Galeotto I Malatesta – Il lato oscuro del Principe – Beato Galeotto Roberto Malatesta

 

Biografia

Galeotto I Malatesta (Rimini, 1299Cesena, 1385) è stato un condottiero italiano.

Figlio di Pandolfo I e fratello di Malatesta III Guastafamiglia, fu signore di Rimini, Fano, Ascoli Piceno, Cesena e Fossombrone. Seguì sempre il Guastafamiglia e fu servitore della Chiesa.

Sposò nel 1323 Elisa de la Villette, sua prima moglie, nipote del Rettore della Marca per la Santa Romana Chiesa Amelio di Lautrec. Si unì in seconde nozze con Gentile di Rodolfo da Camerino, figlia di Rodolfo II Da Varano, dopo essersi riappacificato col padre di lei[1]. Da questa ebbe 4 figli maschi:

Unitamente al fratello ed affiancato con il cardinale Bertrando del Poggetto, nel 1333 combatté presso le mura di Ferrara, ma cadde prigioniero. Liberato, si unì a Ferrantino contro il legato pontificio e con gli eserciti riuniti conquistò il territorio di Rimini. Ben presto Ferrantino tramò contro il Galeotto, ma questi lo imprigionò e si nominò signore della città. Dovette peraltro combattere con lo spodestato Ferrantino, e la guerra durò fino al 1343. Ludivico di Baviera gli assegnò il territorio di Fano.

Nel 1347 invase la Marca anconetana e prese Senigallia, Ancona, in seguito espugnò Osimo, Jesi ed Orciano, e in breve fu padrone della maggior parte della provincia. Vinse presso Fermo Gentile da Mogliano e Lonio dei Simonetti, facendo prigioniero quest’ultimo.

Nel 1348 la città di Ascoli Piceno dette il comando delle milizie a Galeotto il quale le assicurò protezione, ma nello stesso tempo cercava di rendersi signore della città.

Nel 1349 posò le armi e viaggiò in Palestina.

Nel 1351 fu chiamato da Luigi di Taranto a Napoli.

Venne battuto da Corrado Lupo presso Lanciano.

Nel 1353, insieme con il fratello e con un gran numero di armati pose l’assedio a Fermo, contro Gentile da Mogliano. Ma dovette correre a difendere Rimini, assalita da Fra Moriale e dai suoi venturieri. Combatté quindi il cardinale Albornoz, legato di papa Innocenzo VI, e nel 1353 ricuperò Fermo. Cercò di riprendere Recanati al legato pontificio, ma fu respinto. Pose l’assedio a Paterno, che si era ribellato. Combatté con Rodolfo da varano, ma fu fatto prigioniero. Dopo aver concluso la pace, i Malatesta ebbero dalla Chiesa il vicariato di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone.

Nel 1356 prese parte alla crociata bandita contro il signore di Forlì. Diede il guasto a Cesena e costrinse Faenza alla resa.

Nel 1357 occupò Cesena e posto assedio alla Murata, conquistò dopo un mese la rocca, validamente difesa dalla moglie del l’Ordelaffi. Prese quindi Castelnuovo e Bertinoro, ma assedio invano Forlì. Ebbe per tradimento Meldola e nel 1359 ottenne che l’Ordelaffi capitolasse con Forlì.

Nel 1360 fu inviato dal legato a Bologna, minacciata da Bernabò Visconti. Domò le ribellioni di Corinaldo e fortificò Bologna.

Nel 1361 fu inviato nel territorio di Parma e ne tornò con un ricco furto di bestiame.

Cercò inutilmente di espugnare Lugo, che non prese per la diserzione dei suoi mercenari.

Portò gli aiuti necessari a Bologna ed attaccato i nemici al ponte di San Ruffilo, li vinse facendo un cospicuo numero di prigionieri. Sostenne ancora la guerra per altri due anni e quindi ebbe il comando supremo della milizia della regina Giovanna.

Nel 1364, scoppiata la guerra tra Firenze e Pisa, sostituì nel comando delle milizie fiorentine il nipote Pandolfo. Posto l’accampamento a Cascina, distante sei miglia da Pisa, fu assalito dall’Acuto, capitano dei pisani, ma lo vinse, costringedolo a fuggire da Pisa.

Ebbe da Firenze molti onori, ma non poté compiere altre imprese, perché i suoi mercenari gli si ribellarono. Tornato a Rimini, successe al fratello, morto nel 1364, nella signoria, e governò ancora insieme ai figli di quest’ultimo, Ungaro e Pandolfo II. Tenne per sé Fano.

Nel 1368 andò a Padova, dove si trovava l’imperatore Carlo IV, quindi passò al soldo dell’imperatore Costantinopoli.

Nel 1372, in Avignone, da papa Gregorio XI fu riconfermato capitano generale della Chiesa, e portò la guerra a Barnabò Visconti, che vinse nel 1373 a Montechiaro, nel bresciano.

