Serge Gainsbourg Monsieur La Décadence, qualche video, Aux armes et caetera full

L’onta di nascere ebreo e l’orgoglio di una stella gialla. La bruttezza esteriore e la consapevolezza di sé. La pittura e la musica. La misoginia e la dipendenza dalle donne. L’edonismo conturbante e l’ingratitudine del tempo. Mille amanti e Jane Birkin. Il cinismo e l’ironia. La sensualità e la sessualità. Il disprezzo del denaro e il delirio del lusso. La grazia e il peto. Il cinema e la pornografia. Charlotte e l’incesto. Brigitte Bardot e i rastafari. Le scarpette da ballerino e ottanta Gitanes. Lo charme e l’alcol. L’uomo a testa di cavolo e Salvador Dalì. Bambou e Lulu. La sfrontatezza e la morte.
Artista poco incline alle maglie troppo strette dello spazio e del tempo, Serge Gainsbourg ha preso la realtà e l’ha sgretolata per rimodellarla con il tocco di una divinità pagana, generando polimorfismi musicali, cambiando i connotati a un eterno femminino sempre cangiante nella forma ma identico a sé nella sostanza, erigendo piramidi di cristallo e demolendo desideri ingannevoli, esaltando la grazia della figura e deplorando la tragedia della corporeità.
Gentiluomo della parola, padrone della melodia, signore della visionarietà, destinato a nascere, vincendo la sorte di un aborto fallito, e a brillare sino a bruciare, Monsieur Gainsbourg è riuscito a convincere la Francia e il mondo del proprio fascino con il dono di una colonna sonora eternamente bella, molteplice, intrigante.
Il nastro è lungo poco più di un trentennio e noi abbiamo cercato di coglierne le infinite sfumature – chanson d’autore, jazz, esotismo, psichedelia, reggae, new wave, rap – con l’incanto di una storia che, per sua stessa natura, nasce e muore irripetibile.

Lulu le juif

Quartiere Pigalle, Rue de la Perdition, estate 1927. Olia Besman è una giovane ucraina sposata a Joseph Ginsburg, pianista dal grande talento e dalla drammatica emotività. La coppia ha già un figlio, Marcel, e una bambina, Jacqueline. Un’altra creatura è un passeggero dippiù, occorre sgravarsene.
L’ambulatorio di Pigalle, però, è troppo squallido, Olia ne è inibita e, repentinamente, cambia idea. Il piccolo Lucien nasce, con la gemella Liliane, qualche giorno dopo l’equinozio di primavera, il 2 aprile 1928. La dipartita di Marcel canalizza l’attenzione di Olia verso quell’unico figlio maschio, che, già dalla nascita, per i genitori sarà il prediletto Lulu.
Joseph è un ebreo liberale, distante dalla teatralità del cerimoniale, e molto più concentrato sull’arte e sull’educazione alla bellezza della propria prole, destinata a una mutazione genetica del proprio Dna attraverso una francesizzazione nemmeno troppo occulta. La famiglia Ginsburg continua a vivere a Parigi, con i proventi dell’attività concertistica di Joseph, apprezzato musicista itinerante da un’orchestra all’altra. Una perfetta integrazione, tuttavia, non neutralizza l’onta di un’appartenenza, e, all’indomani dei totalitarismi, essere ebrei, benché non praticanti, rappresenta un onere, una costante minaccia dalla quale difendersi, nella corsa alla sopravvivenza. Le vicende precipitano e la famiglia Ginsburg è ben presto identificata. Il piccolo Lulu, studente modello, precocemente auto-didatta al pianoforte, è costretto ad appuntare una stella gialla sulla giacca della sua uniforme scolastica. È l’inizio di una possibile fine, che, però, si trasforma in una fuga, in un continuo sfuggire al delirio d’onnipotenza anti-semita nelle campagne parigine, in una separazione familiare coatta, in cui la strada del sotterfugio diventa quella privilegiata, sino alla liberazione e al ritorno in città.

Serge Gainsbourg1944, di nuovo a Parigi. Lulu è cambiato. La scuola è una camicia di forza, la gente annoia, l’onta della persecuzione lascia un senso di desolante amarezza. L’abito dell’adolescenza, per il sedicenne, è quello di un maudit in erba, ricamato dall’arte, dalle sigarette e dall’estasi dell’arcano femminile. Ancora vittima di un’esteriorità poco felice, invincibile nel suo rapportarsi con le donne, Lulu ha comunque voglia di perdersi nei suoi turbamenti, sino a concretizzarli timidamente con una prostituta, riportandone un senso di deludente umiliazione. Ma è solo l’inizio: papà Joseph ha deciso di colmarne l’abbandono scolastico iscrivendolo a un Istituto d’Arte, dove incontra la modella Elizabeth Levitsky, segretaria di Georges Hugnet, amico di Salvador Dalì. La casa del maestro surrealista e l’epidermide di Elizabeth diventano il regno magnifico e sensuale in cui lasciar andare a briglia sciolta i propri sensi: le pareti d’astrakan del maestro ed il corpo della giovane amante liberano il fascino di Lulu dalla mortificante condanna di una bruttezza esteriore, lasciandolo risalire verso una più stimolante consapevolezza di sé.
L’idillio con Elizabeth, prima musa, continua a durare, culminando nelle nozze del 1951, che ridimensionano la tensione bohemienne dei primi tempi, con una convivenza tra le righe e una passeggera e mite attività di insegnamento, parallela alla prosecuzione degli studi pittorici. Ma Lucien non è artista a una dimensione, e suo padre Joseph, convinto più che mai di ciò, continua a lavorare sotterraneamente affinché quel talento musicale non evapori nell’indifferenza; negli anni in cui la Rive Gauche accoglie le ombre dell’esistenzialismo, Lucien inizia a sostituire il genitore, spesso gravato da plurimi e contemporanei ingaggi. Gli esordi sono segnati da un inaspettato interesse intorno a quell’uomo non bello, eppur tanto sofisticato, e le donne sono incantate da quella embrionale forma d’irresistibile e maestosa decadenza; l’allure densa del fumo di Gitanes, l’alcol – vizio acquisito durante un servizio militare di proverbiale importanza nella maggiore cristallizzazione del dioscuro mascolino, il pianoforte allontanano dalle mura domestiche, viatico troppo spartano per uno spirito così adorabilmente edonista, e, però, spingono verso le luci della ribalta. È il 1957, l’adulterio è compiuto, e il divorzio da Elizabeth anche.

Serge le chansonnier, dalla Rive Gauche a B.B.

Lucien Ginsburg, stanco di un’identità ormai trapassata, diventa Serge Gainsbourg, omaggiando l’origine russa, la cui eco risuona della forza del nome Serge, e il pittore inglese Gainsborough.
Forte di questo nuovo habitus, Serge è pronto per interpretare le sue canzoni, sino a quel momento nobilitate dall’icona adorata, Juliette Gréco, e l’occasione viene offerta dall’ingaggio al Nightclub Milord L’Arsouille; il Milord, teatro dell’esordio di Charles Trenet, lo chansonnier che, durante l’infanzia, aveva sonorizzato la scoperta della bellezza femminile di Serge, bambino estasiato dalla vista di un bella fanciulla in spiaggia, è il punto di partenza di un nuovo cerchio vitale. Serge, dopo aver potuto ascoltarvi Boris Vian, rivaluta lo spessore culturale di una canzone, capace di veicolare umoralità, contenuti, emotività e, spinto da Michele Arnaud, giovane artista con un contratto regolare al Milord, finalmente si decide a cantare. Il nuovo chansonnier incuriosisce, il suo stile elegante e, a tratti, cinico inizia ad attirare l’attenzione anche dei discografici, e l’occasione per l’incisione di un album è offerta da Denis Bourgeois, produttore della Philips, che convince i suoi capi a offrire un contratto al giovane artista. È fatta. Serge sta per registrare il suo primo album con Alain Goraguer, già arrangiatore di Boris Vian.

