David Harvey (geografo) a Perugia – note su David Harvey by Gabriella Giudici + video

Daniele Balicco, Pietro Bianchi, Interpretazioni del capitalismo contemporaneo/ 2. David Harvey

by gabriella

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La seconda voce dedicata alle interpretazioni del capitalismo contemporaneo da Balicco e Bianchi, pubblicata da Le parole e le cose. La prima, sul pensiero di Fredric Jameson, è accessibile qui. Di Harvey è disponibile Breve storia del neoliberismo.

Molto diversa rispetto a quella di Jameson – che resta, nella solo apparente bulimia teorica, un marxista occidentale standard – l’impostazione teorica di David Harvey. A dire il vero, il suo percorso intellettuale è così particolare da poter essere considerato quasi un unicum all’interno delle vicende del marxismo internazionale di fine secolo. Non soltanto perché il suo ambito disciplinare – la geografia – lo colloca in una posizione strutturalmente eterodossa rispetto alla tradizione marxista, ma anche per il relativo isolamento che caratterizzerà buona parte della sua vita intellettuale, fino all’indubbio successo degli ultimi anni.

Harvey compie la sua formazione all’Università di Cambridge; le sue prime ricerche di geografia storica riguardano la coltivazione del luppolo nel Kent del XIX Secolo. Anche il suo primo lavoro importante, Explanation in Geography8, pubblicato nel 1969, è relativamente tradizionale. Tuttavia già in questi primi anni di apprendistato si nota un bisogno positivista di dare respiro sistematico ad un disciplina, come la geografia, ancora chiusa in quello che Harvey definisce «eccezionalismo», ovvero la tendenza a concepire i propri oggetti di studio come una sequenza di casi particolari sprovvisti di una qualsivoglia legge universale9. La svolta, allo stesso tempo politica e accademica, avviene nel 1970 con il trasferimento negli Stati Uniti, alla Johns Hopkins University di Baltimora. 10, rappresenta il suo definitivo incontro con il marxismo. Tuttavia è solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con The Limits to Capital11, il suo lavoro teorico più ambizioso e più sistematico, che la sua originale impostazione teorica raggiunge piena maturità. Harvey ci lavora per quasi un decennio, trascorrendo anche un anno di studi a Parigi (esperienza alla base di un successivo studio – che è probabilmente il suo capolavoro saggistico – sulla trasformazione urbanistica, sociale e politica della Parigi di Hausmann12). Alla pubblicazione del libro, che avverrà solo nel 1982, le reazioni furono tuttavia abbastanza fredde. Il lavoro venne sostanzialmente ignorato, perfino nel dibattito economico marxista (unica eccezione, la recensione negativa di Michael Lebowitz sulla Monthly Review). Harvey scontava senz’altro la poca familiarità che molti studiosi marxisti avevano con la disciplina geografica. Tuttavia, non è difficile riconoscere che la lenta penetrazione delle tesi di Harvey nel dibattito teorico internazionale derivi soprattutto dalla novità del suo approccio. Oggi, a distanza di oltre tre decenni dalla pubblicazione, The Limits to Capital è universalmente riconosciuto come il punto di riferimento imprescindibile di quanto, nella teoria internazionale, cade sotto il nome di «materialismo storico-geografico».

Harvey costruisce la propria argomentazione attraverso un confronto serrato con i tre volumi del Capitale, riducendo al minimo i riferimenti alla letteratura secondaria. La caratterista principale di quest’opera è infatti quella di essere un appassionato close reading del testo marxiano. Del resto, i suoi seminari universitari di lettura del Capitale, che vanno avanti ininterrottamente dal 1971 (e che hanno avuto negli ultimi anni, grazie alla pubblicazione su web – www.davidharvey.org – un successo planetario) oltre a provare il suo indubbio talento divulgativo, mostrano molto bene il suo metodo di lavoro. L’idea di fondo di The Limits to Capital è relativamente semplice: analizzare il processo di accumulazione capitalistico attraverso la lente della sua articolazione spaziale. Diversamente da Jameson, Harvey astrae

«da un certo tipo di complessità (la complessità empirica della vita di ogni giorno), in modo da rendere visibile un’altra complessità, la complessità dei processi sottostanti che appaiono nella forme»13.