Per la morte dei nipoti accentrò in sé tutta la signoria dei Malatesta. Assistette il papa nella guerra contro i fiorentini, cercò di recuperare Urbino, ma il popolo urbinate lo respinse. Prese Cagli, ma ne fu cacciato. Nel 1376 costrinse Cesena a mantenersi fedele alla Chiesa, riconquistò Santarcangelo. Tornato a Cesena, ne venne allontanato dal cardinale legato, che vi commise atti di eccessiva ferocia, ragione per cui poté rioccuparla nel 1378, aggiungendovi la signoria di Bertinoro. Nello stesso anno ottenne il governo di Cesena dal conte di Romagna, a nome del papa. Istituì una forma di reggimento e richiamò i fuoriusciti.

Per il possesso di Cesenatico dovette muovere guerra a Guido da Polenta, ma la mediazione del marchese di Ferrara fece fare la pace nel 1381. Sennonché, due anni dopo, furono riprese le armi e il Polenta perdette Senigallia.

Nel territorio ravegnano prese Cervia, Polenta, Cuglianello e Bastia, ma a Ravenna fu sconfitto. Tornato a Rimini, la guerra fu continuata dai figli perché morì nel 1385

La tirannia nella città di Ascoli Piceno (1348-1353)

« A dì 7 de settembre fu morte ji vecario del signor Galeotto et Bertolino suo figliolo con tutti li officiali infra li quali fu il signore Vanni de Casia et Gentile suo figliolo Cola de Dominico de Francesco padrone garzone de Jacobuccio de Buon Jovanne Cambii Cola de Jutio li quali combattendo furno morti con più persone fuorestiere et fu pigliato il cassaro et fu più di 25 persone et fu bottata per terra la fortezza del cassaro »

(da “Ascoli nel Trecento” di A. de Santis)

Galeotto Malatesta di Rimini arrivò nella città di Ascoli Piceno nel mese di maggio dell’anno 1348 e vi rimase fino al 1353. Fu chiamato dal popolo ed eletto dagli ascolani quale “Capitan Generale dell’Armi Cittadinesche” per la guerra contro Fermo. Suo compito, ormai divenuto Signore di Ascoli, sarebbe stato anche quello di difendere e proteggere la città che versava in pessime condizioni a seguito della tirannia del suo predecessore Altoraccio, nipote del papa Clemente VI, dell’epidemia di peste, delle rovinose perdite subite a causa della guerra capeggiata dal nemico fermano Gentile da Mogliano, dalla siccità, dall’invasione delle cavallette, dalla carestia e da qualche danno del terremoto.

Gli ascolani avevano incontrato Galeotto Malatesta durante la guerra contro Fermo ed avevano avuto modo di apprezzare le sue capacità militari di tenere testa a Gentile da Mogliano. Pensarono quindi di affidarsi a lui, ed a suo fratello Malatesta, detto Malatestino. Per mezzo di un’ambasceria, li sollecitarono a correre in loro aiuto offrendo a Galeotto il generalato delle loro armi. Le cronache cittadine riferiscono che al tempo era un giovane ed ambizioso condottiero di ventura, congiunto in matrimonio nel 1323 con la giovane Elisa de la Villette, sua prima moglie, nipote del Rettore della Marca Amelio di Lautrech. Arrivò ad Ascoli con il fratello Malatestino ed un cospicuo numero di soldati e cavalieri ed il popolo lo acclamò come “difensore del popolo ascolano”. Malatesta organizzò un modesto ma valente esercito ed un reggimento costituito da montanari ed iniziò ad inseguire l’esercito fermano.

Nel mese di novembre del 1348 si scontrò a San Severino con Gentile da Mogliano il quale ripiegò verso Fermo e lasciò nelle mani degli ascolani molti prigionieri, vettovaglie e retroguardia. Galeotto, fiero di questa facile vittoria, tornò verso Ascoli e durante il cammino saccheggiò e sottomise i castelli di Marano, Castignano, Monte dell’Olmo e Carassai. Occupò anche San Benedetto a Mare, l’attuale San Benedetto del Tronto, grazie al tradimento di Piero Mancini che vendette la sua città per una ricompensa di 1.000 fiorini d’oro, pagati dagli ascolani. Sempre nello stesso anno la campagna di conquista proseguì con l’assedio alla città di Offida dove Galeotto si accampò con le sue truppe. Rovinò le strade che conducevano all’interno della cittadina e ruppe l’acquedotto che alimentava le fonti al di fuori delle mura. Gli offidani tentarono di contrastare con coraggiose sortite i malatestiani, ma al fine di evitare sofferenze e spargimento di sangue scesero alla resa. Sulla scia di questa ulteriore conquista si portò col suo esercito ad Ancona e la occupò durante una notte senza incontrare avverse resistenze da parte degli anconetani. Secondo le cronache dell’epoca non si esclude che forse avevano loro stessi invitato Malatesta a conquistare la città. Questo successo realizzò il desiderio di Malatesta da Verrucchio che avrebbe voluto dominare la Marca fino al fiume Tronto. Mancava solo la città di Fermo che non fu mai sottomessa alla signoria dei Malatesta, nonostante gli incessanti tentativi di delegittimare la sovranità di Gentile da Mogliano che fu sostenuto anche dall’ausilio della compagnia di ventura di Fra Moriale, ossia Montreal d’Albarno.