Serge GainsbourgDu Chante à la Une esce nel formato 10”, con un’introduzione di Marcel Aymè, il traduttore francese di Henry Miller e una delle penne più sagaci della Francia libertaria, che presenta Serge quale autore e cantore di un mosaico della perdizione, osservatore acuto di un immaginario denso d’alcol, donne, adulterio, povertà, lavori miserabili, narrato con spirito insanamente cinico e disinvolto, in un gioco di specchi dal rimando ambiguo, nel quale la melodia si lascia sedurre dal ritmo. Giustapporre delle etichette univoche all’album d’esordio di Serge Gainsbourg è impresa riduttiva: il debutto alterna lo swing yankee di “Le Poinçoinner de Lilas”, tragicomica dichiarazione d’insoddisfazione di un controllore alienato dall’obliterare biglietti di viaggio sui bus di Lilas (“J’fais des trous, des p’tits trous, encore des p’tits trous/ Des p’tits trous, des p’tits trous, toujours des p’tits trous/ Des trous de seconde classe, des trous de premiere classe”), alla chanson strategicamente romantica, che dispensa consigli su come sedurre senza troppo patirne (“La recette de l’amour fou”), passando attraverso il jazz malinconicamente e languidamente ironico sulla noia assassina del ménage (“Ce Mortel Ennui”) e quello standard, ombroso e raffinatissimo di “Du Jazz Dans le Ravin”, il pre-yèyè nell’orgoglio misogino di “La Femme des Uns sous le Corps des Autres” (“La femme des uns sous le corps des autres/ A des soupirs de voluptés/ On s’en fout quand c’est pas la notre/ Mais celles des autres”), il cha cha solitario di un ubriaco furiosamente in cerca d’amore e fanciulle, che però non somiglino agli scheletri nell’armadio protagonisti delle prime esperienze nei boudoir, come la prostituta che mastica rumorosamente chewing gum durante l’amore – fallimentare iniziazione erotica di un Serge adolescente (“L’Alcool”) e il giocoso charleston d’importazione in “Charleston les Déménageurs de Piano”.
Du Chant à la Une è il biglietto da visita di un esteta di trent’anni, una raccolta di brevi racconti per adulti indolenti, sordidi, smaliziati e raffinati, un canovaccio denso di sarcasmo, classe e indipendenza intellettuale da ogni cliché, in cui la voce di Serge, pur prendendo le distanze dalla malia degli chansonnier alla Trenet e alla Brel, seduce con eleganza. Boris Vian, la sua ossessione, l’oggetto della sua più profonda affinità elettiva del momento, ne resta incantato e non può che caldeggiare l’acquisto del 10”, che, tuttavia, non viene accolto da immediato e unanime entusiasmo, da parte della critica. Ma l’importante è aver cominciato e non finire.

Il 1958 trascorre tra tournée, ritorni alla casa paterna e l’incisione di un nuovo album No. 2. Seduto al pianoforte del padre Joseph, con accanto l’insostituibile pacchetto di Gitanes, il caffè, e la necessaria dose d’alcol, Serge compone velocemente le otto canzoni, che, complice ancora una volta l’arrangiamento di Goraguer, si sviluppano come appendice appena più soleggiata del primo lavoro. No. 2, uscito nel 1959, è accattivante pop-jazz allo schiocco di dita (“Le Claquer des Doigts”), esotismo ammiccante alla latinerie dei balli in voga nei club europei  (“L’anthracite”, “Mambo Miam Miam”), flashback sul folk tzigano, reso perfettamente dal violino festoso in “Jeunes Femme set Vieux Messieurs”, galante ballata d’addio (“Adieu Creature”), fumoso e nervoso be bop di liberazione dall’indifferenza: “En d’autres occasions je chanterais les transes/ De l’amour, mais aujourd’hui je m’en bilance/ Qu’importe le temps/ Qu’emporte le vent/ Mieux vaut ton absence/ Que ton indifférence” (“Indifferente”).
L’accoglienza di No. 2 è piuttosto tiepida, nessun particolare bagliore, qualche dubbio rispetto ad una vocalità tormentata e non particolarmente nerboruta, diffidenza sparsa, ma Serge inizia a essere ben identificato, emergendo dalla pletora anonima e sempre identica a se stessa degli jazz club, complice un aspetto insolitamente affascinante e un modo di combinare grazia e accidia in un modo assolutamente personale, efficacemente espresso dalla foto di copertina di No. 2, in cui, dal suo raffinato gessato, fumando, guarda con sfrontata provocazione l’obiettivo, seduto di fronte a un mazzo di rose e una pistola, come il più galante dei gangster.

Quell’aspetto malamente intrigante, che sempre costituirà uno degli elementi determinanti nella vita di Serge, gli apre anche le porte del cinema, rendendolo costante comparsa in molti film storici, nei quali interpreta generalmente personaggi dalla sadica malvagità, come succede nel 1961 in “La révolte des Esclaves”, in cui interpreta il ruolo di Corvino, colui che diede i cristiani in pasto ai leoni. Nello stesso anno, la Philips pubblica L’étonnant Serge Gainsbourg, lo straordinario e ballabile Serge Gainsbourg, come recita la pretenziosa nota di copertina. I toni si fanno più confidenziali e suadenti, e immediatamente è d’obbligo l’omaggio alla poesia francese, con la dolente, ombrosa “Chanson de Prévert”, per la quale Serge, mettendo da parte la timidezza, decide di andare a far visita alla maison di Prévert, per chiedergli il permesso di utilizzare il suo nome; il poeta acconsente, condividendo con lui una coppa di champagne e stabilendo un’epicurea sintonia.
È il 1961, la dolce vita, in Francia, viene declinata nella confessione di desideri notturni, incontri con il sangue misto di un’andalusa, promesse da mantenere (“Allons mon andalouse/ puisque la nuit jalouse/ Etends son ombre aux cieux”), in un lento moderato e denso (“Le Rock de Nerval”), che, nella “Chanson de Maglia”, si fa romanticamente orchestrale e sussurrato, sino alla rumba di velluto della conturbante “Les Amours Perdues”. Ancora jazz, stiloso e caramellato in “Les Oubliettes” e felino in “Les Femmes c’est du Chinois”, i cui fiati sembrano quasi riprodurre lo spleen indocinese citato nel titolo. Qualcosa di veramente ballabile nella delizia al flauto e percussione di “Viva Villa” e in “Le Sonnet d’Arvers”, sorta di cugina europea e più stilosa della poco più anziana “Diana” portata al successo da Paul Anka nel 1957.

L’elitario seguito della rive gauche e dei club non basta a decretare un successo nazionale, e L’étonnant Serge Gainsbourg, pur forte di un tour promozionale, non supera le cinquemila copie vendute. Il rischio di permanere nella nicchia del cocktail jazz, per quanto raffinato, viene amplificato dall’epidemia twister, che, dagli Stati Uniti, arriva sino in Europa, contagiando anche l’ingessata Francia e lanciando in orbita i giovanissimi Françoise Hardy e Johnny Halliday, poco più che adolescenti e testimonial privilegiati dello yé yé. Serge, uomo orgoglioso e poco incline all’opportunista compromesso, è inizialmente spiazzato, vorrebbe tornare a dipingere, prendendo definitivamente le distanze dalla musica, ma, da adorabile canaglia, trova il modo di volgere a suo favore gli eventi, attirando l’attenzione attraverso un gioco ironicamente macabro sulla smania del twist; “Requiem pour un Twister” diventa la dispettosa e accattivante messa alla berlina di Charlie, giovane viveur e twister provetto, morto della sua stessa passione per l’esagitata danza, come Serge sussurra nel sincopato ritornello.

Serge Gainsbourg - Juliette GrecoOrmai il demone è esorcizzato, come dimostra 4, quarto album in studio, in cui Serge continua a essere il crooner spigoloso di sempre, suggestionato dal languore floreale nella decadente “Les Goémons”, ispirato dalla suggestione di un trombone nero, che diventa co-protagonista di una storia di passione e tedio (“Black Trombone”), biografo di Boris Vian, ma anche di se stesso, in “Intoxicated Man”, jazzettino notturno ebbro e visionario e sperimentazione prima di una nuova lingua, il franglese, contrazione tra il francese e l’inglese e strizzatina d’occhio alla lingua anglosassone, quale possibile trampolino di lancio per esportarsi all’estero. La carrellata del vizio prosegue con “Les Cigarillos”, samba le cui spirali morbide avvolgono e proteggono dalla timidezza (“Les cigarillos ont cet avantage d’ faire le vide autour de moi/ J’en apprécie le tabac/
Et la prévenance/ Les cigarillos n’ sont pas comme moi, empreints de timidité/ Et leur agressivité/ Est tout en nuance/ Sans vous dire jamais rien qui vous blesse/ Ils vous congédient avec tendesse”), e lascia il posto alla celebrazione amorale della nouvelle jeunesse nello yé yé dedicato di “Vilaines filles et Mauvais Garçons”, registrato anche come Ep made in London, con Harry Robinson, futuro arrangiatore di Nick Drake e Sandy Denny. Gioiellino di grazia, inno all’effimero è “La Javanaise”, canto della sirena di un amore intensamente breve quanto un maestoso lento, ripresa, nel 1963, con ineffabile magnetismo dalla chanteuse Juliette Greco.

Subito dopo l’uscita di 4, un’insolita trama di casualità favorisce l’incontro tra due personaggi destinati geneticamente a divenire delle icone, malgrado si tratti nient’altro che di un passaggio fortuito e volatile: ancora nel 1963 Serge viene chiamato a realizzare la colonna di “Strip-tease”, una pellicola realizzata da Jacques Pointrenaud, suo amico. La sceneggiatura ruota intorno alle figure di una entraineuse in cerca d’ingaggio, interpretata da un’ancora sconosciuta Christa Paffgen, prossima Nico, e di un pianista jazz, per il cui ruolo Serge appare perfetto. Con la produzione del fedele Goraguer, originariamente le parti vocali vengono affidate a Nico, ma, perplesso dall’ombrosità altera del suo particolare tono di voce, Serge decide di lasciar cadere quelle registrazioni (delle quali, miracolosamente, esistono alcune, preziose tracce in rete), chiamandovi la più matura maliarda Greco; il risultato è, naturalmente, vertiginoso, ma l’interpretazione di Nico, giovane, fragile e bellissima, resta una chicca di sfuggente, notturna bellezza.

