Secretum di Francesco Petrarca – I’ vidi in terra angelici costumi

pure nel Secretum le tetre e orrende immagini

di morte: basta pensare alla descrizione del

morente nel dialogo primo come può farla chi

davvero ha visto la morte da presso e ne ha

sentito tutto l’orrore; e si spiega anche il dua-ismo che informa tutta questa opera, l’impossibilità del Petrarca a rialzarsi, la continuaoscillazione.

Egli scrive per un sentimento di umiltà; ma più anche per un bisogno di consolazione; perchè il fine vero del Secretum è consolativo: quanto però il poeta abbia ottenuto di consolazione da questa confessione, che ha, pur non essendo in nulla imitata, lo stesso scopo del De consolatione di Boezio, io non so: forse solamente ne ha tratto il paseggiero conforto di dar sfogo al dolore parlando: « se io parlando non mi disfogo io muoio ».

Full text of “Studio sul Secretum di Francesco Petrarca”

Studio sul Secretum di Francesco Petrarca – Internet Archive

Il Secretum è un testo di Francesco Petrarca, poeta italiano del XIV secolo.
Composto tra il 1347 e il 1353, venne reso pubblico solo dopo la morte del poeta.
Il testo è scritto in latino e diviso in tre libri,
Il Secretum è la trascrizione di un dialogo tenutosi tra Francesco e Sant’Agostino (scrittore e teologo in latino vissuto nel IV-V (384-430) secolo d.C., nato a Tagaste nella regione africana della Numidia, al tempo provincia romana, a Milano si converte al cristianesimo e riceve il battesimo da Sant’Ambrogio, tornato in Africa è nominato vescovo di Ippona; tra le sue principali opere ricordiamo: Le confessioni e La città di Dio, entrambe scritte dopo la conversione),   alla presenza silenziosa della Verità, il dialogo ha luogo in tre giorni, a ciascun giorno è dedicato uno dei tre libri.
I due personaggi, Francesco e Agostino,  protagonisti del dialogo, sono le due parti scisse e inconciliabili di una sola persona.Il dialogo tra Agostino e Petrarca si svolge come una confessione, il poeta  si presenta come un malato, un malato che fa molta fatica a guarire.
Sant’Agostino è un medico che conosce perfettamente la malattia di cui soffre il suo interlocutore perché l’ha sperimentata lui stesso, sa anche come guarirla e dispensa rimedi e medicamenti.
Agostino dimostra a Francesco come egli ami ciò che non dovrebbe amare, anzi  dovrebbe odiare: una donna, Laura e la gloria poetica. Sia l’amore per Laura che l’ambizione alla gloria poetica sono dannosi perché impediscono al poeta di disprezzare le cose terrene e volgersi a Dio.
Il libro termina con Francesco che rivolge a sé stesso l’augurio di riuscire a seguire i consigli di Agostino.All’inizio del primo libro, dopo l’incontro con la Verità, che ha l’aspetto di bellissima donna, Francesco si accorge della presenza di un uomo, Agostino.
La Verità suggerisce ad Agostino di aiutare Francesco a guarire da una lunga e pericolosa malattia, che Agostino conosce bene, per averla sperimentata prima di Francesco, ma da cui è guarito.
La quale (la Verità) col rivolgersi a lui, rompendo a mezzo il corso del profondo suo meditare, gli disse: « O a me caro fra mille Agostino, tu conosci costui che ti venera tanto, e sai che la pericolosa e lunga malattia da cui fu preso l’ha quasi condotto vicino a morte; e sebbene infermo, pure ignora in che terribile condizione si trovi: perciò uopo è provedere alla vita di lui, già presso a mancare. Or chi può fornire più acconciamente di te quest’opera pietosa? e tanto più volentieri il farai ch’egli ti portò sempre singolare affetto e reverenza.» (…) 
(nella Prefazione)Il primo libro è tutto dedicato a dimostrare la necessità della meditazione della morte,  il pensiero della morte libera l’uomo dalle passioni terrene e lo rende virtuoso e quindi felice.Aug. Che te ne stai facendo, omiciattolo? che sogni, che speri? forse che non ricordi d’esser nato mortale?
Fr. Ben me ne ricordo; e questo pensiero non mi passa per l’animo senza che io ne abbrividisca.
Aug. Oh fosse pure così! che ed avresti proveduto al tuo meglio e a me cessate assai brighe; dappoichè certissima cosa è che a fare la debita stima dei fuggevoli beni della vita e a tranquillar l’animo dalle procelle che lo conturbano nulla v’abbia di maggior efficacia che la memoria della propria miseria e l’assidua meditazione della morte, quando però essa non iscorra solo a fior di pelle, ma sì addentrisi nelle ossa e nelle midolle. Se non che io temo forte che tu, come avviene ai più in tale argomento, ami di trarre in inganno te stesso.
Fr. E in che modo? di grazia, perchè non mi è chiaro quello che dici.Perché il malato, ovvero Francesco, possa guarire è però necessario convincerlo della necessità di voler guarire; Francesco è infatti convinto di non potere guarire, di essere malato suo malgrado.
Gran parte del primo libro è appunto dedicata a dimostrare la falsità di questa convinzione. Francesco è malato non perché non può guarire, ma perché non vuole.Aug. Tra le molte sciocchezze che sin qui t’uscirono di bocca, una ve n’ha che principalmente mi move a sdegno, ed è l’affermare che alcuno possa essere o divenire infelice contro sua voglia.Per convincere Francesco Agostino utilizza gli argomenti della filosofia antica, in particolare stoica, piegati all’etica cristiana  del disprezzo del mondo e del peccato.