le opere fortificate, la congiura ai danni di Galeotto e l’arresto del vescovo Isacco Bindi (1349)

« … il signor Galiotto volze andar al Santo Sipulcro (…) et nel medesimo ando del mese de auste era deliberato, cierti citadini della citade d’Ascoli de fare tradimento alla vita de Ascoli dal signore Galiotto defensore, vendero alorecchia al detto signore; il quarto di gli ferno tagliare le teste, li quali furono messere Francischo de messer Parisano et Acavico de Jacobo de Libirtino, et fu nella piazza de sopra de pie de alle scale del palazzo (…) nel mese de 7bre fu tagliata la testa a Cicho de Jacubutio de Cabirtino nel campo de Parignano. Et nel medesimo ando il signore Galiotto fe fare le roche in Ascoli (…) del casare al monte, et l’aldra de quella al casaro a Ponte Maiore. (…) il signor Galiotto fe mettere prigione nella rocha de lo cassare al monte lo apiscopo de Ascoli, messer Jasacho et Angnilo e Binidette et Nicolono suo fratello. (…) fecie matonar tutta la cità de Ascoli che non ci rimase manche una minima straduccia. »

(da “Ascoli nel Trecento” di A. de Santis)

http://it.wikipedia.org/wiki/Galeotto_I_Malatesta

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Il lato oscuro del Principe

Art. cit. di John Law, Il principe del Rinascimento, in E. Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Roma-Bari 2007, pp. 13-30.

Torrazzo di Cremona.

Torrazzo di Cremona.

All’inizio del suo Die Kultur der Reinassance in Italien, del 1860, Burckhardt racconta una storia su papa Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa) e sul re dei Romani, Sigismondo di Lussemburgo. I capi spirituali e secolari delle cristianità si incontrarono a Cremona nel 1414, nel corso dei negoziati che avrebbero condotto al concilio di Costanza. Loro anfitrione fu il signore della città, Cabrino Fondulo, che accolse i suoi illustri ospiti sulla cima del Torrazzo, uno dei punti più alti di Cremona, perché ammirassero il panorama. Mentre lo contemplavano, la loro guida fu tentata di spingerli di sotto per ucciderli. Avendo come fonte la storia di Cremona di Antonio Campo, del 1645, John Addington Symonds, nel primo volume del suo The Renaissance in Italy, intitolato The Age of Despots (1875), ci offre una versione solo un po’ meno melodrammatica del medesimo episodio: Fondulo rimpianse di non essersi sbarazzato in tal modo dei due solo quando egli stesso stava per essere giustiziato a Milano nel 1425.
Burkhardt non ci rivela la sua fonte, che era probabilmente Le vite di Huomini illustri di Paolo Giovio (1561), ma nel contesto della sua opera il significato della storia ha un carattere essenzialmente storiografico. La storia racchiude in sé delle concezioni – alcune positive, altre negative – sul principe del Rinascimento che Burkhardt condivideva con alcuni storici del suo tempo e che contribuì a trasmettere ad altri storici.

L'antipapa Giovanni XXIII. Illustrazione del 1493, nella 'Cronaca di Norimberga', f. 238v. Sao Paulo.

L’antipapa Giovanni XXIII. Illustrazione del 1493, nella ‘Cronaca di Norimberga’, f. 238v. Sao Paulo.

In primo luogo, e senz’altro questo è l’elemento di maggior drammaticità, il principe del Rinascimento appare come qualcuno uso a comportarsi in modo cinico, spietato ed egoista con gli altri, chiunque fossero: sudditi, consiglieri, altri sovrani o persino i membri della sua famiglia. In secondo luogo in queste storie il principe manifesta spesso un certo disprezzo per il concetto medievale di cristianità ed in particolare rifiuta la visione di una società gerarchica e ordinata posta sotto le «due spade» del Papato e dell’Impero. Il signore del Rinascimento non è più un principe nel senso feudale del termine, ma piuttosto, in accordo con le concezioni di Machiavelli e di altri pensatori politici che si rifanno alla tradizione classica, appare come un sovrano indipendente che fa affidamento sulla sua intelligenza e sulle sue risorse piuttosto che sui propri superiori e sulla posizione che gli è affidata da Dio in una società piramidale. In terzo luogo, e forse più positivamente, il principe del Rinascimento sembra affrontare con un nuovo spirito gli affari di governo: riluttante a conformarsi alle usanze tradizionali e disposto, entusiasticamente, al mutamento. In tal modo egli avrebbe esercitato una maggiore influenza creativa sullo sviluppo dello Stato.