La Greco, quasi coetanea di Gainsbourg, è una bellissima e scurissima amazzone di trentasei anni, una donna sicura di sé, disinvolta, chanteuse da vertigine, e il suo rapporto con Serge diventa l’incubo della sua nuova compagna, l’aristocratica Beatrice, che, nel 1964, diventa sua devota e possessiva moglie. Serge è blindato dal suo stesso amore: la mondanità diventa un anelito cui cedere nascostamente, e non regge neanche più la scusa delle visite alla casa paterna, per comporre al prezioso pianoforte di Joseph; Beatrice distrugge l’impalcatura dell’escamotage regalando all’adorato compagno un prezioso pianoforte Stainway. Serge non ha alcuna scusante per sfuggire all’asfissia coniugale, ormai ha tutto a portata di mano. Questa parentesi di forzata quiete domestica viene utilizzata strategicamente per riuscire a registrare in soli due giorni, con i jazzisti Michel Gaudry alla chitarra elettrica e Elek Bacsik al contrabbasso, il quinto album in studio, e il primo nell’edizione 12”. Gainsbourg Confidentiel è lavoro di gran cesello, ricamo perfetto di un jazz essenziale, eppur felicemente attraversato dal rock sapientemente elettrificato (“Chez le Yé Yé”), denso di bassi swinganti e intriganti giochi linguistici (“Le Talkie Walkie”, “Elaeudanla Téitéia”), svenevolezze irresistibili per voce e chitarrina (“ Le Temps de Yoyos”), cantici della perdizione nobile come in “No, No Thank’s, No” (“No no thanks no/ Je ne fume que la marijuana/ No no thanks no/ A quoi bon insister/ No no thanks no/ Ma dernière cigarette/ No no thanks no/ Est dèja refroidie/ No no thanks no/ Je n’aime que le bourbon”) e cinici, sofisticati blues fotografici (“Negative Blues”). Confidenziale, pur nel minimalismo dei suoi arrangiamenti, e raffinato sino all’accidia, il quinto album di Gainsbourg viene salutato dalla critica quale migliore dei suoi lavori, e, acquisito il pregiato scettro, diventa il canto del cigno dalla genitura jazz delle sue composizioni, tradita con l’imminente, ma nemmeno troppo imprevedibile, sbandata per le percussioni.

Serge Gainsbourg16 ottobre 1964: cinque percussionisti, un coro di dodici fanciulle francesi convertite all’afrodesia, e Gainsbourg Percussions, sesto album in studio, è pronto. Al piano, come sempre, il fidato Goraguer, illuminato arrangiatore e appassionato cultore dell’estro gainsbourghiano, ancora una volta felicemente assecondato. Una delle vicende che caratterizzano l’album è l’ambiguità relativa al rapporto con il percussionista nigeriano, Babatunde Olatunji, del cui straordinario “Drums of Passion”, il disco del 1959, Serge riprende e francesizza, seppur magistralmente, conservandone la ritmica invasata e incandescente “Kiyakiya”, che diventa “Joanna”, la ballerina obesa e miracolosamente leggiadra, mentre volteggia nei club di New Orleans, “Akiwowo” trasformata in “New York – U.S.A.”, inno sincopato all’altezza dei mastodonti statunitensi, “Gin-go-lo-ba” (poi espropriata anche da Carlos Santana), la cui metamorfosi linguistica conduce a “Marabout”, volatile africano, ma anche santone pagano, enfatizzato dal ritornello ossessivo.
Gainsbourg Percussions è anche il debutto di France Gall, lolita bionda e diabolicamente innocente, che esordisce con una risata argentina in “Pauvre Lola”, insieme con il ritorno, più consapevole e ammiccante al satin jazz (“Machins Choses”), alla leggerezza di un incanto afrodisiaco al gusto di caffè, nella salsa leziosa di “Couleur Cafè”, alla malinconia in bossa di un gentleman sedotto ed abbandonato ad un salvifico niente (“Ces Petits Riens”), attingendo all’inguaribile fatalismo nichilista dello spettro sentimentale tipico di Serge (“Mieux vaut n’penser à rien/ Que de penser à vous/ Ça n’me vaut rien/ Ça n’me vaut rien du tout/ Comme si de rien/ N’était je pense à tous/ Ces petits riens/ Qui me venaient de vous”).
Le recensioni di Gainsbourg Percussions non sono unanimemente generose, ma a Serge non importa, la beffa snob al dilagare del rock’n’roll d’esportazione è compiuta, così come la celebrazione della percussione quale trasposizione della pittura astratta in onde sonore, attraverso la rinuncia alla forma e all’armonia pre-confezionate, in una sintesi culturale irresistibile e giocosa. La libertà espressiva, premio anzitutto per se stessi, come spesso accade, non reca eguali riconoscimenti mondani, ma per Serge va bene tornare in qualità di ospite d’onore al Milord L’Arsouille.

Nel 1964, la nascita di Natascha, prima figlia, non riesce a legarlo alla sedia domestica, spingendolo a una progressiva fuga che va di pari passo con la collaborazione con artisti emergenti della scena paradossalmente tanto sbeffeggiata, quella dello yè yè. Serge inizia a comporre canzoni pop per bamboline ingenue, ma non troppo; tra le prescelte, France Gall, che con “Poupée de Cire, Poupée de Son” vince l’Eurofestival del 1965. La scelta di scrivere brani per le baby popstar emergenti non è casuale: Serge, per quanto lusingato d’essere entrato nei cuori della Rive Gauche e della frangia più snob dell’intellighenzia parigina, vuole comunque tentare il salto verso un mercato un po’ più democratico, e lavorare in qualità di compositore su commissione pare una possibile strada da percorrere.

Il 1965 è anche l’anno in cui Michele Arnaud, amica della prim’ora, ormai divenuta produttrice televisiva, decide di tornare sulla scena discografica, con un album contenente anche “Les Papillons Noirs”, sofisticata traccia scritta per lei da Serge, che comincia a vestire le sue composizioni di archi ebbri e di un basso denso, di lì a poco dominanti privilegiate della futura produzione. Ed è Michele Arnaud a presentare a Serge il regista Kolnarik, autore di “Anna”, telefilm per la tv francese, incentrato sulla figura di un giovane pubblicitario innamorato di un’immagine, una giovane donna vista in foto, che cerca vanamente per l’intera Parigi, sino a rendersi conto che quella donna è nient’altro che la sua assistente, senza, però i suoi occhiali. Serge interpreta il giovane fotografo, mentre, per il ruolo di Anna, scartando una giovanissima e viziosa Marianne Faithfull, viene scelta Anna Karina, musa danese nei primi film del marito Jean Luc Godard. Gli arrangiamenti vengono curati da Michel Colombier, pregiatissimo compositore scelto per sostituire Alain Goraguer. L’album Anna alterna momenti strumentali, come l’orchestrale intro “Sous le Soleil Exactment”, ambient lounge di gran classe, nella seconda traccia ripresa dalla voce sottile e seducente della Karina, antesignana di uno stile vocale che anticipa di un paio d’anni il debutto di un’altra adorabile stellina nazionale, Claudine Longet, a coinvolgenti beat a due voci, conditi di rumori da party di fondo, come in “C’est la Cristallisation Comme Dit Stendhal”, interazione tra Serge e Jean-Claude Brialy, co-protagonista maschile nel telefilm. Spesso il canto diventa un suggestivo recitato, quasi sussurrato (“Pas Mal Pas Mal du Tout”), oppure una sorta di frame musicale su un dialogo a due voci con Anna (“Rien Rien J’Disais ça Comme ça”), che torna a riprendere la scena con la malinconica e accorata “Un Jour Comme un Autre”, per poi mettere da parte la proverbiale vezzosità e lanciarsi sfrontatamente nel ritmo di “Roller Girl” e nel country-bop di “Pistolet Jo”; “Un Poison Violent, C’Est ça l’Amour” è un magistrale esempio della tensione cinematica à-la Morricone di cui Serge, con Colombier, è capace, insieme con l’allestimento di un divertissement bandistico in “G.I. Joe”, sino alla sinuosa chiosa soft-rock della strumentale “Je N’Avais qu’en Seul Mot a Lui Dire”.