Aug. M’aggrada forte udir di tua bocca tali cose che dimostrano come non discorri a caso, ma sì pensatamente. Pertanto, a non ricader più, abbiti il segno che chiedi. Se qualora mediti la morte non ne resti commosso, vuol dire che fu vano, siccome in ogni altra cosa, il tuo pensiero. Ma se invece un sudor freddo ed un tremito ti assaliranno, se trascolorerai nel sembiante, e già ti parrà di travagliarti di mezzo alle mortali agonie, e ti si scriverà, come a dir, nel pensiero che l’anima non appena uscita del corpo dovrà presentarsi al giudice eterno per rendergli strettissimo conto d’ogni parola, d’ogni atto della vita trascorsa; se, finalmente, vorrai persuaderti che non è da riporre veruna fiducia nella bellezza della persona, nella gloria del mondo, nella potenza dell’ingegno, nella forza o nella ricchezza, perchè quel giudice non può né ingannarsi né essere placato o corrotto; se penserai che la morte anch’essa non tanto dee riguardarsi qual fine delle fatiche, ma qual passaggio; e di mezzo a tutto questo ti si affiggeranno alla mente mille guise di supplizii e tormentatori infiniti, e lo stridore e i gemiti dell’inferno, e i fiumi di zolfo e le tenebre, e le furie vendicatrici e il tremendo aspetto di quell’orribil prigione ove sovrabbonderà ogni male senza termine alcuno, e la disperazione dell’incessante cruccio, e la collera d’un Dio che, inaccessibile al perdono, vivrà in eterno; ove un cosiffatto spettacolo vivamente ti si rappresenti, non già come di cosa imaginata, ma realissima, inevitabile e quasi anzi presente; nè senza fiducia nell’animo, ma pieno di speranza crederai che Dio vorrà prontamente ritòrti a tanti mali, purchè il cuore sospiri alla sua guarigione e a null’altro intenda che a conseguirla e duri nel retto proposito; allora sta a buona speranza che non torneranno inutili le tue meditazioni.

Ma perché la meditazione della morte sia realmente fruttuosa bisogna liberarsi di tutto ciò che lega l’uomo alle cose terrene: le passioni e il corpo.

Aug. (…)E non ravvisi tu in questo concetto del poeta quel quadruplice mostro tanto avverso alla umana natura?
Fr. Anzi nettamente. Ed esso, per rispetto al tempo presente e futuro, in due parti si divide; le quali in due altre suddivise, secondo la nozione del bene e del male, ancora si distinguono. Di cotal guisa fa naufragio la pace dell’animo, messa sossopra da questi quattro venti.