Pisanello, Ritratto dell'imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Tempera su vello, 1433 ca. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Pisanello, Ritratto dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Tempera su vello, 1433 ca. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Lo scopo principale di questo contributo sarà quello di mostrare che gli storici hanno generalmente sopravvalutato il ruolo del principe «rinascimentale»: i cambiamenti che si possono a buon diritto individuare in questo periodo sono spesso più di superficie che di sostanza e il più delle volte appaiono come il prodotto di circostanze piuttosto che non di scelte deliberate. A sostegno di questa tesi, la maggior parte degli esempi saranno tratti dall’Italia del XV secolo, che Burkhardt e altri hanno considerato un precedente e un modello per il resto dell’Europa del Rinascimento. Indipendentemente da questo interesse di carattere storiografico, l’Italia del XV secolo consentirà anche di studiare nuovi tipi di principati; regimi e monarchie signorili o dispotici sul modello europeo; regimi locali per origini ed influenza e regimi di rilevanza internazionale; principati di nuovo acquisto e altri che si richiamano ad antiche origini e pretendono persino una sanzione divina.

Bartolomeo Veneto, Ritratto di Cesare Borgia. Primo decennio del XVI secolo. Roma, Palazzo Venezia.

Bartolomeo Veneto, Ritratto di Cesare Borgia. Primo decennio del XVI secolo. Roma, Palazzo Venezia.

La violenza e il potere

Anche le versioni di Giovio-Burckhardt e di Campo-Symonds della storia di Cabrino Fondulo e dei due capi della cristianità vengono considerate solo delle leggende o degli aneddoti, nondimeno esse riflettono il fatto che il signore di Cremona aveva una ben meritata reputazione di violenza e crudeltà. Nel suo resoconto dell’incontro di Cremona, il cronista contemporaneo Andrea de Redusio da Treviso, solitamente ben informato, osserva che il papa e Sigismondo, alla luce di fatti precedenti, avrebbero fatto bene a non prolungare troppo i convenevoli con un ospite così sleale e pericoloso. Gli incidenti cui il Redusio si riferisce, sono quelli del luglio del 1406, quando Fondulo aveva preso il potere dopo aver assassinato i membri della famiglia che governava Cremona, i Cavalcabò, mentre essi godevano dell’ospitalità del loro seguace di un tempo nel suo castello di Maccastorno. Il sinistro ruolo del Torrazzo nell’episodio del 1414 si spiega con il fatto che già nel 1407 Cabrino aveva gettato giù dalla sua cima due dei suoi oppositori.
La storia mostra insomma che la violenza poteva in realtà caratterizzare la presa, il mantenimento e la perdita del potere da parte del principe del Rinascimento. Si poteva ricorrere alla violenza per sbarazzarsi dei propri rivali. Nel 1392 Jacopo d’Appiano spossessò e uccise Pietro Gambacorta, il suo vecchio benefattore, per conquistare la signoria di Pisa. Cesare Borgia si liberò analogamente di molti governanti che minacciavano la dinastia Borgia nello Stato pontificio; nel 1502 Giulio Cesare Varano, signore di Camerino nella marca di Ancona e due dei suoi figli vennero uccisi in prigione.
La violenza poteva anche essere rivolta contro quei sudditi che minacciavano l’autorità del signore. Quando il castellano di Nocera uccise due importanti membri della famiglia Trinci a Foligno nel 1421, il fratello sopravvissuto, Corrado, assalì il castello e uccise non soltanto il colpevole ma anche tutta la sua famiglia e i suoi sostenitori. Ferrante di Napoli trasse in inganno, imprigionò e giustiziò molti dei principali baroni che minacciavano il suo trono nel 1486. Inoltre, e questa è forse la cosa più scioccante di tutte, sia per i contemporanei che per l’opinione dei posteri, la violenza poteva essere utilizzata anche all’interno di una dinastia affermata per prendere il potere ed eliminare rivali e pretendenti.

Ambrogio de Predis, Ritratto di Giangaleazzo Visconti. XV secolo.

Ambrogio de Predis, Ritratto di Giangaleazzo Visconti. XV secolo.

Nel 1381 Antonio della Scala, signore di Verona, fece uccidere il fratello maggiore subito dopo aver conseguito la maggiore età, una decisione drastica che forse fu suggerita ad Antonio dai timori che nutriva circa il proprio destino. Nel 1385 Giangaleazzo Visconti trasse in inganno e imprigionò lo zio Bernabò per entrare in possesso dell’intera eredità dei Visconti.
Infine, se la violenza poteva accompagnare l’acquisizione e il mantenimento del potere, essa ne poteva anche caratterizzare la perdita. Nel maggio del 1435, Tommaso Chiavelli, signore di Fabriano nella marca di Ancona, mentre assisteva alla messa cadde vittima, con molti della sua famiglia, di una cospirazione cittadina. L’influenza di Corrado Trinci ebbe fine allorché Foligno venne assediata da un esercito pontificio comandato dall’abile e determinato cardinal Giovanni Vitelleschi e una ribellione interna consegnò la dinastia regnante nelle sue mani (1439). Il 26 dicembre del 1476, nella chiesa di Santo Stefano a Milano, Galeazzo Maria Sforza cadde sotto le pugnalate di un gruppo di assassini che si appellarono al tirannicidio per giustificare l’uccisione del duca di Milano.

