La scuola secondo Quintiliano – Institutio oratoria libro X: – 85 – l’ ATTIMO FUGGENTE

Idem nobis per Romanos 1 quoque auctores ordo ducendus est. Itaque ut apud illos Homerus, sic apud nos Vergilius auspicatissimum dederit exordium, omnium eius generis poetarum Graecorum nostrorumque haut dubie [ei] proximus. [86] Utar 2 enim verbis isdem, quae ex Afro Domitio 3 iuvenis excepi 4, qui mihi interroganti, quem Homero crederet maxime accedere: secundus, inquit, est Vergilius, propior tamen primo quam tertio 5. Et hercule ut illi 6 naturae caelesti atque inmortali cesserimus 7, ita curae et diligentiae vel ideo in hoc plus est, quod ei fuit magis laborandum, et quantum eminentibus vincimur, fortasse aequalitate pensamus 8. [87] Ceteri omnes longe sequentur. Nam Macer 9 et Lucretius 10 legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae, faciant, elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter difficilis. Atacinus Varro 11 in his, per quae nomen est adsecutus, interpres operis alieni, non spernendus quidem, verum ad augendam facultatem dicendi parum locuples. [88] Ennium 12 sicut sacros vetustate lucos adoremus, in quibus grandia et antiqua robora iam non tantam habent speciem quantam religionem. Propiores alii atque ad hanc, de qua loquimur, magis utiles. Lascivus quidem in herois 13 quoque Ovidius et nimium amator ingenii sui, laudandus tamen partibus.

Noi dobbiamo seguire lo stesso ordine anche per gli autori latini. Perciò, come Omero presso i Greci, così per noi a dare un desideratissimo inizio all’epica fu Virgilio, senza dubbio il poeta più vicino a quello tra tutti i poeti di questo genere, sia greci sia latini. [86] Infatti mi servirò delle stesse parole che da giovane ascoltai da parte di Afro Domizio, il quale, quando gli chiesi chi credesse che più di tutti si avvicinasse a Omero, disse: “Il secondo è Virgilio, più vicino al primo che al terzo”. E, per Ercole, come dobbiamo ritirarci di fronte a quella natura celeste e immortale, così c’è in questo (poeta) una cura e un’attenzione tanto maggiore perché egli dovette affaticarsi di più, e quanto siamo sconfitti nelle parti migliori, forse però compensiamo per uniformità. [87] Tutti gli altri verranno dietro a distanza. Infatti Macro e Lucrezio vanno letti, non perché insegnino la frase, cioè il cuore dell’eloquenza, ma sono eleganti ciascuno nel suo genere, l’uno modesto, l’altro difficile. Varrone Atacino, interprete del lavoro di altri in quelle opere per le quali ottenne la sua fama, non va certamente disprezzato, ma fu poco importante per la crescita della capacità di parlare. [88] Veneriamo invece Ennio, come facciamo con i boschi sacri per la loro antichità, nei quali le grandi e antiche querce non hanno ormai una bellezza pari alla loro sacralità. Altri sono più vicini e più utili a ciò di cui parliamo. Anche Ovidio, certamente lezioso nei versi eroici ed eccessivamente amante del suo ingegno, tuttavia per alcune parti bisogna lodarlo.

Libro X – 85 Quintiliano

Il programma di studi

Nella scuola del grammatico era previsto lo studio della grammatica, ritenuta da Quintiliano fondamento stabile per la formazione del futuro oratore; studiata non soltanto per conoscere le regole della lingua, o per chiamare meglio il senso dei testi, ma penetrando nei suoi misteri, vi si scopriranno mille finezze che non soltanto acuiscono l’intelligenza, ma coltivano l’erudizione e la scienza più profonda.

Oltre alla grammatica, per Quintiliano, le discipline che il futuro oratore deve studiare erano la musica, la geometria, l’astronomia, la storia, la filosofia, la retorica e la conoscenza del diritto civile, della recitazione, dei costumi e della religione dello stato in cui vive.

Lo studio della musica perché, Quintiliano dichiara,  un’orazione ha una struttura musicale; una struttura armonica che ha la sua efficacia nell’impressionare gli animi, analogamente a quell’ottenuta con gli strumenti musicali. Ritiene necessaria per l’oratore anche la conoscenza della geometria (distinta in scienza dei numeri e scienza delle figure) perché in quel periodo, a Roma, si avevano scarse cognizioni di questa disciplina. Quintiliano accenna alla necessità delle conoscenze astronomiche; egli ne tratta come un’estensione della geometria, perché è questa che insegna come i movimenti degli astri siano certi e regolari.