Anna viene mandato in onda agli inizi del 1967, quando Serge si trasferisce in un piccolo appartamento presso la Cité Internationale Des Arts e Lettres, continuando a sfornare Ep e prendendo parte a varie pellicole. La quotidianità potrebbe trascinarsi pigramente, nella morbida indolenza della nuova vita da single, ma una temporanea visita di Beatrice, accompagnata da un fugace ritorno di fiamma, precipita nuovamente la situazione: Serge sta per diventare ancora una volta padre; lungi dal tornare sui suoi passi e sopportare l’onere di una convivenza costruita sul valore borghese della paternità, l’uomo, ormai libero dal senso di colpa, torna a vivere, seppur temporaneamente, a casa dei genitori, in attesa che Joseph, padre devoto, riesca a trovargli quella casa in Rue de Verneuil tanto bramata.

Serge Gainsbourg - Brigitte BardotMa l’evento che, più degli altri, è destinato a lasciare un segno nel vissuto, più che nella produzione, di Serge, è l’incontro con Brigitte Bardot, la protagonista stratosfericamente bella di “Et Dieu… Créa la Femme”, pellicola-icona girata nel 1956 dal primo marito Roger Vadim, con Jean Louis Trintignant. Sensuale, spregiudicata, maliziosamente lasciva, Brigitte incontra Serge durante il Sacha Show, il programma televisivo condotto da Sacha Distel, famoso soprattutto in Inghilterra per la sua interpretazione del classico di Burt Bacharach “Raindrops Keep Falling On My Head”. La passione tra Serge e Brigitte è immediata, incandescente, incontenibile, e nulla valgono i conti in sospeso con i relativi partner, Gunther Sachs e Beatrice; i due sono inseparabili, invischiati in un affaire che non lascia spazio a una qualsivoglia forma di razionalità. Brigitte è una donna vorace e volubile, e Serge ne asseconda la fame e la vanità scrivendo per lei alcune, meravigliose pagine d’amore, tra le quali una seminale e intossicante “Je T’Aime, Moi Non Plus”, registrata in una notte dell’inverno 1967, al Barclay Studio di Parigi, con l’arrangiamento di Michel Colombier. Chiusa in cabina di registrazione, la coppia si lascia andare a un corteggiamento regale e vertiginoso, definito da più parti un vero e proprio petting, nel quale Serge mantiene l’aplomb di sempre, ma Brigitte non si risparmia, lasciando davvero poco spazio all’immaginazione. Questa prima versione di “Je T’Aime Moi Non Plus” è puro gioco erotico, gioia e dolore, benzina sui sensi e delirio carnale, pur in un’eleganza senza pari, è Serge che si sottrae sadicamente alla perdenza, dettando le regole del gioco, bendando la partner, che mormora, supplica, sussurra amore.

La fatalità dell’incontro, dopo le gesta erotiche di “Je T’Aime Moi Non Plus”, riprende fiato in due album, che, nel 1968, restano il pegno d’amore definitivo. Bonnie And Clyde, ispirato alla coppia di rapinatori statunitensi Bonnie Parker e Clyde Barrow, che, negli anni Trenta del secolo scorso, entrarono nell’immaginario criminale collettivo, trasformando persino la propria morte in un rocambolesco inseguimento a mano armata, si snoda tra tracce riciclate (“Un Jour Comme un Autre”, precedentemente intepretato da Anna Karina, “La Javanaise”, scritta per la Greco, l’intrigante canaglieria senza tempo di “Intoxicated Man”), deliziose revisioni di standard jazz d’antan, come “Everybody Loves My Baby” scritta da Spencer Williams nel 1924 e trasformata in un dispettoso swing dalla vocina insolente della Bardot, e inediti di media fattura, tra i quali spicca su tutti la title track, splendore sinistro e psichedelico, piccolo presagio a due voci del nuovo immaginario di Serge, accompagnato dal suggestivo video.

Initials B.B. scandisce la fine di un fuoco forse più fatuo di quanto si potesse immaginare; Brigitte, in Spagna per le riprese di un nuovo film, ha deciso di dare un’altra chanche al marito Sachs, e lascia Serge nella disperazione più nera; ma ormai il nuovo album è quasi pronto, e tanto vale completarlo e immetterlo sul mercato: ancora qualche ripescaggio (il pop cartoon di “Comic Strip”, il freakbeat di “Docteur Jekill et Monsieur Hyde”, il tema yé yé di “Marilu”), con alcune, fugaci e indimenticabili perle, accidentalmente cadute tra la patina del dejà vu, la title track ispirata dall’epica Sinfonia N°9 di Dvorak e riplasmata su “Le Corbeau”, poema di Edgar Allan Poe, il twist innocente di “Shu Ba Du Ba Loo Ba” e “Ford Mustang”, naturale e ruffiano proseguimento a due voci di Bonnie And Clyde.

Alla fine del 1968, ciò che resta a un Serge magnificamente quarantenne è l’indicibile pena per la fine della relazione con la Bardot, il vedersi rispedire al mittente la scandalosa prima versione di “Je T’Aime Moi Non Plus”, tirata fuori dal cassetto dei ricordi solo nel 1986, e la sosta forzata nella casa paterna, in attesa del trasferimento definitivo in Rue De Verneuil, nel mentre prosegue freneticamente la realizzazione di colonne sonore per il cinema.

Jane Birkin, il delirio psichedelico

Serge Gainsbourg - Jane BirkinIl cinema diventa l’anello di congiunzione di una sfuggente catena casuale per la quale Serge, nel 1969, sta per inaugurare un nuovo ciclo vitale, destinato a essere un topic della sua esistenza, il coronamento di quel particolare ideale d’estasi, denso di bellezza, passione, totale ebbrezza dei sensi e dolce monopolio della mente, che troverà in Jane Birkin la più ammaliante delle personificazioni. L’occasione è offerta dal regista Pierre Grimblat, che chiede a Serge di realizzare la colonna sonora per “Slogan”, il film in fase di realizzazione, di cui dovrebbe essere anche protagonista. In “Slogan”, Serge è un regista pubblicitario che perde la testa per una giovane donna incontrata a un festival cinematografico; il coinvolgimento è così forte da indurlo a lasciare la moglie incinta, inconsapevole d’essere destinato egli stesso all’abbandono dalla nuova ed effimera conquista. Inizialmente, Evelyne, la protagonista femminile, doveva essere interpretata dalla sofisticata e altera Marisa Berenson, all’epoca una delle top model più affascinanti e richieste, ma, all’ultimo momento, Grimblat decide di optare per una ragazza inglese che incarni perfettamente l’immaginario Swinging London, una ragazza con capelli lunghi, soffici, lisci, la frangia fitta, grandi occhi da cerbiatta, e un habitus fisico sottile e sinuoso.
Dopo svariate audizioni, Evelyne è Jane Birkin, ventenne inglese notata tre anni prima in “Blow Up”, la pellicola diretta da Michelangelo Antonioni, nella quale, ancora adolescente, aveva offerto agli schermi inglesi il suo primo nudo integrale. L’incontro con Gainsbourg, inizialmente, è disastroso, Jane è una ragazzina dall’innocenza disarmante, non conosce il francese ed è l’antitesi di quel fascino tipicamente aristocratico della Berenson, su cui Serge aveva già costruito un maestoso e intrigante castello di sabbia. Qualsiasi tentativo di stabilire un empatico canale comunicativo è vanificato dall’atteggiamento snob di Serge, che arriva quasi a denigrare la povera Jane, più volte vicina alle lacrime e alla decisione di mollare il set e tornare definitivamente in Inghilterra, fino a quando, imbarazzatissima da una scena di nudo, che non decolla, chiede al regista di organizzare un più disteso incontro a tre, a cena. La cena segna la seduzione: Jane invita Serge a ballare, e si rende conto d’avere di fronte uno degli uomini più sfrontati e, paradossalmente, timidi che abbia mai conosciuto; la sicurezza di Serge è solo una delle tante sfumature che costituiscono, invece, una personalità insolita, sfuggente, ricca e fitta quanto un mosaico, un dedalo nel quale Jane sta per perdersi, per adagiarsi con irripetibile grazia, quasi fosse nata solo ed esclusivamente per questo. La notte corre tra un club e l’altro, con un valzer di Sibelius, il “Valse Triste”, suonato da un ensemble di violinisti russi davanti al taxi che sta per condurre la coppia all’Hotel Hilton, nella stanza della prima vertigine e del definitivo oblio. La tensione all’Assoluto è così forte, da allontanare qualsiasi fantasma e da riuscire a guardare con indifferenza l’antico dolore dell’abbandono, per Jane del marito John Barry, compositore bondiano e padre della sua bambina Kate, e per Serge di Brigitte Bardot, vorace di tutto e ingrata.