Piero del Pollaiolo, Ritratto di Galeazzo Maria Sforza. Tempera su pannello, 1471 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Piero del Pollaiolo, Ritratto di Galeazzo Maria Sforza. Tempera su pannello, 1471 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.

La forte e persistente impressione di violenza che tali incidenti possono creare si trova rafforzata dal fatto che molti dei signori o aspiranti signori dell’Italia del Rinascimento, avevano una natura guerriera: parecchi di loro erano soldati di professione, condottieri. Alcuni provenivano da ben affermate dinastie regnanti come gli Este di Ferrara, i Gonzaga di Mantova, i Montefeltro di Urbino. Altri emersero invece in quel periodo considerando quella di uno Stato una ricompensa per i loro servigi attraente, meritata e prestigiosa. Non tutti ebbero successo. Giovanni Vitelleschi costituì una formidabile armata al servizio nominale del papa, e collezionò una quantità impressionante di castelli, signorie e possedimenti nelle province papali del Patrimonio di San Pietro. Egli acquistò anche delle alte cariche ecclesiastiche – l’arcivescovado di Firenze, il patriarcato di Alessandria (1435) e un cardinalato (1437) e si diceva che avesse posto gli occhi sulla stessa tiara pontificia. Forse per questo motivo venne rinchiuso a Castel Sant’Angelo e morì in prigionia nel 1440. Un successo forse anche molto maggiore ebbe Francesco Sforza che proveniva da una famiglia di soldati di ventura; anch’egli cercò di guadagnarsi delle signorie nello Stato pontificio negli anni trenta del XV secolo, prima di acquisire il Ducato di Milano nel 1450, in parte per diritto d’eredità, con il suo matrimonio con Bianca Maria Visconti, ma soprattutto in virtù della sua forza militare e della sua abilità politica.
C’è ovviamente la tentazione di trattare questa violenza così spesso associata al potere nell’Italia del Rinascimento in termini melodrammatici. Questo era l’atteggiamento dei contemporanei, mentre le improvvise svolte della sorte costituivano uno dei luoghi comuni favoriti dei cronisti e dei moralisti. L’imprigionamento di Bernabò Visconti ispirò la composizione di lamenti sul tema della crudeltà della fortuna. Quando una sconfitta militare e un’insurrezione popolare privarono nel 1388 Francesco «il vecchio» da Carrara delle signorie di Padova e Treviso, i cronisti locali narrarono che egli si strappò di dosso tutte le vesti e si flagellò così da compiere una profezia secondo la quale egli avrebbe lasciato Padova completamente nudo.

Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo. Olio su tavola, 1414-1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo. Olio su tavola, 1414-1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

Incidenti di questa natura hanno esercitato un certo fascino anche su artisti, compositori, romanzieri e «volgarizzatori» in tempi più recenti. Una delle fonti di ispirazione più ricche o più note è rappresentata a questo riguarda dai Borgia. Il librettista Felice Romani, ad esempio, adattò la Lucrèce Borgia di Victor Hugo per l’omonima opera di Donizetti. Ma anche degli incidenti relativamente ignoti e d’importanza locale riuscirono ad eccitare l’immaginazione romantica. Il massacro dei suoi nemici perpetrato a Nocera da Corrado Trinci ispirò un romanzo e un’opera teatrale. Il Romani scrisse il libretto dell’opera Beatrice Tenda per il compositore Bellini: Beatrice, molto probabilmente, era figlia di un condottiero, Ruggero Cane, ed andò in sposa a un altro condottiero, Facino Cane. Alla morte di questi diventò la moglie di Filippo Maria Visconti nel 1414; più anziana del marito, la dote che aveva ereditato da Facino Cane la rese politicamente attraente per il duca, che intendeva ricostruire lo Stato dei Visconti, smantellato in gran parte dopo l’improvvisa morte di Giangaleazzo nel 1402. Però Beatrice non esercitò a lungo il suo fascino sul marino. Accusata di adulterio venne torturata e giustiziata nel castello di Binasco in una notte del 1418.

Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza. Tempera su pannello, 1460 ca. Milano, Pinacoteca di Brera.

Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza. Tempera su pannello, 1460 ca. Milano, Pinacoteca di Brera.