La storia è per Quintiliano un genere analogo alla poesia; essa non serve per dimostrare, ma per narrare, per conoscere e meditare i più nobili fatti che l’antichità ci ha tramandato.

Il futuro oratore deve conoscere la filosofia, e particolarmente la filosofia morale, la quale comprende anche il diritto civile. Quintiliano ritiene che i problemi della filosofia, per quanto concerne l’educazione, sono di competenza dell’oratoria, e che soltanto per motivi storici essi siano stati trattati, quasi in esclusiva, dai filosofi. Pertanto, Quintiliano, pur ritenendo che l’oratore non deve trascurare i filosofi, lo invita a trarne solo ciò che gli è utile, e non accettarne le conclusioni strettamente tecniche, che sono astratte e assai lontano dalla realtà.

Quintiliano ritiene opportuno lo studio anche della recitazione, per la quale consiglia all’alunno di prendere lezioni da qualche attore, non per fare il commediante, ma per apprendere e ben pronunciare le parole, ad usare il giusto tono della voce e a gestire in modo adeguato il discorso.

Ma a che servono, si chiederanno alcuni, tali discipline (come ad esempio, saper riconoscere i suoni di una cetra), per difendere una causa o reggere un’assemblea? Quintiliano esamina questa necessità e risponde che tali discipline giovano a formare l’oratore, anzi l’oratore perfetto, colui che in nessuna sua parte è manchevole. Egli a tal proposito formula un esempio: “come api che compongono, dai succhi di mille fiori diversi, quel miele il cui sapore l’uomo non è capace di imitare”[1][4].

La partecipazione dell’educando a questo atto educativo viene riconosciuta libera e attiva, suggerendo all’alunno di approfondire per conto proprio gli argomenti, studiati a scuola, con altri libri ed altro materiale utile a chiarire ed estendere gli stessi argomenti.

L’età del passaggio dal grammatico al retore dipende dal livello del sapere tratto dagli studi; passerà, in altre parole quando ne sarà capace. Pertanto, i professori di retorica cominceranno il loro insegnamento là dove è arrivato quello del grammatico.

Nella scuola del retore il minore impara a comporre e l’esercizio è il mezzo necessario per quest’apprendimento. L’esercizio del comporre, per Quintiliano, comprende due problemi: “Come e che cosa comporre”. Egli tratta del primo nel cap. X e III e del secondo nel X e V.

Come comporre, occorre, dice Quintiliano, che l’esercizio sia sorretto dal metodo; bisogna abituare gli alunni a non scrivere molto, ma diligentemente e accuratamente. Ogni componimento deve avere tre qualità: essere corretto, chiaro e ornato (adeguato). L’esercizio del comporre non potrebbe avere alcun’efficacia se non si sapesse che cosa comporre; lo scrivere è frutto di studio e di preparazione ma l’esercizio del comporre ha bisogno di una guida che è data dalla lettura.

In quanto agli argomenti da scegliersi per l’esercizio del comporre, Quintiliano comincia con il suggerire di tradurre dal greco al latino, esercizio molto usato dai grandi oratori. Esercizio assai utile, gli autori greci infatti sono ricchi d’erudizione e molta arte portano all’eloquenza. Gioverà, poi, il volgere le poesie in prosa perché fa sì che le cose dette nei versi si possono esprimere, in prosa, con termini diversi. Quintiliano consiglia anche di parafrasare orazioni latine, perché quest’esercizio esige una lettura attentissima che non faccia trascurare nulla del testo; consiglia anche di rifare più volte, in forme diverse, lo stesso componimento, specialmente quello che parli di cose semplicissime, perché in tal caso è più difficile trovare diverse forme d’espressione.

Come esercizi di composizione indica, inoltre, le tesi, il confutare o l’approvare le sentenze. Infine nella stesura finale degli scritti bisognava effettuare il lavoro di correzione e come miglior metodo per attuarlo era quello di riporli per qualche tempo, perché, diceva Quintiliano, spesso non si è in grado, per motivi affettivi nei confronti del proprio lavoro, di giudicarli adeguatamente; quando invece si lascia scorrere del tempo, l’autore non ha più “quell’affetto paterno” verso i suoi scritti e li legge come se fossero lavori di un altro, ed è pertanto più sereno nel giudicarli.