Una qualsiasi donna sarebbe stata offesa dal ricevere in dono un gioiello restituito dopo la fine di un’altra relazione, ma questo, malgrado un’iniziale titubanza, non avviene quando Serge propone a Jane di reintepretare “Je T’Aime Moi Non Plus”; Jane salta l’ostacolo e comprende che, stavolta, il mood è diverso, la densità delle parole ben più consapevole, con un risultato che è un universo altro dalla smania carnale, seppur magnetica, della Bardot. La nuova “Je T’Aime Moi Non Plus” apre Serge Gainsbourg/Jane Birkin, l’album a due voci inciso ancora per la Philips, a Londra, nel 1969. Lo scandalo è solo uno degli accessori, forse il più buffo, della nuova versione: laddove la Bardot, con quel modo di cantare, sussurrare, ansimare così felino e famelico, lasciava completamente aperta la tenda alla mercé del voyeurismo più esigente, Jane, invece, con pudore innocentemente perverso, preferisce la discrezione dello spiraglio, ed è perfetta, commovente, nella sua sensualità fragile e devota, perfettamente in sintonia con l’organo ecclesiastico, in un dinamismo sublime tra sacro e profano. Questa volta “Je T’Aime Moi Non Plus” – additata, scomunicata, rifuggita come peste nera dalle sfere alte del Vaticano, dalla middle class inglese, dalla regina di Danimarca Juliana, co-proprietaria della Philips – viene orgogliosamente lasciata in circolazione, e, pur scomparendo dai negozi di dischi in molti paesi, scala misteriosamente la vetta di molte classifiche internazionali, divenendo oggetto di culto universale da più parti.
Le altre dieci canzoni che compongono Serge Gainsbourg/Jane Birkin costruiscono il delizioso contorno: molto spazio è lasciato a Jane, vezzosa nel pop orchestrale di “Orang Outan”, irriverente nel charleston di “18-39”, drammaticamente seducente nella descrizione di una propria, possibile morte, con un arrangiamento ispirato dal Prelude No. 4 in E minor (Op. 28) di Frédéric Chopin (“Jane B.”), amabile chanteuse folk in “Le canari est sur le balcon”, gemma à-la Joni Mitchell. Tra le altre, Serge rilascia una delicata e soleggiata “L’Anamour” – composta originariamente per Françoise Hardy, che l’aveva inserita in “Comment Te Dire Adieu”, album inciso nel 1968 – e la marcetta bandistica di “Elisa”, dall’orchestra d’archi riccamente fiorita. Momento di rara e complice ricercatezza è “69 année érotique”, ballata sognante, punteggiata dal basso e impreziosita dai violini, come liquido perdersi nei flutti di un viaggio ricco di felici presagi (“Gainsbourg et son Gainsborough ont pris le ferry-boat/ De leur lit par le hublot ils regardent la cote/ Ils s’aiment et la traversée durera toute une année/ Ils vaincront les maléfices jusqu’en soixante-dix”), celebrati dal coretto limpido di Jane, che ripete, doviziosa, “69 Année érotique”.
Cercare di descrivere l’Amore al di fuori di ogni convenzionalità, eppur così radicato nell’archetipo immortale dello yin e dello yang, nella perfezione indipendente dallo spazio e dal tempo, nella sfera di un molteplice intriso di anima e corpo, nella grazia umorale e pulsante è impresa ardua e improbabile, e allora non resta che immaginare l’affinità tra Serge e Jane come unicità irripetibile, eterna, preziosa opera d’arte scolpita e mirabilmente solcata d’umana essenza, patto spirituale e sensuale, pieno nobile e tridimensionale. Il 1970, psichedelico e fricchettone, è anno di viaggi intorno all’intero pianeta, con puntate persino in India, terra di mistica ispirazione e libertaria purificazione, una sorta di terreno propedeutico alla realizzazione di qualcosa di eccezionale, stupefacente, inaspettato.

Serge Gainsbourg - Jane Birkin1971: Il capolavoro è alle porte, ed è inno all’innocenza, alla scoperta, alla perversione, alla fantasia, all’Amore, alla morte, al possesso, alla perdita, alla conquista, allo struggimento, all’iniziazione e alla consapevolezza, è opera d’arte e definitiva consacrazione di un legame imperituro, malgrado le sgraziate e future vicende delle reciproche vite. Histoire de Melody Nelson, progettato in due anni e scritto in otto ore, nasce intorno all’acquisto di un’auto d’epoca, una Rolls Royce del 1910 comprata con il cachet di un lavoro nell’Est Europa, gesto provocatorio, successivo a un breve arresto causato dall’aver bruciato una banconota slava, in barba alle stoiche ristrettezze del regime comunista. Alla guida della Rolls c’è un uomo di mezza età, che si imbatte in una ragazzina di quindici anni, Melody Nelson, trasfigurazione di Jane, e “Melody Nelson a des cheveux rouges/ Et c’est leur couleur naturelle”.
Il sedile della Rolls sembra una purpurea poltrona adagiata nella fessura del mondo, strategicamente nascosta per esercitare al meglio un voyeurismo umbratile, preso dalla fissazione dei più decadenti, sensuali, vischiosi particolari, sfuggenti alla mortificazione dell’universale. Melody indossa pantaloni bianchi, la sua mano affusolata gioca con una soffice ciocca di capelli, l’eco del suo ridere è limpida, inconsapevole dei suoi effetti sull’uomo alla guida dell’auto che la investe.
Melody sta per inciampare con finta maldestrezza nei lazzi del gioco, ignorando elegantemente il contesto e brillando di insolente, adolescente bellezza. La casualità di un incontro solletica la mente maschile, indolentemente avvezza all’osservazione di corpi femminili acerbi, rilucenti grazia, fresca energia, regale incoscienza. Per l’uomo è la vertigine. E la vertigine nutre generosamente il capolavoro.
Il flusso di coscienza ammicca morbosamente dal basso, che, ossessivamente cadenzato, impertinente, cavo, diventa uno dei caratteri dominanti dell’intero album, imbrigliando nelle maglie di un tessuto sonoro impalpabile, filato con abile perizia dall’arco smaliziato, diretto da Jean Claude Vannier, come nell’annuncio di un’imminente catastrofe emozionale, anello di congiunzione tra Eros e Thanatos, in una perforante sensazione di pericolo (“Melody”). E se la conditio sine qua non di una pulsione così opprimente è “Un petit animal… Une adorable garçonne/ Et si délicieuse enfant”, non c’è moralistico sdegno che tenga, di fronte a tale morbosità, al sublime scolpito nell’aria dalla conturbante decadenza che pervade l’intera opera. La Ninfa Incosciente è galantemente guidata alla soavità del valzer, con il dono di delicate rose bianche, screziate solo della propria penombra interiore (“Valse de Melody”).
Lo stordimento intorno alle montagne russe dei sensi termina con il vuoto di una lucidità, chiusa nella pena della sua ossessione, e, contemporaneamente, rassegnata, nel suo ammettere l’ineluttabilità del Caso, con la tromba che, sodale, ne sostiene il residuo arrancare alla vita (“Ah Melody”). Lasciar scivolare la passione è un vulcanico rischio, tutto potrebbe bruciare di perdita e rimorso, e allora che narcotico deliquio sia. L’Hotel Particulier è quello in cui consumare la fisicità della mania, degna della più decadente e affascinante rovina liberty, con i dipinti di Afrodite e Salomè sulle pareti della scala che conduce ai peccati della stanza 44, la stanza di Cleopatra, con le colonne del letto in stile rococò e un grande specchio in cui riflettere il rimescolamento degli umori (“L’Hotel Particulier”).
La dilatazione spazio-temporale ammorba tutto il disco, e la chitarra elettrica distorta – ulteriore cifra di tutto il disco – intossica soprattutto sul rock psichedelico e voluttuoso di “En Melody”.
Resta la sensazione di un dolce disastro aereo, l’aereo che sta per riconsegnare Melody, l’oggetto dei desideri, alla sua famiglia, lasciando l’amante nella più insostenibile desolazione, alla deriva di un ricordo ancora troppo caldo, un flashback psico-fisico, bulimico di sensualità, che tocca il climax epico nell’estasi del coro finale, celebrazione egoista di morte, così da cristallizzare Melody nella sua eterna, perversa, innocente adolescenza, custodita nell’Olimpo dei Sensi (“Cargo Culte”).

Opera unica e irripetibile, Histoire de Melody Nelson dischiude il segreto più umanamente vero della sensualità, isolandoci dall’uniforme morale che ogni religioso decalogo richiede, e lasciandoci fluttuare sulle nostre stesse, innocenti perversioni, come la più ammaliante e decadente delle fughe.
Nell’immagine di copertina di Histoire de Melody Nelson, Jane indossa una parrucca dai capelli rossi, dei jeans scampanati e ha in mano la sua inseparabile scimmietta di pezza, in una posa delicatamente ammiccante, dietro una sfondo completamente azzurro, mentre Serge, nel libretto delle liriche, mostra, disinvolto, il suo nuovo look: jeans sdruciti, camicia bianca elegantemente sciatta, capelli mediamente lunghi e volutamente spettinati e scarpine bianche da ballerino, dono di Jane. È la bellezza paga di se stessa, rilassata, meravigliosa. Jane, in copertina, ha i pantaloni slacciati perché è in dolce attesa di Charlotte, che nascerà cinque mesi dopo.