(sono le quattro passioni (pathos) degli stoici, queste sono considerate come totalmente inutili e negative, il sapiente ne è privo: desiderio e timore delle cose future, dolore e gioia delle cose presenti; desiderio e gioia per le cose  buone; timore e dolore per le cose malvage)

Aug. Ben parli. Onde in noi s’avvera il detto dell’Apostolo: Il corpo che si corrompe aggrava l’anima, ed il terreno abitacolo volge in basso lo spirito che si svaga in troppi pensieri. Perchè le visibili cose, sotto inumerevoli sembianze d’imagini, come sieno mediante l’organo de’ sensi penetrate dentro di noi, s’addensano ed a torme irrompono nel più segreto dell’anima, e tutta ingombrano e combattono la sua spirituale sostanza, che mal può reggere a tanta guerra. Da ciò quella pestilenza di fantasmi che miseramente straziano la mente e chiudono il sentiero alle contemplazioni de’ sublimi oggetti che soli ci possono essere di scala al cielo.

Nel secondo libro Agostino sottopone Francesco a un esame di coscienza passando in rassegna i vari peccati: la superbia, l’amore per il sapere e l’eloquenza, l’invidia, l’avarizi, l’ira, la gola . Francesco  da alcuni si discolpa e altri li riconosce, tra questi la libidine e l’accidia.
Aug. L’ animo tuo è dominato da una cotal peste che i moderni chiamano accidia e gli antichi dissero egritudo
Fr. Al nome solo ne inorridisco.
Aug. Certo perchè ne fosti travagliato sì a lungo.
Fr. Sì, è vero; ma in codesta mia infermità non m’avvenne ciò che nelle altre, le quali contengono una non so quale falsa dolcezza mista all’amaro; perchè tutto in lei è tristo, misero, aspro ed orrendo, tutto mena alla disperazione e a quegli eccessi che trascinano gl’infelici al precipizio. Oltre a ciò, frequenti, sì, ma brevi e momentanei sono gli assalti che mi danno le altre passioni, ma questa maligna e tenace tanto mi stringe che nè giorno nè notte allenta le sue catene; ed allora non è intorno a me luce quella che splende, ma notte d’inferno, non vita che io goda, ma acerbissima morte. E per colmo di sventura, mentre di sì fatta guisa essa mi accuora e dolorosamente m’affrange, io mi sento preso da una cotal voluttà che non posso strapparmi dalle sue braccia senza provarne rincrescimento.

Nell’ultimo libro Agostino spiega a Francesco come egli sia prigioniero di due catene: l’amore e la gloria.
Aug. Due catene d’adamante a destra e a sinistra ancora ti cerchiano; le quali non consentono al pensiero di ben comprendere che sia la vita e la morte. Io paventai sempre che tu, a esse trascinato, non precipitassi nell’abisso. E non me ne chiamerò sicuro finchè non vegga che tu, collo spezzarle e gettarle lungi da te, ne resti libero e sciolto.
(…)Fr. E che catene son queste?
Aug. L’ amore e la gloria.

Agostino spiega a Francesco come queste catene lo abbiano traviato .

Aug. Ella (Laura), dilungandoti dall’amore del cielo, in cambio del creatore ti fece inchinar l’animo alla creatura, e ciò fu che agevolmente ti menò a morte.
Fr. Non sia così affrettato il tuo giudizio. Io ti so dire anzi che l’amore di lei mi condusse a quello di Dio.
Aug. Però ne ha sconvolto l’ordine.
Fr. Di che guisa?
Aug. Perchè, essendo dover nostro di amare ogni creata cosa per amor del creatore, tu per contrario, pigliato all’amo dalle dolcezze della creatura, non amasti il creatore secondochè conveniva, ma così riguardasti al supremo artefice come se nulla più eccellente di lei fosse uscito dalle sue mani. E non rammentavi intanto che tra le cose belle l’ultima è la leggiadria della persona.