Nel concludere queste note, possiamo affermare, che tutti i suoi principi, riflessioni, intuizioni e consigli sul modo di studiare si racchiudono in una sola figura: quella del maestro. E quando nel finale del suo testo, egli dice che se la sua opera, forse, non potrà dare ai giovani una grande utilità, almeno potrà incitare la loro buona volontà, egli traccia nella figura del buon maestro, che ci ha descritto, il proprio ritratto.

La scuola secondo Quintiliano

Quintiliano esalta il valore educativo della scuola come comunità: l’insegnamento individuale è soltanto istruzione vi si appagano i mediocri che non sono capaci di assurgere alla funzione del maestro. L’insegnamento collettivo è invece vera educazione, vera formazione. L’insegnante del singolo discepolo si limita ad illustrare la scienza; l’insegnante della comunità ha nell’uditorio numeroso lo stimolo ad esprimere tutta la propria umanità, pronta a svelarsi quando sente di essere intesa e ad incontrarsi con l’umanità degli altri. La scuola pubblica è una piccola società nella quale l’alunno apprende a vivere socialmente.

E’ nella scuola come comunanza che si apprende il senso comune. Nella scuola il discepolo trae motivo di miglioramento non solo dal maestro, ma anche dai condiscepoli ed egli impara cosi, anche, a comprendere come sia utile ad ogni individuo l’apporto dell’intelligenza e della laboriosità degli altri. Il confronto con i condiscepoli evita intanto che l’isolamento faccia languire la mente e la conduca al buio, o al contrario che la gonfi di una tronfia superbia.

Egli non si preoccupa dunque della finalità che potrebbe conseguire la scuola collettiva come scuola statale, e particolarmente delle finalità politiche prospettate dai suoi predecessori, ma piuttosto dei migliori risultati che può conseguire l’educazione scolastica nei confronti dell’educazione individuale. La scuola per Quintiliano è vista nella sua complessità e in questa complessità egli scopre un valore formativo particolare, anzi forse, il vero mezzo formativo: è a scuola che ci si forma davvero uomini, è a scuola che il maestro può diventare davvero un educatore.

Quintiliano comprende il valore educativo della scuola, vedendo in essa la vera e l’unica istituzione educativa; e sente che la scuola va al di la delle parti che la compongono e delle attività che vi si svolgono, perché unifica tutto in un significato nuovo, in un nuovo valore.

Egli esamina gli argomenti che si possono addurre contro o in favore o contro a ciascuna soluzione. Innanzi tutto le conseguenze morali. In famiglia, certamente è più facile curare la moralità che non a scuola dove, tra la turba dei fanciulli, ve ne saranno certamente di peggiori e di maggiormente portati al vizio. E Quintiliano dichiara, a questo punto, che se risultasse che le scuole giovano agli studi ma nuocciono alla morale, sarebbe preferibile saper vivere onestamente, più che parlare bene; le due cose sono in verità inseparabili, ma se pur si potessero separare, meglio non essere oratore che non essere vir bonus.

Quintiliano intende difendere la scuola; sul piano dei pericoli morali la famiglia e la scuola sono sullo stesso piano. Anzi, a rifletterci bene, la scuola in se stessa non può essere causa od occasione d’immoralità: se lo è, è perché la famiglia manda a scuola minori già viziati, già corrotti, e non è quindi a scuola che prendono questi mali, ma nella scuola li portano.

La mediazione educativa è opera, per Quintiliano, della cultura; essa è l’anima essenziale del processo formativo. Quintiliano è dunque per una scuola di cultura (e non poteva essere diversamente dato il fine particolare che si prefiggeva) ma bisogna rilevare due importanti osservazioni: la prima è che egli ha un senso vivo della cultura, una cultura dinamica, formativa; la seconda è che Quintiliano sente il valore della partecipazione attiva del discepolo alla scuola. La cultura per Quintiliano non è un arido sapere o una mnemonica erudizione, ma il frutto dell’esperienza dell’uomo. Essa ci serve perché ci mostra la strada che hanno percorso coloro che ci hanno preceduto, e ci facilita, pertanto, l’inizio della strada che dobbiamo percorrere noi.

In quanto al numero delle discipline, egli le prevede varie perché ritiene che tutte le scienze debbano essere conosciute dall’oratore. La duttilità intellettiva non farà avvertire noia e stanchezza e favorirà un apprendimento proficuo e consistente. La cultura è, dunque, per Quintiliano, come una ricchezza da accumulare per servirsene al bisogno.

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