Serge Gainsbourg con la piccola CharlotteLa geometria, per Serge, è nient’altro che la riduzione del piacere a un triangolo equilatero, nel quale – come dichiara più volte – donne, alcool e sigarette hanno lo stesso, identico valore. L’edonismo decadente, parco nel consumare altri vizi accessori, poggia sull’impalcatura di una triade piuttosto pericolosa, destinata a restituire il proprio rischio prematuramente ma nemmeno troppo inaspettatamente. Trascorsi i due anni dalla nascita di Charlotte, Serge – mai imbarazzato nel raccontare la sua ossessiva passione per le Gitanes, le sigarette senza filtro, che fuma in dosi massicce, soprattutto durante la composizione delle sue canzoni – è colto da un attacco cardiaco. È il 1973, ha quarantacinque anni, e Jane è atterrita. Non serve un infarto a placare l’insaziabile bisogno di piacere procurato dai cerchi di fumo, l’intossicazione è esperienza estatica, appagamento voluttuoso, bisogno primario, e nemmeno lo schiaffo di Jane, indignata da una convalescenza, che si trasforma in un recupero segreto del vizio. L’episodio trova un epilogo in un’abitudine che diventa condivisa e nella scrittura di un nuovo disco, per il quale Serge vola in Inghilterra, ingaggiando il tastieritsta Alan Hawkshaw per gli arrangiamenti, mettendo fine alla collaborazione con Jean Claude Vannier, rimasto ingiustamente ai margini del successo dell’Histoire.

Vu De L’Exterieur è un concept fisico, legato a una corporeità colta nell’espletazione dei suoi più naturali bisogni – tema, questo, che riempirà le fitte e ironiche pagine di “Gasogramma”, romanzetto semi-autobiografico su un artista il cui stile è determinato da una particolare forma di pittura anale.
Il tema dell’analità, di quella che, per Serge, è espressione di cruccio e caduta dall’umanità all’animalità, crepa nel delicato dipinto di un ideale estetico puro e immacolato, diventa il leit motiv di quasi tutto l’album: alcune tracce, già dal titolo, lasciano poco spazio all’immaginazione (“Panpan Culcul”, “Des Vents, Des Pets, Des Poums”, “Pamela Popo”), altre, come “La Poupée Qui Fait”, dedicata alla piccola Charlotte, sono delle piccole e buffe dediche. L’ancora di salvezza di quest’album così insolito, caratterizzato da arrangiamenti caldi ed eleganti e da liriche esilaranti, a tratti incomprensibili, provocatorie, è “Je Suis Venu Te Dire Que Je M’En Vais”, ballata malinconica, vischiosa di pregiatissimo miele, esempio di chanson da lenzuola intrise di lacrime e furore.
Vu De L’Exterieur spiazza, non viene compreso, e il 1974 è un anno di completa vacanza dalla scena discografica, per Serge, che diventa sempre più l’ombra di Jane, impegnatissima sulle scene, in film piuttosto leggeri e vacui di contenuto. Tuttavia l’esposizione mediatica è altissima, e finalmente riconosce all’uomo lo status di tanto bramata rockstar, offrendo la possibilità di scrivere a briglia sciolta, senza preoccuparsi troppo del mercato e della critica.

Rock Around The Bunker, scritto sul traghetto Calais-Dover diretto in Inghilterra, viene consegnato ad Alan Hackshaw in forma assolutamente scarna, pronto ad essere completato e arrangiato. Liricamente costruito su una decostruzione dissacrante del nazismo – di cui Serge aveva avuto fugace e, al contempo, amara esperienza durante la fanciullezza, l’album è un concept rock’n’roll blues, che va controcorrente, rispetto ai generi in voga in quel periodo, ma anche rispetto alla psichedelia raffinata dell’“Histoire”. Saltando a piè pari la deriva yè yè, si torna al classic rock’n’roll, Hacksaw suona il pianoforte à-la Jerry Lee Lewis (“Nazirock”), si gioca con le parole e le allitterazioni, in liriche praticamente intraducibili (“Tata Teutonne”), ci si lancia in indiavolati blues importati dall’America proibizionista (“Rock Around The Bunker”) e decelerati nel verso sornione agli standard jazz (l’incredibile, spassosa versione di “Smoke Gets in Your Eyes”), si torna con cinica, divertita ironia al proprio passato da piccolo ebreo, meritevole di una rilucente stella gialla da appuntare sulla giacchetta, come recita “Yellow Star” (“J’ai gagné la Yellow star /Je porte la Yellow star /Difficile pour un juif/ La loi du Struggle for life /Quand il y a la Yellow star/ Yellow star”), si realizza, quasi inconsapevolmente, una doorsiana “Roadhouse Blues” più snob e barocca, con il valore aggiunto di un apprezzabile coretto femminile (“Est – Ce Est – Ce Si Bon”), parte integrante di quasi tutto il disco.

Serge GainsbourgTra il 1975 e il 1976, Serge cerca di esorcizzare il mancato riconoscimento dei due recenti, incompresi album e l’indifferenza del pubblico anglofono, puntando sulla sua immagine mediatica, giocandosi le carte del narcisismo e del talento in madrepatria. Con la disinvolta nonchalance di sempre, e con la stessa, camaleontica capacità di scivolare, senza troppo imbarazzo, da un genere all’altro e da un contesto a uno diametralmente opposto, si cimenta con la pubblicità, per cui compone temi musicali e di cui diviene, con Jane, protagonista. Resta teneramente fissato nell’immaginario collettivo lo spot del detersivo Woolite, in cui Jane, avvolta in un morbido maglioncino di lana, a righe bianche e nere, sorride, enfatizzando le qualità ammorbidenti del prodotto, su un tema lieve e naive. Serge è ormai giunto a una fase del suo percorso artistico nella quale può liberamente muoversi tra la leggerezza degli spot pubblicitari e la complessità di un nuovo, sulfureo concept. L’occasione è offerta dal colpo di fulmine, seguito dall’acquisto immediato, di un’insolita scultura, raffigurante un uomo a grandezza naturale, con un cavolo al posto della testa. L’Homme à Tête de Chou è l’opera dell’artista Claude Lalanne e diventa il titolo del nuovo disco di Serge. Cupo, opprimente, scarno, negli arrangiamenti di Hacksaw e dello stesso Serge, l’album è un concept, che, per alcuni versi, può essere considerato un possibile parallelo all’Histoire de Melody Nelson, una sorta di sua immagine al negativo, più frastagliata e colpevole. L’epilogo di una storia – la seconda, dopo quella narrata nell’Histoire – di amore e morte è rovesciato, e l’amante sedotto, oltraggiato, rancoroso e dilaniato dalla follia per un amore negro. Sfuggente, ingrato, ne lascia indizi dall’intro (“L’Homme à Tête de Chou”), che, con organo epico e dolente, poi dissolto nell’evaporazione dei sintetizzatori, si presenta al suo interlocutore (“Je suis l’homme à la tête de chou/ Moitié légume moitié mec/ Pour les beaux yeux de Marilou/ Je suis allé porter au clou/ Ma Remington et puis mon break”); Marilou è l’esotica e ridanciana sciampista incontrata in “Chez Max Coiffeur Pour Homme”, le cui mani scivolose di sapone evocano torbidi pensieri nella mente dell’uomo dalla testa di cavolo, che, immediatamente, la invita a uscire, per poi consumare il coito giocoso in un reggae spensierato (“Marilou Reggae”) e in un tribale cunnilingus, in una vorticosa trasfigurazione della realtà percussiva e indiavolata (“Transit à Marilou”).
Ma l’esclusiva su Marilou è solo un’illusione: libertina e spudorata, l’esuberante nera non tarda a tradire il suo partner con due hippy, avanzi scimmieschi, reduci da un festival fricchettone, impegnati in un menage à trois nella camera da letto violata, nella narrazione sarcastica e schifata del protagonista (“Flash Forward”), che, in “Premiers Symptomes”, prosegue, raccontando i primi sintomi della metamorfosi nell’uomo a testa di cavolo – come in una rilettura dell’angosciante tema kafkiano – in una pozzanghera fantasmagorica di cerchi inscritta dall’ossessivo sintetizzatore, in contrasto con il coro femminile che, da lontano, sussurra “Marilou”. Umiliato e offeso, l’uomo a testa di cavolo continua a scivolare sulla voluttà di un desiderio ossessivo, lascivo, magnetico, e, con voce impastata e ammirata, tesse le lodi della puttana esotica, nell’oppiaceo space-funk di “Variations sur Marilou”. Alla fine ha la meglio le gelosia, l’insostenibilità di un’atavica condivisione del proprio oggetto dei desideri, e Marilou è massacrata con un estintore (“Meurtre a l’Exincteur”) e, sepolta da una neve di schiuma, finalmente liberata dal dolo della malizia e della bulimica sensualità, per tornare bambina innocente, dolcemente cullata dalla ninna nanna di lieve chitarra in “Marilou sous le Neige”. Il prezzo da pagare per tutto questo è la follia, la convinzione d’avere davvero un cavolo al posto della testa, un ortaggio continuamente rosicato dal coniglietto di Playboy, molestato dagli insetti, tormentato dal ricordo, in una danse macabre dilatata da una forma di sincopato tribalismo elettronico (“Lunatic Asylum”).