Seguendo Marx, Harvey legge il rapporto di capitale come un rapporto strutturalmente fondato su una contraddizione: il processo di accumulazione, infatti, è per un verso caratterizzato da spiccati tratti di omogeneizzazione (l’universalità del valore divenuto denaro), ma per un altro tende ad esprimersi sempre in forme particolari differenti. Alla coppia concettuale astratto/concreto, che Marx mutua da Hegel, si sovrappone così la coppia omogeneo/differente. Secondo Harvey, la mobilità e rapidità della ristrutturazione dei processi di accumulazione intrattiene sempre un rapporto dialettico con la dimensione concreta dello spazio. Da un lato infatti, la dimensione spaziale permette e fluidifica i processi di accumulazione in un certo luogo, ma dall’altro lato può esserne un ostacolo nel momento in cui, ad esempio, la rigidità del capitale fisso impedisce la rapidità di un processo di ristrutturazione. In Harvey dunque, lo spazio non è un’alterità inerte e immutabile che si oppone dall’esterno al processo di accumulazione; semmai è un soggetto in continua trasformazione (o meglio, il risultato di un rapporto sociale antagonistico) nel quale si sono sedimentati i cicli precedenti e le crisi che l’hanno attraversato. È qui che vediamo l’ambiguità della parola limit, essendo contemporaneamente un ostacolo che frena il processo di accumulazione e insieme il limite del modo di produzione capitalistico che deve essere superato ad ogni ciclo.

Per Harvey la circolazione di capitale è caratterizzata da una fondamentale e ineliminabile instabilità: da un lato perché si producano dei profitti è necessario impiegare lavoro vivo nel processo produttivo; dall’altro, l’innovazione tecnologica tende ad espellere sempre di più lavoro vivo – l’unica fonte del valore – dalla produzione. Il lavoro vivo, pur necessario, tende paradossalmente ad essere sostituito dall’innovazione tecnologica nella produzione. Il risultato è quella forma di irrazionalità capitalistica che emerge nitidamente nei periodi di crisi, dove coesistono enormi capacità produttive inutilizzate e disoccupazione di massa. In questi casi, i surplus sia di capitale fisso che di forza-lavoro, che non riescono a essere assorbiti, inducono un processo di svalutazione (sotto forma o di merci invendute o di capacità produttive sottoutilizzate o di disoccupazione). A rigor di logica sarebbe possibile avere, a seconda dei rapporti di forza o a causa di squilibri nella composizione, solo surplus di capitale fisso o solo di forza-lavoro. Tuttavia, Harvey è interessato soprattutto a quei momenti storici nei quali il capitale incontra una crisi strutturale, dove vi è un surplus che non riesce a essere assorbito in entrambi i poli della relazione. Questa contraddizione fondamentale che non può essere risolta una volta per tutta, può tuttavia generare dei temporanei processi di ristrutturazione che si muoveranno lungo due direttrici: o temporali o spaziali. Nelle direttrici temporali, attraverso la creazione di capitale fittizio, viene dilazionato nel tempo l’impatto con lo squilibrio fondamentale nella produzione (processi di finanziarizzazione). Ma è sulle direttrici spaziali che Harvey concentra la sua attenzione, contribuendo ad uno sviluppo innovativo delle teorie marxiane della crisi. La domanda fondamentale di The Limits to Capital sarà dunque: in che modo il capitale riesce a evitare momentaneamente la propria svalutazione tramite una ristrutturazione spaziale?