Naturalmente l’immaginazione romantica trovò molta materia d’ispirazione anche al di fuori del contesto italiano: tra i libretti del Romani per la musica di Donizetti ce n’è uno su Anna Bolena, un’altra eroina tragica, mentre anche la carriera di un’altra vittima delle insicurezze dinastiche dei Tudor, la regina Maria di Scozia, ha offerto un durevole soggetto d’ispirazione per scrittori, artisti e musicisti. Ma per quanto affascinante per una storia dei gusti e delle idee sul passato, la lettura o il «ricamo» romantico della storia, possono favorire una visione distorta del principe del Rinascimento, che è concepito come una sorta di amorale orco «machiavellico».
È anche opportuno ricordare come i principi del Rinascimento avessero tra i contemporanei nemici molto interessanti a esagerare per calcolo i loro misfatti e a macchiarne la reputazione. Perciò per la Firenze repubblicana, Giangaleazzo Visconti non era un autentico «conte di Virtù» (titolo che egli aveva acquistato col suo matrimonio del 1360 con Isabella di Valois, contessa di Vertus) ma solo un tiranno ingiusto e crudele, una sentina di vizi e di raggiri. Per gli apologisti dei Visconti, come l’umanista Andrea Biglia, i «reguli» come Cabrino Fondulo erano dei disseminatori di discordia; accuse simili vennero utilizzate a favore del Papato restaurato dei secoli XV e XVI contro i sudditi turbolenti quali i Trinci o i Bentivoglio. Le origini spagnole e l’aggressivo nepotismo assicurarono ai Borgia una cattiva fama tanto i Italia che nell’Europa cattolica e protestante.
D’altro canto, nel periodo in questione, né la moralità tradizionale, né il pensiero politico perdonavano o ancor meno incoraggiavano i governanti violenti. Certo, i rivali andavano puniti e i nemici esterni sconfitti; per tali motivi il senato romano proclamò nel 1436 Giovanni Vitelleschi terzo fondatore di Roma, dopo Romolo, e decise di erigere una statua equestre in suo onore dopo che egli aveva sbaragliato la famiglia Colonna. I successi militari di Francesco Sforza vennero celebrati dagli apologisti e dai sostenitori della dinastia, anche se in questo caso non venne eretta alcuna statua equestre per celebrare la memoria del duca. Ma il signore che governava ricorrendo soltanto alla forza, e la cui residenza era una cittadella fortifica e non un palazzo, veniva considerato un tiranno, non un vero e proprio principe. Quest’assioma del comune buonsenso, che attraverso tutto il pensiero politico medievale può essere fatto risalire sino all’antichità, si può trovare nelle preoccupazioni di Alfonso V quando intraprese la costruzione della fortezza di Castel Nuovo a Napoli (verso il 1440), di Nicola V, che rafforzò Castel Sant’Angelo (verso il 1450) e di Francesco Sforza quando fece restaurare ed ampliare il castello dei Visconti a Porta Giovia a Milano (verso il 1450).
Lo stesso tema traspare, però da un diverso punto di vista, anche dal pensiero politico o dalle opere di propaganda prodotte per alcuni signori, come Giangaleazzo Visconti, e per esempio in un libello anonimo, quasi certamente scritto da un cortigiano dei Visconti verso il 1396, dove si fa drammaticamente riferimento a Genova che si era sottomessa al dominio del duca. L’autore racconta di aver visto in sogno Giangaleazzo assiso sul trono del suo «inespugnabile castello» di Pavia. Ma la grandezza del duca, per quanto «imperiale», «maestosa» e «sublime» è espressa più in termini di magnificenza, saggezza, giustizia e prestanza fisica che non in termini di forza militare. Alla sua presenza Genova appare sotto le sembianze di una donna supplice che elenca i mali che si erano abbattuti su quella città una volta grande, tra i quali il più grave è quello della «fazione diabolica e infernale»; Giangaleazzo rappresenta l’unica speranza per liberare la città da questi disastri; analoghi inviti in termini simili a beneficio di Genova furono rivolti ai successivi signori Visconti e Sforza.

Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Tempera su pannello, 1465-66. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Piero della Francesca, Ritratto di Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Tempera su pannello, 1465-66. Firenze, Galleria degli Uffizi.