Intossicato, scorbutico, morboso, L’Homme à Tête de Chou è apice visionario di una carriera lunga trent’anni, quasi ultimo capitolo di una lunga saga, che, attraversando i diversi stili, sviscera la natura più intima dell’attrazione tra i due sessi, architettura escheriana di trappole, miraggi, tunnel stretti e asfissianti, scale speculari, torri strabilianti e rovinose, e vaso di Pandora ricolmo di tensioni, estasi, umori, contraddizioni, fuochi fatui e contraddizioni. La misoginia è nient’altro che il sincero risvolto della medaglia di un magnetismo millenario, illusione del possesso, rancore del predatore immiserito dalla sua preda, istinto rapace, debolezza della ragione, erotismo regale, cerebralità sottomessa alla carnalità. Pornografico, psichedelico, moralmente ben più insultante di un qualsivoglia sputo punk, a qualche giorno dal 1977, questa metà oscura dell’“Histoire”, densa di rimandi, citazioni, riferimenti resta, forse, vertice visionario di tutta la poetica gainsbourghiana, pur nella nicchia di una fruizione elitaria e devota.

Monsieur Gainsbarre, il nichilista

Serge GainsbourgSerge è un uomo libero, nella sua contraddittoria dipendenza da una forma di raffinato edonismo e da una sottile, elegante vanità, che lo spingono alla ricerca di un’immagine pubblica non fine a se stessa, ma funzionale al riconoscimento del suo genio e della sua colta sregolatezza. Mentre il rapporto con Jane – insostituibile Musa e felino devoto – inizia a languire, lo sguardo si allunga sulle recenti produzioni; com’è possibile continuare a essere un ardimentoso outsider senza dover fare necessariamente i conti con il punk, fenomeno ormai pervasivo nella scena mondiale? La questione è risolta dal produttore Philippe Lerichomme, giovane e brillante discografico, che, durante i tour notturni nei più diversi locali parigini, resta impressionato da una dancehall per metà punk e, per l’altra metà, reggae.
Lerichomme non ha dubbi: Serge Gainsbourg deve volare a Kingston, assoldare il fior fiore dei musicisti giamaicani e realizzare uno strabiliante disco in levare, pioniere di una nuova declinazione del genere, il french reggae, contratto in freggae. Non c’è da indugiare, bisogna cogliere al volo l’entusiasmo di Serge, che, ascoltati massivamente i vinili forniti in blocco da Lerichomme, sceglie i suoi musicisti di punta: Robbie Shakespeare al basso, Sly Dunbar alla batteria, Uziah “Sticky” Thompson alle percussioni e le I Threes ai cori, nelle quali c’è anche Rita Marley, moglie del leggendario Bob. La Island è avvisata e si vola Kingston. L’atmosfera, dopo una prima incomprensione antropologica, dovuta all’assoluta equidistanza culturale tra i musicisti, si distende immediatamente, nel momento in cui i giamaicani scoprono d’avere a che fare con l’autore di “Je T’Aime Moi Non Plus”, risuonata all’eccesso nelle radio locali.
È costantemente festa: Serge beve e fuma Gitanes come un ossesso, e l’ensemble esotico consuma ininterrottamente e felicemente joints. L’ipotesi di realizzare un disco carino, pulito, aggraziato dal filtro dell’overdub, viene lasciata cadere da Serge, che, invece, vuole sonorità calde, grezze, assolutamente naturali, in una sorta di selvaggia tabula rasa su cui recitare le sue provocazioni e le sue sconcerie. Il risultato finale è Aux armes et caetera, album destinato a ricevere oro e letame. “La Marsigliese”, inno nazionale francese, viene esportata oltreoceano, e trasformata in “Aux Armes Etc”, title track e umido florilegio reggae, aggraziato dai cori delle I Threes, mentre Serge ne declama, ebbro, le leggendarie parole. Evidentemente rilassato al punto giusto, lo spione non esita a smontare l’impianto della sofisticata, antica “Javanaise”, per farne un dub remake da danzare sinuosamente in comodo desabillè da spiaggia (“Javanaise Remake”), facendo il paio con la storia di una minorenne mulatta, tra i cui seni rollare una sediziosa canna (“Lola Rastaquoere”), spostando la scena in un fumettoso reggae’n’roll (“Relax Baby Be Cool”), celebrando la fascinazione corale per una piccola selvaggia a nome Daisy Temple, enigmatica creatura amante di “rasta, papuani, Watussi e Zulù” (“Daisy Temple”).

Aux armes et caetera, uscito nel marzo del 1979, è immediatamente protagonista di un saliscendi mediatico assolutamente intrigante: le vendite alle stelle, che condurranno al conseguimento del disco d’oro, vanno di pari passo con lo sdegno suscitato in patria dalla profanazione della Marsigliese; qualcuno arriva persino a proporre la sottrazione della cittadinanza francese, visto che non era bastata la scomunica del Vaticano a scoraggiare la blasfemia dell’artista. Ma a Serge poco importa, e l’entusiasmo è così alto, da decidere di portare Aux armes et caetera in tour in Europa, invitandovi tutti i musicisti che vi avevano lavorato. Parrà strano, ma, pur nel post-68, nel violento riflusso del ’77, c’è ancora chi, fieramente, sventola le demenziali bandiere del più ottuso nazionalismo, che, a Strasburgo, esplode nell’indignazione di un gruppo di paracadutisti, con minacce piuttosto dirette. I giamaicani sono costretti a rifugiarsi a Bruxelles, per sfuggire all’odio razzista, e a nulla valgono le preghiere di Serge a che il tour si completi, ormai è troppo tardi e l’unica cosa da fare, per sedare gli animi, è cantare “La Marsigliese” davanti ai nazionalisti nella sua versione tradizionale, la cui ovazione, però, è seguita da un liberatorio segno di vaffanculo, ma ormai il pericolo è scampato. Mentre Aux armes et caetera continua a navigare nell’oro, annoverando Serge quale importatore di lusso del reggae in Francia, i musicisti co-titolari dell’opera tornano in patria, e, con la tipica calma al gusto cannabis, superata l’amarezza per aver ricevuto una sola, misera foto del disco d’oro, continueranno a serbare un ottimo e grato ricordo dell’uomo e del disco.

Analizzare le umane relazioni è impresa speculativa affascinante e complessa, per lo più impoverita, stereotipata, gonfiata dalla presunzione egotica di diversi esponenti di una fantomatica, quanto pretenziosa intellighenzia psicanalitica – ma non solo. Il legame tra Serge Gainsbourg e Jane Birkin, così esclusivo, intenso, sensuale, commovente, è affare da trattare con il massimo rispetto, senza avere la pretesa di leggere al microscopio, con una lente che, per quanto precisa e nitida, di certo non potrebbe coglierne ogni recondita micro-particella; per questo motivo, ogni giudizio morale circa la fine del loro rapporto, quasi all’inizio degli anni Ottanta, risulta vacuo, e volgare risulta anche quella certa morbosità con cui scavare all’interno di un mosaico emotivo piuttosto sconvolgente, segnato da un’elegante misoginia, da una forma di possesso artistico, da una dipendenza dolce e dolente come uno stillicidio. Jane, giunta persino a tentare il suicidio, gettandosi nella Senna, dopo un plateale litigio con Serge, in una discoteca, alla mercé della famelica curiosità del pubblico – quel pubblico di cui il contraddittorio narcisismo dell’artista si nutre – ha quasi trentacinque anni, e il ruolo di opera d’arte cristallizzata persino in una statua a sua immagine e somiglianza le va stretto. Ormai donna, da tempo madre, decide di non essere più la figlia innocente e ammaliante di nessuno, ma di essere compagna e amante alla pari, liberandosi dal fantasma, seppur eterno, di Melody Nelson, forse consapevole della tragica inconsistenza di un personaggio destinato, per sua stessa natura, a sfumare, come accade nell’epilogo dell’opera, onde evitarne la tragedia grottesca dell’invecchiamento.