Secondo Harvey, è indubbio che Marx abbia privilegiato la dimensione temporale su quella spaziale:

«il fine ultimo e l’obiettivo di chi è impegnato nella circolazione del capitale deve essere, dopotutto, controllare il surplus di tempo di lavoro e convertirlo in profitto all’interno del tempo di rotazione socialmente necessario»14.

Tuttavia, se si osservano le dinamiche geografiche dello sviluppo capitalistico, è altresì indubbio che storicamente il capitale esprima una continua tensione verso il superamento delle barriere spaziali o, più precisamente, verso l’annientamento dello spazio mediante il tempo. E tuttavia questa compressione spazio/temporale può essere raggiunta soltanto tramite una continua riconfigurazione spaziale. Si giunge così al paradosso di un’organizzazione dello spazio finalizzata, capitalisticamente, al superamento dello spazio stesso. Harvey definisce spatial fix il modo attraverso cui lo spazio organizza il superamento del proprio stesso limite.

Nonostante questi diversi significati di fix possano apparire contraddittori [ndr: “fissare” “inchiodare” e “aggiustare” “risolvere un problema”], sono tutti internamente legati all’idea che qualcosa (una questione, un problema) possa essere corretta e messa al sicuro. Nella mia concezione del termine, questa contraddizione può essere usata per far vedere qualcosa di importante delle dinamiche geografiche del capitalismo e delle sue tendenze alla crisi. In particolare mi sono occupato del problema della “fissità” (nel senso di essere posto al sicuro) opposta al movimento e alla mobilità del capitale. Ho notato, per esempio, che il capitalismo ha bisogno di fissare uno spazio (in strutture immobili di trasporto e reti di comunicazioni, così come nella costruzione di fabbriche, strade, case, acquedotti, e altre infrastrutture fisiche) per superare lo spazio (raggiungere la libertà di movimento attraverso i bassi costi di trasporto e comunicazione). Questo porta a una delle contraddizioni centrali del capitale: deve costruire uno spazio fisso (fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della sua storia soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove possibilità di accumulazione in altri luoghi e territori)15.

Dall’esportazione di capitali o di forza-lavoro attraverso l’inclusione di nuovi territori nel modo di produzione capitalistico (imperialismo) allo sviluppo di nuove tecnologie che accorciano tempi di spostamento di merci o capitali; dal governo territoriale sulla forza-lavoro (differenziali geografici nel mercato del lavoro) al mercato fondiario e così via, compito di una teoria marxiana dello spazio è quello di descrivere la modalità attraverso cui le contraddizioni fondamentali di un processo di accumulazione si esprimono e si attestano temporaneamente in un dato equilibrio spaziale.

A partire da The Condition of Postmodernity16 fino ai saggi pubblicati in questi ultimi anni (The New imperialism17; A Brief History of Neoliberalism18; The Enigma of Capital19), Harvey applicherà le categorie elaborate in Limits to Capital all’attuale fase di accumulazione e alla sua crisi. In particolare, con il concetto di «accumulazione per espropriazione» (accumulation by dispossession) Harvey identifica la strategia con cui la classe dominante attuale sta cercando di ri-configurare un nuovo spazio adeguato alla ripresa dell’accumulazione. Esproprio e privatizzazione di beni comuni, erosione di quel che resta del welfare universalistico, attacco alle conquiste sindacali di mezzo secolo, sono tutte azioni politiche solo apparentemente diversificate, ma che in realtà hanno come scopo comune l’appropriazione di una serie di “spazi” non del tutto messi a valore perché ancora parzialmente governati da una logica pubblica.