L’immagine offerta dal trattato del 1396 del giusto signore che magnanimamente governa una splendida corte, ci permette di introdurre un’ulteriore considerazione: se la reputazione del principe del Rinascimento ha i suoi lati oscuri e violenti, da un altro lato egli e la sua corte si presentano come una sintesi del buon gusto e della civiltà del Rinascimento; persino Cabrino Fondulo riuscì ad ottenere un privilegio imperiale per l’università di Cremona! La storiografia ha considerato Federigo da Montefeltro, conte e poi (1474) duca di Urbino, la personificazione della cultura e della sensibilità del Rinascimento. Per quanto fosse pervenuto al potere in virtù dell’omicidio di Oddantonio, suo fratello maggiore e legittimo erede (1444), per quanto lui stesso fosse un mercenario e avesse avuto delle responsabilità nell’orribile sacco di Volterra (1472), Federigo viene generalmente considerato come un mecenate delle arti e un benefattore dei suoi sudditi. Il carattere di grande civiltà della corte dei Montefeltro a Urbino è stato immortalato da Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano (1528), mentre la partecipe lettura della ricca e ben conservata corrispondenza che intercorreva tra la corte di Urbino e quelle di Mantova, Ferrara e altre città, ha ispirato e fornito il materiale per una serie di studi a carattere biografico da parte di autori come Dennison e Cartwright, per non citare che due esempi di studiosi inglesi che hanno fatto scuola.
Questa corrispondenza rivela anche una certa forma di devozione convenzionale che può essere confermata da altre testimonianze. Niccolò d’Este (1393-1441) si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme e a Vienna (per visitare il reliquiario di sant’Antonio Abate); suo figlio Ercole patrocinò lo sviluppo della musica sacra. Inoltre, benché le dinastie dominanti dell’Italia del Rinascimento non produssero santi, esse diedero i natali a uomini e donne di grande pietà, alcuni dei quali – ad esempio Paolo Trinci (morto nel 1391) o Battista da Varano (morto nel 1524) – vennero più tardi beatificati. Galeotto Roberto Malatesta da Rimini aveva una tale reputazione di rigorosa osservanza religiosa che alla sua morte, nel 1431, per breve tempo sorse anche un culto locale incentrato sulla sua figura. Questo sfoggio di pietà, certamente, poteva anch’essere a volte un’espressione di rimorso o di senso di colpa. Nel 1446 Filippo Maria Visconti era, a quanto sembra, così turbato per il carico fiscale che aveva imposto ai suoi sudditi da rivolgersi ad un consesso di teologi per averne il parere. Bona di Savoia, la vedova di Galeazzo Maria Sforza, confessò al papa i peccati di suo marito. L’esperienza di una disfatta militare e politica condusse Alfonso II di Napoli a ritirarsi in un monastero siciliano nel 1494.

Miniatura dagli 'Statuts, Ordonnances et Armorial de l'Ordre de la Toison d'Or', raffigurante Ferdinando I d'Aragona (1473). Olanda Meridionale.

Miniatura dagli ‘Statuts, Ordonnances et Armorial de l’Ordre de la Toison d’Or’, raffigurante Ferdinando I d’Aragona (1473). Olanda Meridionale.

Ma tali atti di contrizione, e l’appoggio dato dalla Chiesa a quei signori di cui poteva al tempo stesso sfruttare le cariche e le ricchezze, sono fenomeni che si possono trovare in tutto il Medioevo, il che fa sorgere alcuni dubbi sulla specificità tipicamente «rinascimentale» del comportamento politico dei principi che abbiamo analizzato sinora. Nella sua campagna di propaganda contro Sigismondo Malatesta, Pio II accusò il signore di Rimini di paganesimo e idolatria, ed escogitò per lui una sorta di canonizzazione al contrario, per assicurare a questo suo nemico un posto sicuro all’inferno (1461). Ma al di là di questa invettiva non c’è molto per argomentare che la moralità del principe del Rinascimento, i suoi atteggiamenti nei confronti della religione o dell’uso della violenza come strumento per conquistare e mantenere il potere fossero significativamente differenti da quelli dei suoi predecessori medievali nel resto d’Europa. Dopo tutto il culto di san Tommaso di Canterbury, martirizzato dai sicari di Enrico II d’Inghilterra nel 1170, era molto diffuso anche in Italia, e la faide tra le case dei Plantageneti e dei Montfort, che condusse all’uccisione di Enrico in Germania per mano di suoi cugino Guy de Montfort nella chiesa di san Silvestro a Viterbo (1271), venne tramandata per l’edificazione delle generazioni successive da Dante nella Divina Commedia (Inferno, XII, 119-120). Nessun principe del Rinascimento commise del resto un sacrilegio così efferato come quello perpetrato dagli agenti di Filippo IV contro Bonifacio VIII ad Anagni nel 1303 (Purgatorio, XX, 86-87; Paradiso, XXX, 148).