Serge GainsbourgIl nuovo ciclo vitale si apre con l’abbandono di Serge per il regista Jacques Doillon, da cui avrà una figlia e con in quale realizzerà una serie di importanti film. Serge, nel 1980, è un uomo libero e disperato, che, inizialmente, non accetta la fine della relazione, pur evitando, con orgoglio, diversi tentativi di riavvicinamento; single, non ha cuore che per l’alcol, con il quale stabilisce una definitiva forma di reciproca empatia, inaugurando egli stesso un nuovo, ultimo capitolo esistenziale: Serge Gainsbourg, perfezione sofisticata, collocata nel mezzo, lascia il posto a Gainsbarre, che, del primigenio Lucien Ginsburg, piccolo e brutto ebreo in fuga, non conserva la benché minima traccia. La dissoluzione regna sovrana, e l’ordine apparente permane nella casa-museo, dalle pareti nere e dalla cura immacolata. La discesa agli inferi miserevoli dell’umanità si fa sarcastica più che mai, e il sesso si intreccia definitivamente, senza imbarazzo alcuno, ai bisogni più primitivi dell’uomo. Gainsbarre, con operazione chirurgica disgustosamente esilarante, apre le natiche e mostra gli sfinteri, dapprima con lo pseudonimo di Evguénie Sokolov, pittore fecale e suo alter ego, protagonista tragicomico di “Gasogramma”, il veloce e surreale romanzetto sull’arte del segno, inciso da una mano attraverso le vibrazioni del peto, croce e delizia del protagonista, dalla nascita alla morte; il discorso continua in Mauvaises Nouvelles des Etoiles, che trae il titolo da un’opera di Paul Klee appesa nel suo salotto, secondo e meno riuscito disco reggae, realizzato con gli stessi musicisti di Aux armes et caetera.
A ben ascoltare, e a leggerne l’antefatto, il disco non nasce come naturale proseguimento del precedente: i musicisti si sono arricchiti e hanno ormai perso la spontaneità rilassata della prima collaborazione, Serge è totalmente preda del suo delirio anale, e il 1981 è anno di diverso, diametralmente opposto tripudio di generi, con la new wave a dettar le regole del mercato discografico. Gettar via Mauvaises Nouvelles des Etoiles sarebbe, tuttavia, atto ingrato, vista l’innata incapacità di Serge di realizzare qualcosa di realmente brutto, e, fosse solo per la complementarietà con le ossessioni del momento, il disco conserva un suo intrinseco valore: “Ecce Homo” è la presentazione ufficiale di Gainsbarre, “Juif et Dieu” è il riscatto ebreo, con cui si fa discendere il fior fiore dell’umana cultura dalla razza semita, mentre “Evguénie Sokolov” è la sinfonia petomane, su un tappeto dub, dedicata al protagonista di “Gasogramma”. Traccia che un po’ torna a fare i conti con la proverbiale grazia, e che, in qualche modo, seppur debolmente, salda “Mauvaises Nouvelles des Etoiles” a “Aux Armes Etc” è “La Nostalgie Camarade”, con il parlato sommesso e intrigante, accarezzato dai cori vellutati delle I Threes.

La dissoluzione senza ritorno, cui Serge decide di abbandonarsi, nell’ultimo decennio della sua esistenza, viene apparentemente mitigata dalla nascita di un nuovo figlio, il piccolo Lucien, nato dalla relazione con Caroline Paulus, in arte Bambou, modella eurocinese, e sua devota fan, prima ancora che amante. Jane, però, non resta esclusa, quasi come edera cui arrampicarsi nei momenti di più grande disperazione, nei deliri alcolici, nella desolante solitudine, che, dalla fine del loro rapporto, emerge con prepotenza, mostrando Serge in tutta la sua vulnerabilità e debolezza. Bambou è la madre di suo figlio, ma non è la donna della sua vita, e farebbe tenerezza credere che lo fosse, per un uomo di sessant’anni, anni con picchi di inarrivabile intensità.
Malgrado la nebbia alcoolica, l’imminente cecità, i sintomi di una cirrosi, Serge vuole ancora lavorare, che si tratti di colonne sonore o d’altro, è assolutamente deciso a realizzare ancora un altro album. Love On The Beat esce nel 1984, preceduto da un esilarante scandalo televisivo: nel marzo Serge, ospite della tv francese, brucia una banconota da cinquecento franchi, in barba a quella “puttana chiamata socialismo”, dichiarando orgogliosamente di pagare tutte le sue tasse sino all’ultimo centesimo. Love On The Beat, su suggerimento di Philippe Lerichomme, il fidato produttore, viene registrato in New Jersey, nel garage del chitarrista Billy Rush, con altri musicisti che avevano lavorato per Peter Gabriel e David Bowie (Larry Fast, Stan Harrison, Steve e Gorge Simms). Declinando particolari morfologie e perversioni sessuali, di cui anche l’omosessualità, Love On The Beat ritrae Serge in copertina truccato da donna, mentre fuma con sguardo ammiccante, e, con assoluta naturalezza, già dalla prima traccia, riesce ad adattarsi in maniera assolutamente affascinante al funk-wave morbosamente sulfureo della title track. Il tema dell’omosessualità torna, vischioso, in “Kiss Me Hardy”, pop-song dal coro gay, in cui vengono citati Francis Bacon e l’Ammiraglio Nelson, nel commiato dal suo amante, in punto di morte.

Serge Gainsbourg - Charlotte GainsbourgIl non ritorno dallo scandalo è, tuttavia, il pornosoft filiale di “Lemon Incest”, la sensuale dichiarazione d’amore tra lui e l’adolescente Charlotte, complessa e ambigua fiaba elettronica per adulti, su una base di Chopin. Il video, con Serge a torso nudo e Charlotte con indosso soltanto la camicia paterna, distesi su un letto a cantarsi il proprio amore, tra innocenti carezze, viene bollato quale insultante, disgustoso, evidente esempio di turbe mentali, fraintendendo, in tal modo, l’intenzione iniziale, e gettando fango su quella che, invece, fuori da ogni sdegno moralistico, è nient’altro che una dichiarazione d’amore di un padre sensuale a una figlia adorabilmente fragile.
Nel mentre la vita continua a sfumare, come i cerchi di fumo delle inseparabili Gitanes e il retrogusto velenoso del fidato alcol, l’ultimo atto discografico di Serge, nel 1987, è un album sfacciatamente figlio dei tempi. You’re Under Arrest, partorito dalla fascinazione ambivalente per la polizia, come propaggine di un’ammirazione mai del tutto sopita per la divisa, e dall’incanto degradante della sensualità nera dei bassifondi, è l’ultimo disco in studio, liricamente delirante e ben allineato nel filone pop-wave, venato di black music, declinata nell’inedita morfologia del rap. Serge canta, distaccato, di essersi imbattuto in due poliziotti, nel Bronx, alla ricerca di una prostituta minorenne e tossica di nome Samantha, ma i poliziotti non possono non riconoscerne la leggendaria grandezza, nel dichiarare, nella title track, “You’re under arrest, because you’re the best”. E Samantha è l’ossessione tossica che torna in “Baille Baille Samantha”, synth-funk dilatato, nel quale Serge canta il suo sdegno per la dipendenza dagli stupefacenti, poi ripreso in “Aux Enfants de La Chance”, malinconica ballata elettronica.
La visionarietà lasciva non manca, e le recenti intemperie esistenziali non hanno tolto il gusto del gioco dialettico, che tocca apici di scandaloso divertissement in “Suck Baby Suck”, in cui Samantha viene invitata alla fellatio sulla colonna sonora di Chuck Berry (“Suck, baby suck, with the cd of Chuck, Berry Chuck”). Quasi cieco, agli sgoccioli, alienato dal contesto, Serge, in chiusura, si concede anche il gusto di una disco-hit, “Mon Légionnaire”.

Negli ultimi quattro anni della sua vita, Serge si consacra definitivamente al vizio, così da iniziare un andirivieni in ospedale, nel tentativo della disintossicazione. Mentre Lulu, l’ultimogenito, cresce accudito da Bambou, il punto di riferimento prioritario resta Jane Birkin, l’amante, la moglie, la figlia e l’amica eterna, la cui casa è più amorevole e confortante di qualsiasi struttura sanitaria.
La sera del primo marzo 1991, Serge rientra nel suo appartamento in Rue De Verneuil, dopo aver festeggiato il compleanno di Bambou, che, col piccolo Lulu, vive a qualche isolato di distanza. Qualche ora dopo, Bambou lo chiama al telefono, senza ricevere risposta alcuna e, insospettita, corre a casa da lui. La porta, di cui la donna non ha mai posseduto le chiavi per esplicita volontà di Serge, viene sfondata dai pompieri, che si trovano di fronte non il ghignante Gainsbarre, e nemmeno il dandy Gainsbourg, ma un uomo poco più che sessantenne, che, come un neonato di morte, torna ad essere Lucien, le petit juif.
Il 2 marzo la Francia si ferma, per riconsegnare la memoria d’oro e furore del suo figlioccio devoto alla stanza numero 44 di un Hotel plus que Particulier, donandone, invece, la corporeità al cimitero di Montparnasse, di lì a qualche giorno.

Il est venu nous dire qu’il s’en vait.

http://www.ondarock.it/songwriter/sergegainsbourg.htm

Serge Gainsbourg, Le Poinçonneur des Lilas, 1959




La Valse des Officiers – Serge Gainsbourg chante en Russe

 

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