Con [accumulazione per espropriazione] intendo la continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha descritto come ‘primitive’ o ‘originarie’ durante l’ascesa del capitalismo. Queste includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione forzata di popolazioni di contadini […]; la conversione di varie forme di proprietà intellettuale (comune, collettiva, statale, etc.) in diritti di proprietà privata esclusiva […]; la soppressione dei diritti ai beni comuni; la mercificazione della forza lavoro e la soppressione di forme alternative (indigene) di produzione e consumo; processi coloniali, neocoloniali, imperiali di appropriazione di risorse (comprese le risorse naturali); monetizzazione dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la tratta di schiavi (che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come mezzo radicale di accumulazione per espropriazione.20

Secondo Harvey, dunque, non si può separare il processo di finanziarizzazione, generato dalla crisi strutturale degli anni Settanta, dall’impressionante compressione spazio-temporale che l’ha accompagnato: nel mondo che abitiamo il tempo di accumulazione del capitale (e la conseguente ristrutturazione spaziale) si è infatti accelerato in questi ultimi quarant’anni in modo vertiginoso, creando squilibri e instabiltà che difficilmente potranno assestarsi in un nuovo spatial fix capace di armonizzarli, seppur transitoriamente, senza passare attraverso un lungo periodo di caos e di distruzioni massicce di capitale; e, naturalmente, di vita.

Note

8 D. Harvey, Explanation in Geography, Edward Arnold, London 1969.

9 P.Anderson – D.Harvey, Reinventing Geography in New Left Review, IV, 2000, pp. 75-97.

10 D. Harvey, Social Justice and the City, John Hopkins University Press, Baltimore 1973.

11 Id, Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982.

12 Id, Paris. Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.

13 Ibidem.

14 D. Harvey, The geopolitics of capitalism, in D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social Relations and Spatial Structures, Macmillan, Londra 1985, pp. 128 – 163, (trad. it. di M. Dal Lago, La geopolitica del capitalismo, in G. Vertova (a cura di), Lo spazio del capitale. cit., p. 121).

15 D. Harvey, Globalization and the ‘Spatial Fix’ in «Geographische Revue», n. 2, 2001, p. 24 (traduzione di Pietro Bianchi).

16 Id, The Condition of Postmodernity: an Enquiry into the Origins of Cultural Change, Blackwell, 1989, Oxford (UK) – Cambridge (Mass.) (tr.it La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1992)

17 Id, The New Imperialism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2003 (tr.it La guerra perpetua, Il Saggiatore, Milano 2004)

18 Id, A Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005)

19 Id., The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York, Oxford University Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011.

20 Id, A Brief History of Neoliberalism cit., p.159.

Bibliografia

D.Harvey, Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982.

Id, Condition of postmodernity. An Enquiry into the origins of Cultural Change, Blackwell, Oxford – Cambridge (Mass.) 1989 (tr.it La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1991).

Id, Paris. Capital of Modernity, Routledge, London – New York 2003.

Id, A Brief History of the Neoliberalism, Oxford (UK) – New York, Oxford University Press 2005 (tr.it Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005).

Id, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, New York, Oxford University Press 2010 (tr.it L’Enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011.

David Harvey. A Critical Reader, (edited by) N.Castree – D. Gregory, Blackwell, Malden – Oxford 2006

Lo spazio del capitale, (a cura di) G. Vertova, Editori Riuniti, Roma 2009.

http://gabriellagiudici.it/daniele-balicco-pietro-bianchi-interpretazioni-del-capitalismo-contemporaneo-2-david-harvey/

David Harvey, Su “Le capital au XXIe siècle”

by gabriella

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La critica di David Harvey al testo di Thomas Piketty uscita su Commonware.

Thomas Piketty è l’autore di Capital, libro che ha suscitato un gran scalpore. Argomenta in favore della tassazione progressiva e di una tassa sul patrimonio globale come unica soluzione per contrastare la tendenza verso la creazione di una forma “patrimoniale” di capitalismo, caratterizzata da “terrificanti” disuguaglianze di ricchezza e reddito. Inoltre, documenta dettagliatamente, con una precisione atroce e difficilmente confutabile, l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza che al reddito, con particolare enfasi sul ruolo della ricchezza. Demolisce la largamente diffusa opinione secondo cui il capitalismo del libero mercato sia distributore di ricchezza e rappresenterebbe il grande baluardo per la difesa delle libertà individuali e non. Piketty fa vedere come il capitalismo del libero mercato, in assenza di significativi interventi redistributivi da parte dello Stato, produce oligarchie antidemocratiche. Queste tesi hanno dato adito all’oltraggio liberale, guidato dall’apoplettico Wall Street Journal.