Ma nonostante i  rimproveri di Agostino Francesco rimane fermo nelle sue idee, e afferma di amare e desiderare solo le cose mortali, a queste parole Agostino inorridisce, il dialogo procede ancora un poco tra scambi di battute, ampie riflessioni e citazioni di autori antichi 

Fr. Non mi torna nuova, quella vecchia e volgare, leggenda de’ filosofi che racconta la terra tutta essere simigliante ad un piccolissimo punto rispetto all’animo umano che abbraccia infinite migliaia di anni, e la fama non giunger mai a riempiere nè questo punto nè l’animo: con siffatte parole si adoprano essi a temperarci dal soverchio amore della gloria. Ma tu cibami, se puoi, di più vital nutrimento; perchè cotesto che costumano metterci innanzi non è altro che nuda apparenza, secondo che ebbi ad esperimentare in me stesso. Io non presumo già a divenire un altro dio, sì che posseda l’eternità ed abbracci la terra ed il cielo. L’umana gloria, a cui sospiro, mi basta; e, mortale uomo, non altro bramo che cose mortali.
Aug. Oh tapino di te, se così parli davvero! Ove tu non curi i beni immortali, ove non dirizzi lo sguardo a quanto lassù ne aspetta, certo convien dire che abbi il cuore di fango. Niun’altra speranza ti resta; sei perduto!

Alla fine del dialogo Francesco augura a sè stesso di riuscire a seguire la retta via indicatagli da Agostino.


Aug. Fa tuo conto d’essere esaudito, purchè tu non abbandoni te stesso. Noi allora non potremmo più dimorare con te.
Fr. Io veglierò, per quanto siami possibile, a raccogliere gli sparsi frammenti dell’ animo mio, tenendo severa ragione di me con me stesso nel mio segreto. E frattanto che parliamo, molte e gravi cure, benchè mortali, aspettano l’opera mia.
Aug. Al volgo parrà che, oltre alle cure dell’anima, altre ve n’abbia, e forse di maggiore importanza. Ma certo non può darsene alcuna che arrechi maggior frutto ed utilità. Questa sola è necessaria, superflue le altre; siccome ci mostra il fine a cui è mestieri che ogni cosa metta capo.
Fr. Ed io, te la confesso, desidero forte di levarmi dattorno ogni impiccio e, al più presto che da me si possa, consacrarmi tutto a quanto principalmente m’incombe. Nè ignoro, secondo il consiglio che poco sopra mi porgevi, che da ciò solo debbo ripromettermi ogni sicurezza; dappoichè, fatto scorto dei pericolosi sentieri, m’avvierò diritto alla salute. Ed oh foss’ io più valente nel frenare le mie cupidigie!
Aug. Ricadiamo nelle antiche querele, perchè tu dai il nome d’impotenza alla fiacchezza della tua volontà. Ma, se altro non puoi, sia pur così! Di tanto solo prego Iddio che conceda a me e alla Verità d’accompagnarti sempre nel tuo mortale cammino. Ed oh! che, quantunque sin qui tortuoso, riesca a condurti un giorno nel porto di sicurezza.
Fr. La tua preghiera s’adempia! Ed io, mercè l’aiuto divino, liberato da tanti pericoli, sappia venir dietro al suono della tua voce, che paternamente a sè mi richiama. Ma deh! che i miei passi, mentre ti seguo, non sollevino la polvere terrena per guisa che mi si offuschi la vista: s’acquetino le tempeste dell’animo; taccia il mondo, e la fortuna non più m’assordi.

Nel Secretum Petrarca attraverso il dialogo tra un immaginario sé stesso e Sant’Agostino sottopone a critica la visione del mondo cristiano medievale del disprezzo del mondo e della repressione dei desideri terreni. Mentre l’etica cristiana del Medioevo afferma il disprezzo del mondo e la necessità della meditazione della morte e dell’eliminazione delle passioni terrene, Petrarca aspira all’umana gloria, desidera cose mortali, e nonostante preghi perché Dio lo salvi non sa abbandonare le cose terrene: Laura e la gloria poetica.

Postato 16th September 2012 da cm

http://lezionitaliano2013.blogspot.it/2012/09/francesco-petrarca-secretum-meum-de.html

I’ vidi in terra angelici costumi
et celesti bellezze al mondo sole,
tal che di rimembrar mi giova et dole,
ché quant’io miro par sogni, ombre et fumi;

5et vidi lagrimar que’ duo bei lumi,
ch’àn fatto mille volte invidia al sole;
et udí’ sospirando dir parole
che farian gire i monti et stare i fiumi.

Amor, Senno, Valor, Pietate, et Doglia
10facean piangendo un piú dolce concento
d’ogni altro che nel mondo udir si soglia;

ed era il cielo a l’armonia sí intento
che non se vedea in ramo mover foglia,
tanta dolcezza avea pien l’aere e ’l vento.

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