Introduzione al Rinascimento – 14. Lo statuto dell’imitazione in due lettere di Petrarca a Boccaccio, lettere canzoniere ed altro

Il rapporto tra Petrarca e Boccaccio è certamente l’evento decisivo nella formazione e diffusione dell’Umanesimo: dopo il primo incontro, a Firenze, nel 1350, è un susseguirsi di contatti e soggiorni, di scambio continuo di lettere e di libri (nel 1351 a Padova, 1359 a Milano, 1363 a Venezia, 1368 a Padova). Nel corso degli anni, tra i due si definisce un’intensa amicizia, una compiuta e sodalitas, formalizzata nel riconosciuto primato del maestro (Petrarca) sul discepolo (Boccaccio).

Nella lettera dell’ottobre 1359 (Familiares

, XX 2), Petrarca prende spunto dalla riconosciuta necessità di apportare correzioni a un suo testo poetico in latino (un’egloga del Bucolicon carmen), per proporre alcune riflessioni sia sul lavoro del poeta (sul suo stile) che, più complessivamente, sull’imitazione.

La scrittura letteraria – secondo Petrarca – è un lungo gioco di pazienza, un attento ascolto, senza fretta, della voce della poesia: per migliorare, correggere, rivedere. Esattamente l’esperienza dei Rerum vulgarium fragmenta, e non solo l’esecuzione dei memorabili precetti dell’Ars poetica di Orazio sulla lentezza esecutiva che deve essere propria dello scrittore, sull’indispensabile lungo lavoro di revisione e correzione (v. 291: “poetarum limae labor”, cioè “il lavoro di lima dei poeti”; v. 388: “nonumque prematur in annum”, cioè “sia tenuta [l’opera] per nove anni al chiuso nei cassetti”).

Petrarca enuncia una sorta di legge generale che governa la competenza culturale: noi scrittori sbagliamo di più in quello che meglio conosciamo, e di meno in quello che conosciamo poco; la famigliarità è, dunque, un rischio. A cosa intende riferirsi Petrarca? La competenza di cui parla è tutta letteraria, e riguarda l’esercizio della memoria di ciò che si è letto: e qui – si badi bene – Petrarca parla soltanto di testi di autori classici latini. Questa memoria che può sbagliare è quella che presiede al riuso, cioè la memoria dell’imitazione: se hai letto una sola volta, e anche in fretta, Ennio, Plauto, Apuleio, ne potrai ricavarne alcuni luoghi memorabili da conservare, tutti di scarso valore, e immediatamente riconoscibili, quando li riutilizzerai. Ma gli autori che hai letto e riletto mille volte, e sempre con la massima attenzione (Virgilio, Orazio, Tito Livio e Cicerone), li hai completamente assimilati, sono diventati te stesso: per questo diventa difficile riconoscerli nella loro veste originaria, quando li riutilizzerai.

Questo apologo riguarda, dunque, l’imitazione, la sua forma profonda. Petrarca propone due immagini di grandissimo radicamento e diffusione nella cultura europea tra Medioevo ed Età moderna: quella della memoria come edificio (strutturato in più ambienti, preceduti da un vestibolo), e quella della lettura come alimento, cibo. Tutt’e due immagini di fondazione classica e tradizione medievale (la seconda nel fortissimo cronotopo simbolico del convito). E la metafora alimentare è scandita con precisione da Petrarca: leggere equivale a mangiare, cioè a digerire e assimilare; il corpo testuale del libro letto si trasforma nel corpo culturale del lettore.

Come è possibile non correre il rischio di essere scoperti in flagrante di furto? Petrarca risponde affermando la piena autonomia dello stile, in quanto identità propria di ciascun scrittore, sua forma autentica, che si alimenta con le massime e le sentenze degli Antichi, che ne sono i materiali di costruzione. E poi propone un’altra immagine fondamentale, un nuovo emblema stabile dell’imitazione classica e classicistica: quella delle api, che da molti e vari fiori producono un solo miele: “ut imitatione apium e multis et variis unum fiat” (“in modo che, mediante l’imitazione delle api, da molte cose e diverse ne venga fuori una sola e nuova”: la fondazione classica del topos è in Seneca, che nelle Ad Lucilium epistulae morales aveva sentenziato: “apes debemus imitari”, cioè “dobbiamo imitare le api”; lo stesso tema ricorre anche in Orazio e Macrobio). Il miele, cioè uno stile unitario e originale da molte letture di diversi autori.

A questo emblema positivo e virtuoso Petrarca ne oppone uno negativo e vizioso: l’istrione, cioè l’attore, che passa da un travestimento all’altro, senza mai essere davvero nessuno dei personaggi che interpreta. Se a lui sta bene ogni costume, non così allo scrittore, che non può avere uno stile qualunque: “omnis vestis histrionem decet, sed non omnis scribentem stilus”, per evitare la brutta figura della cornacchia della favola di Esopo e Fedro (ancora un topos entrato nei modi di dire proverbiali: “vestirsi con le piume del pavone”). Petrarca insiste molto su questo punto, anche ricorrendo a un grappolo di allegazioni citazionali dagli autori che più ha assimilato.

Non c’è dubbio: per Petrarca questo punto è davvero decisivo. Nel momento stesso in cui è impegnato a fondare la piena consapevolezza dell’istanza classicistica dell’imitazione (la sua forma produttiva profonda, il suo senso culturale e antropologico), Petrarca pone con altrettanta forza il problema della riconoscibilità di chi la esercita, in quanto autonomia del suo stile: se imitare equivale a saper riusare ciò che è stato assimilato, non può essere pedissequa ripetizione, né servile riproduzione, perché un conto è la rassomiglianza (similitudo) e un conto è la copia (identitas). E anche per la rassomiglianza è sempre questione di misura: non deve mai essere eccessiva (nimia), perché sia riconoscibile l’ingegno del virtuoso imitatore.