Il libro è stato spesso presentato come il sostituto per il ventunesimo secolo dell’opera ottocentesca di Karl Marx dallo stesso titolo. Piketty in realtà nega che questa fosse la sua intenzione, il che è un bene dal momento che il suo non è affatto un libro sul capitale. Non ci spiega il perché del crollo del 2008 e perché da così tanto tempo così tante persone non riescono ad affrancarsi dal duplice fardello della costante disoccupazione e dalla preclusione delle case. Non ci aiuta a capire perché la crescita è attualmente così fiacca negli Stati Uniti, a differenza che in Cina, e perché l’Europa si trova in uno stato di paralisi dato dalle politiche d’austerità e da un’economia in stagnazione. Ciò che Piketty dimostra statisticamente (e dovremmo essere tutti grati a lui e ai suoi colleghi per questo) è che il capitale durante la sua storia ha sempre avuto la tendenza a produrre livelli sempre maggiori di diseguaglianza. Per molti di noi questa non è certo una novità. Inoltre, questa era esattamente la conclusione teorica di Marx nel Volume Uno della sua versione del Capitale. Piketty non se ne accorge, e il che non è sorprendente dal momento che, di fronte alle accuse della stampa di destra di essere un marxista sotto mentite spoglie, ha sempre sostenuto di non aver letto il Capitale di Marx.

Piketty fornisce una gran mole di dati a sostegno delle sue argomentazioni. Il suo resoconto sulle differenze tra reddito e ricchezza è convincente e utile. Inoltre, propone una ragionata difesa delle tasse di successione, della tassazione progressiva e di una tassa sul patrimonio globale (anche se quasi certamente trattasi di misure politicamente inattuabili) come possibili antidoti a un’ulteriore concentrazione di ricchezza e potere.

Ma perché si verifica questa tendenza a una crescente disuguaglianza nel corso del tempo? A partire dai suoi dati (conditi con alcuni suggestivi aneddoti letterari tratti dalle opere di Jane Austen e Balzac) estrae una legge matematica per spiegare cosa accade: la progressiva accumulazione di ricchezza da parte del famoso uno per cento (termine reso popolare grazie al movimento “Occupy”) è dovuta al semplice fatto che il tasso di rendimento del capitale (r) supera sempre il tasso di crescita del reddito (g). Questo, dice Piketty, è ed è sempre stata “la contraddizione centrale” del capitale.

Ma una regolarità statistica di questo tipo non può costituire una spiegazione adeguata, tantomeno una legge. Quindi, quali forze producono e sostengono una tale contraddizione? Piketty non lo dice. La legge è la legge, e così è. Marx avrebbe ovviamente attribuito l’esistenza di una tale legge allo squilibrio di potere tra capitale e lavoro. Ed è una spiegazione che ancora regge. Il costante calo della quota di lavoro nel reddito nazionale dal 1970 è dovuto al calo di potere politico ed economico del lavoro, poiché il capitale ha mobilitato tecnologie, disoccupazione, delocalizzazione e politiche anti-lavoro (come quelle di Margaret Thatcher e Ronald Reagan) per schiacciare tutte le opposizioni. Come Alan Budd, un consigliere economico di Margaret Thatcher, ha ammesso in un momento di distrazione, le politiche anti-inflazionistiche degli anni 80 si sono rivelate essere

“un  modo eccellente per aumentare la disoccupazione, e aumentare la disoccupazione era un modo estremamente desiderabile per ridurre la forza del classi lavoratrici… quello che veniva lì progettato era in termini marxisti una crisi del capitalismo, che ha ricreato un esercito di forza-lavoro di riserva e che da allora ha permesso ai capitalisti di ottenere elevati profitti.”

