmia e la tigre, 1910).
Tuttavia, quando deve celebrare il pugile che idolatra, il nero Johnson, vincitore sul bianco Jeffries, London cambia completamente registro: “Ancora una volta Johnson ha inflitto una disfatta al rappresentante scelto della razza bianca, e questa volta il migliore di tutti. Come altre volte, per lui è stato un gioco” (Il nero non ha mai dubitato, non ha mai temuto, 1910). Seguono lodi non alla forza di Johnson, ma alla sua intelligenza, alla sua determinazione, al suo senso dell’umorismo. Ha demolito il colosso bianco perché motivato. Ha incarnato uno sport anglosassone meglio di un avversario effettivamente anglosassone perché mosso da una convinzione, capace di fargli vincere la paura.
E’ alla luce dei reportages da bordo ring, e dalle novelle sul mondo della boxe, che dovrebbe essere correttamente interpretato un racconto celebre come Il messicano (1911). Lotta individuale, sì, ma condotta allo stremo delle forze per procurare fondi alla causa rivoluzionaria; nell’ambito di un’attività sportiva che l’autore vedeva come sintesi delle pulsioni umane. Cioè un conflitto in cui i muscoli contano meno della volontà, della capacità di soffrire, del respiro di un sostegno collettivo. Il povero messicano non avrebbe mai potuto avere la meglio se non fosse stato parte di un popolo di umiliati in cerca del loro riscatto. Ciò può sfuggire al rappresentante di “una generazione cresciuta senza Dio e senza Marx”. Peccato che, altrimenti, il racconto non abbia senso. Peccato, altresì, che senza partecipazione ideale ed emotiva sia impossibile capire che il superuomo nietzschiano cui si richiama London sia una collettività capace di sommare i propri limiti per superarli, per radunarsi a pugno e con quello colpire.
Quanto alla leggenda del London razzista, si dimenticano — o, quel che è peggio, non si conoscono — i suoi interventi contro gli atroci linciaggi dei neri del Mississippi, o contro l’antisemitismo, o contro il razzismo nei confronti dei giapponesi. Si scorda o si ignora che molti dei suoi bellissimi Racconti dei mari del Sud (1911) denunciano il colonialismo ai danni delle popolazioni asiatiche. Che il cinese Ah-Cho fu da lui scelto, e messo al centro di un racconto, per esemplificare le dinamiche dello sfruttamento fuori dai confini americano-europei (Il Chinago, 1909).
Sì, ma L’avventura, L’ammutinamento dell’Elsinore? Il secondo romanzo, pubblicato nel 1914 e poco conosciuto in Italia, narra la rivolta di una massa umana miserabile, deforme, semi-idiota contro i “signori” che governano un vascello a quattro alberi. Il riferimento insistito è a Il tramonto dell’occidente di Spengler, che sulla nave troverebbe la sua esemplificazione. Ciò ha fatto pensare a uno dei peggiori biografi di London (Robert Baltrop, Jack London: l’uomo, lo scrittore, il ribelle, Mazzotta, 1978) che ormai l’autore avesse rinnegato i propri ideali, e si fosse convertito a un’eugenetica proto-nazista.
Niente affatto. A parte che London, quasi negli stessi mesi, scrisse La forza dei forti, uno dei suoi testi narrativi socialisti più noti ed energici, è un errore identificare il suo punto di vista con quello dello snervato e romantico scrittorucolo che, nel romanzo, narra la storia. Anche Lagioia riconosce l’incredibile capacità di London di indossare panni altrui. Sa descrivere meravigliosamente Lupo Larsen, ma non è Lupo Larsen. Ci fa palpitare con Martin Eden, ma non è Martin Eden. Sull’Elsinore lo possiamo forse identificare con Mellaire, il secondo ufficiale. Colui che dichiara di odiare i sottoproletari che cercano di impadronirsi della nave, ma, in egual misura, i privilegiati che li hanno ridotti in simili condizioni a furia di sfruttarli, generazione dopo generazione. Il pensiero corre a La macchina del tempo di Wells (uno degli scrittori più amati da London), e al conflitto tra i Morlocks, figli degradati della classe operaia, e gli Eloi, discendenti eterei dei loro sfruttatori.
E’ comunque certo che London, nel 1914, nutriva poche speranze sul proletariato quale “belva bionda” che avrebbe azzannato il sistema alla gola. La sua vita era sconvolta da fallimenti, disgrazie, lutti. Il suo partito aveva abbracciato la via del compromesso e, due anni dopo, gli avrebbe rimproverato il suo interventismo e la vita da ricco (più presunta che reale) che conduceva.
L’ultimo scritto socialista di London è comunque datato 6 marzo 1915: una prefazione a un’antologia, The Cry of Justice, dell’amico Upton Sinclair. Un anno dopo dava le dimissioni dallo SPA, rievocando le lotte gloriose del Socialist Labor Party. Nel novembre del 1916 si suicidava.
Privo di dimensione collettiva, l’Übermensch di Nietzsche, ritemprato per decenni alla luce di Marx, rivelava la propria debolezza. E lasciava cadere il corpo sfatto di uno scrittore che era stato un grande socialista, e un grande rivoluzionario. Un superuomo che cercava e trasmetteva amore e solidarietà, coerente fino in fondo.

http://www.carmillaonline.com/2009/12/30/jack-london-una-vita-per-il-so/

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