Petrarca gioca poi la carta decisiva. Precisa cosa significa assumere Virgilio come guida (dux): non per essere a lui incatenato a ogni passo, ma per poter seguire, in libertà e autonomia, la strada da lui indicata. E infatti torna all’egloga da cui la lettera era partita, proponendo due varianti che sfumino la troppo scoperta dipendenza da versi classici: da Virgilio, nel primo caso, da Ovidio, nel secondo. Due piccoli esempi concreti di come l’imitazione debba essere il frutto di un lavoro paziente di assimilazione profonda, più che di prelievo elementare e troppo scoperto e immediatamente riconoscibile: solo in questo modo il prodotto è autenticamente originale e il rapporto imitativo resta nascosto.

La seconda lettera a Boccaccio (Familiares, XXIII 19) è datata 28 ottobre 1365, ed è anch’essa bipartita.

Nella prima parte Petrarca narra la positiva esperienza compiuta con un adolescente, di origini povere ma d’ingegno acuto e di singolare predisposizione alla poesia, che ha avviato agli studi letterari, mettendolo a parte del suo metodo di lavoro e delle sue opere (Petrarca ricorda la velocità con cui questo giovane ha memorizzato il suo Bucolicon carmen e la facilità con cui ha provveduto al difficile riordino delle Familiares), con tale corrispondenza d’intenti e d’affetti, da considerarlo come un figlio.

Nella seconda parte, Petrarca torna ad affrontare il cruciale problema dell’imitazione. Auspica che questo giovane possa impadronirsi della sua forma più profonda e autentica, quella che riguarda al tempo stesso l’animus (“l’animo”) e lo stilus (“lo stile”), e che consiste strutturalmente in una procedura di assimilazione tale da nascondere l’imitazione stessa, da rendere non più riconoscibile la fonte, conquistando l’originalità: “et imitationem non dicam fugiet sed celabit, sic ut nulli similis appareat sed ex veteribus novum quoddam Latio intulisse videatur” (“e l’imitazione non dirò che fugga ma che nasconda, cosicché non appaia simile a nessuno, e si possa dire che tra tante cose vecchie abbia portato nel Lazio qualcosa di nuovo”; ed è da notare che ancora una volta in questa battuta Petrarca cela un prelievo: Latio intulisse è microcitazione da Orazio).

Il magistero petrarchesco ha subito impresso nel giovane un’impronta indelebile: la sua guida per la scrittura poetica, il suo punto obbligato di riferimento non può che essere, ovviamente, Virgilio; e funziona anche come pratico banco di prova, per saggiare montaggi di versi tramite prelievi di pezzetti (particulas) virgiliani.

Da questa esperienza di formazione letteraria, Petrarca coglie l’occasione per ribadire la legge generale dell’imitazione già proposta a Boccaccio nella precedente lettera, in chiave di rassomiglianza e non di copia: “curandum imitatori ut quod scribit simile non idem sit” (“chi imita deve fare attenzione a che quanto scrive sia simile e non identico”). Ora Petrarca precisa con estrema cura che cosa debba essere l’economia di questo simile: non la rassomiglianza di un ritratto pittorico, bensì la rassomiglianza che unisce il padre e il figlio. Non la secca istanza iconica dell’identità, bensì l’ombra, anzi l’aura (aerem) di un rapporto sfumato, che alluda e al tempo stesso nasconda.

Questo snodo argomentativo è davvero straordinario: Petrarca evoca direttamente il rapporto di parentela tra poesia e pittura, mettendo in gioco proprio una delle parola’chiave di tutta la sua poesia (“umbra quaedam et quem pictores nostri aerem vocant”, cioè “una certa ombra che i nostri pittori chiamano aria”: questa “aria” dei pittori è l’aura dei Rerum vulgarium fragmenta); e così Petrarca annette la capacità evocativa dell’imitazione per rassomiglianza e non per copia all’economia primaria della memoria.

Petrarca va poi oltre, riprendendo il tema dello stile, già svolto nella precedente lettera a Boccaccio, ed enunciando questa nuova regola generale: “utendum igitur ingenio alieno utendumque coloribus, abstinendum verbis” (“occorre usare l’ingegno altrui, occorre usarne i colori, ma occorre astenersi dall’uso delle parole”). Il rapporto imitativo tramite la similitudo (“somiglianza”) deve evitare una meccanica dipendenza verbale (tramite semplici prelievi citazionali: alla lettera), perché sono troppo facilmente riconoscibili. L’imitazione resta nascosta, invece, quando si opera sul piano dell’ingenium e dei colores (nel senso di “carattere”, “stile”): questa volta il rischio che Petrarca denuncia non è più quello dell’istrione, bensì – in modo ancor più feroce ‘ quello delle scimmie. E poi, introducendo un elemento destinato a diventare topico nel dibattito successivo sull’imitazione, Petrarca utilizza ancora una volta il topos classico delle api.

http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=rinascimento_saggi_introduzione_rinascimento_capitoli_f_17

neuroni specchio: imitazione, comprensione, condivisione

Felix qui potuit rerum cognoscere causas – ECLOGA I: Virgilio

Lettere di Francesco Petrarca: delle cose familiari … – Internet Archive

Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) – Wikisource

Scritto da Silvia Masaracchio
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