La disparità di retribuzione tra CEO e lavoratori medi era pari a trenta a uno nel 1970. Oggi è nettamente superiore a trecento a uno, e nel caso di MacDonalds equivale circa a milleduecento a uno.

Karl Marx (1818 - 1883)
Karl Marx (1818 – 1883)

Eppure nel volume 2 del Capitale di Marx (che Piketty non ha letto ma rigetta spensieratamente) Marx ha sottolineato che la propensione del capitale all’abbassamento dei salari a un certo punto limiterà la capacità del mercato di assorbire il prodotto del capitale stesso. Henry Ford affrontò questo dilemma tempo fa, quando concesse ai suoi operai 5 dollari di salario per giornata lavorativa di otto ore con il fine, disse, di rilanciare il consumo. Erano in molti a ritenere che la mancanza di domanda effettiva fosse alla radice della Grande Depressione del 1930. Fu questo a ispirare le politiche espansive keynesiane del secondo dopoguerra che parzialmente ridussero le disuguaglianze di reddito (anche se non tanto quelle relative alla ricchezza), in un contesto di crescita sostenuta da forte domanda. Ma questa soluzione si basava sulla relativa emancipazione del lavoro e sulla costruzione dello “stato sociale” (termine di Piketty) finanziato tramite tassazione progressiva.

“Tutto sommato”, scrive, ” nel periodo tra il 1932 e 1980, quasi mezzo secolo, l’imposta federale sui redditi elevati era mediamente intorno all’81 per cento negli Stati Uniti.”

E questa non ha in alcun modo attenuato la crescita (un’altra prova di Piketty che confuta le credenze della destra).

Milton Friedman (1912 - 2006)
Milton Friedman (1912 – 2006)

Verso la fine degli anni 60 molti capitalisti capirono che bisognava agire contro l’eccessivo potere del lavoro. Da qui l’estromissione di Keynes dal pantheon degli economisti rispettabili, e il passaggio al pensiero di Milton Friedman schierato dalla parte dell’offerta, la crociata per stabilizzare e ridurre la tassazione, per decostruire lo stato sociale e disciplinare le forze del lavoro. Dopo il 1980 negli Stati Uniti le aliquote fiscali più elevate furono abbassate e i redditi da capitale – un’importante fonte di reddito per gli ultra-ricchi – tassati ad un tasso molto più basso, incrementando enormemente il flusso di ricchezza diretto verso l’uno per cento. Eppure l’impatto sulla crescita, Piketty dimostra, è stato trascurabile. Dunque, la “trickle down”, la redistribuzione dei benefici a partire dall’alto (un’altra delle convinzioni preferite della destra) non funziona. Alla sua base non c’è alcuna legge economica. Si tratta di una scelta politica.

Ma allora la questione più pressante non può che tornare ad essere: dove è la domanda? Una questione che Piketty ignora sistematicamente. Gli anni 90 l’hanno elusa grazie a una vasta espansione del credito, compresa l’estensione del finanziamento ipotecario nei mercati sub-prime. Ma la conseguente bolla speculativa era destinata a esplodere, così come avvenuto nel 2007-8, abbattendo la Lehman Brothers e con essa il sistema creditizio. Tuttavia, i tassi di profitto e l’ulteriore concentrazione di ricchezza privata sono tornati a crescere molto rapidamente dopo il 2009, mentre tutto e tutti versavano in una pessima situazione.  I tassi di profitto delle imprese non sono mai stati così alti come oggi negli Stati Uniti. Le aziende dispongono di  spropositate quantità di denaro e si rifiutano di spenderlo, perché le condizioni di mercato non sono stabili.

La formulazione della legge matematica di Piketty più che rivelare il coinvolgimento della politica di classe, la occulta. Come Warren Buffett ha osservato,

“certamente c’è una guerra di classe, ed è la mia classe, i ricchi, che la stanno facendo e stiamo vincendo”.

Un chiaro indice della loro vittoria è dato dalle crescenti disparità di ricchezza e di reddito dell’1% rispetto a tutti gli altri.

Vi è, tuttavia, un problema centrale nell’argomentazione di Piketty. Essa poggia su una definizione erronea di capitale. Il capitale non è una cosa, ma un processo. Si tratta di un processo di circolazione dove il denaro viene utilizzato per fare altro denaro, spesso ma non esclusivamente attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Piketty definisce il capitale come stock di tutti i beni detenuti da privati, aziende e governi e che possono essere commerciati, indifferentemente se questi beni sono utilizzati o meno. Ciò include terreni, immobili e diritti di proprietà intellettuale così come la propria arte o la propria collezione di gioielli. Come determinare il valore di tutte queste cose è un problema tecnico complicato che non ha una soluzione condivisa. Al fine di calcolare un tasso significativo di rendimento, r , si necessita di un qualche modo per valorizzare il capitale iniziale. Purtroppo non c’è modo per valorizzarlo indipendentemente dal valore dei beni e dei servizi utilizzati, o dal prezzo al quale può essere venduto sul mercato. L’intero pensiero economico neoclassico (che è la base del pensiero di Piketty) si fonda su una tautologia. Il tasso di rendimento del capitale dipende in modo cruciale dal tasso di crescita perché il capitale si valorizza attraverso cosa produce, e non attraverso ciò che serve alla produzione. Il suo valore è fortemente influenzato dalle condizioni speculative e può essere gravemente deformato dalla famosa “esuberanza irrazionale” che Greenspan ha individuato come caratteristica dei mercati finanziari e immobiliari. Se sottraiamo dalla definizione di capitale (e la motivazione per il loro inserimento è piuttosto debole) abitazioni e immobili – per non parlare del valore delle collezioni d’arte degli investitori speculativi, allora la spiegazione di Piketty per le crescenti disparità di ricchezza e reddito non regge, nonostante rimangano valide le sue descrizioni sullo stato delle disuguaglianze passati e presenti.

Denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari non utilizzati in modo produttivo, non sono capitale. Se il tasso di rendimento sul capitale che viene utilizzato è elevato, è perché una parte del capitale viene ritirato dalla circolazione e praticamente va in sciopero. Limitare l’offerta di capitale per nuovi investimenti (un fenomeno a cui stiamo assistendo) garantisce un alto tasso di rendimento sul capitale in circolazione. La creazione di una scarsità artificiale non è solo ciò che fanno le compagnie petrolifere per assicurarsi alti tassi di rendimento: tutto il capitale lo fa quando ha la possibilità di farlo. E’ questo meccanismo a sostenere la tendenza del tasso di rendimento del capitale (indipendentemente da come viene definito e misurato) a superare sempre il tasso di crescita del reddito. Così il capitale si riproduce, indipendentemente da quali siano le conseguenze per noi altri. Così vive la classe capitalista.

L’insieme di dati raccolti da Piketty è prezioso. Ma la sua spiegazione riguardo al perché sorgono disuguaglianze e tendenze oligarchiche è gravemente viziata. Le sue proposte per rimediare alle disuguaglianze sono ingenue, se non utopiche. Inoltre, non si può certo dire che abbia prodotto un modello funzionante per il capitale del XXI secolo. Per questo abbiamo ancora bisogno di Marx o di un suo equivalente contemporaneo.

* Traduzione di Ivan Bonnin (@ivnbkn).

http://gabriellagiudici.it/david-harvey-su-le-capital-au-xxi-siecle/

David Harvey a Passignano (Perugia)

by gabriella

Giovedì 18 settembre 2014, alle 18,00

David Harvey interviene ad un dibattito sul «capitalismo estrattivo»

organizzato dal Seminario annuale di EuroNomade a Passignano

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http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/


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