La ricerca della legittimità

Che la stretta interrelazione tra la violenza e la tirannia costituisse un vero e proprio luogo comune lo si può vedere non soltanto dai trattati politici del periodo ma anche dalle formule di governo. Per esempio, quando il papa concedeva feudi o vicariati ai suoi principali sudditi, questa ricompensa includeva normalmente delle clausole intese ad assicurare che il signore governasse bene, proteggesse i suoi sudditi e ne rispettasse la libertà e le proprietà; esortazioni analoghe venivano rivolte dagli stessi «signori» ai magistrati da loro nominati o approvati.
Testimonianze di tal genere ci dissuadono dal prendere troppo alla lettera o dal considerare come tipica la storia dei pensieri e dei rammarichi «rivoluzionari» di Cabrino Fondulo. In effetti il signore di Cremona aveva tratto beneficio proprio da quell’ordine gerarchico che si dice volesse distruggere. Nel 1413 l’imperatore Sigismondo lo nominò vicari imperiale di Cremona e confermò il titolo che i Visconti gli avevano conferito: la contea di Soncino e il marchesato di Catellone. Nel marzo del 1412, Giovanni XXIII nominò Costantino Fondulo vescovo di Cremona. Questi privilegi, il fatto che Sigismondo e la sua corte soggiornassero a Cremona per più di un mese, l’opinione di alcune fonti secondo le quali tanto il papa che l’imperatore fossero stati ospitati generosamente, fanno supporre che Cabrino vedesse nell’occasione dell’incontro un’opportunità da sfruttare che non andava assolutamente sprecata.
Sotto questo aspetto il caso del signore di Cremona non ha nulla di eccezionale. È vero che alcune dinastie raggiunsero un’influenza che non ebbe mai la sanzione di alcun titolo esplicito. Nel pensiero politico contemporaneo, famiglie come quelle dei Bentivoglio di Bologna o dei Baglioni di Perugia – o anche dei Medici a Firenze prima che conseguissero il titolo feudale (1532) – appartenevano alla categoria della «tirannide velata», e la ricerca è attualmente orientata a concludere che, in termini politici ed economici, queste famiglie condividessero con altre il potere e che sia meglio parlare, a loro proposito, più di «primi inter pares» che non di principi.
Ma tra questi signori la cui ascendenza era meno ambigua, è molto difficile trovare degli esempi ben chiari di principi del Rinascimento che abbiano reagito contro la gerarchia medievale tradizionale. Filippo Maria Visconti disorientò i suoi contemporanei assentandosi ostentatamente in occasione dell’incoronazione di Sigismondo con la corona di ferro dei Longobardi a Milano nel 1431, un’occasione spettacolare che eventualmente poteva accrescere il suo prestigio; ma è più probabile che quello di Filippo Maria sia stato più un gesto dettato dal timore che non una sfida; infatti, in molte altre occasioni egli si mostrò ansioso di ottenere l’appoggio di Sigismondo e il riconoscimento da parte di lui del ducato visconteo. Che Francesco Sforza si facesse acclamare duca dal popolo di Milano nel 1450 – con una procedura che egli stesso e i suoi figli sapevano bene non essere ortodossa, dato che continuarono a sollecitare l’investitura imperiale sino al 1493, quando finalmente Ludovico il Moro ottenne il titolo da Massimiliano per 400000 ducati – mostra rispetto, non disprezzo per quella tradizione. Nel 1461 Francesco rifiutò un titolo nobiliare francese che gli era stato offerto se avesse riconosciuto la supremazia francese al posto di quella imperiale.

Lorenzo Costa, Ritratto di Giovanni II Bentivoglio (1490-92). Firenze, Galleria degli Uffizi.

Lorenzo Costa, Ritratto di Giovanni II Bentivoglio (1490-92). Firenze, Galleria degli Uffizi.

Ma forse in quel periodo la più nota espressione del rifiuto del concetto medievale di autorità è costituita dalla critica demolitrice che Lorenzo Valla fece nel 1440 della Donazione di Costantino, un documento di cui il papato si serviva per giustificare il suo dominio secolare sugli Stati della Chiesa e la sua signoria feudale sul Regno di Napoli e sulla Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Valla non scrisse per il solo amore della ricerca storica e filologica, come invece tendono a ripetere gli storici dell’Umanesimo, ma anche per compiacere il suo mecenate, Alfonso V di Aragona, i cui titoli sul Regno di Napoli e sulle isole risultavano compromessi dalla pretese di supremazia avanzate dal papa; e quando infine il Papato e il re vennero a patti nel 1443, gli insegnamenti di Valla vennero dimenticati dai politici.
In realtà l’ordine tradizionale era oggetto di un consenso così diffuso nell’Italia del Rinascimento che è più opportuno considerare il problema in una luce positiva. Per tuto il periodo, le case reali e principesche d’Europa e le nuove famiglie collegate alle loro corti furono oggetto di effimera curiosità e interesse; un interesse che recenti ricerche hanno dimostrato vivo sia nelle repubbliche sia in altri tipi di regime, e che probabilmente si intensificò man mano che le vicende italiane si intrecciarono più strettamente con quelle del resto d’Europa. Talvolta questo interesse rispecchiava delle preoccupazioni di carattere militare e politico, come, ad esempio, durante le varie fasi della contesa per il trono di Napoli tra le casate degli Angiò-Durazzo, Angiò-Provenza e Aragona-Trastamara. In altre occasioni esso si rivolgeva ad eventi più lontani, quali le stupefacenti vittorie di Enrico V di Inghilterra e l’umiliazione del regno francese, seguito dalla prematura scomparsa del re, dalla successione di Enrico IV, ancora bambino, e dalle gesta di Giovanna d’Arco. Anche le visite dei re nella penisola potevano stimolare l’interesse, come dimostra il viaggio del re di Danimarca nel 1474.
Strettamente collegato a tutto questo era l’orgoglio mostrato dai signori italiani nel ricevere onori e privilegi da mani principesche e regali. I registri imperiali che documentano le spedizioni in Italia del re dei Romani Sigismondo sono fitti di menzioni e favori accordati o venduti dall’Imperatore: investiture cavalleresche, nomine a cariche di corte, titoli feudali, il diritto di fregiarsi del blasone imperiale. Un importante beneficiario fu Amedeo VIII di Savoia, che nel 1416 venne promosso da conte a duca. Un altro fu Gianfrancesco Gonzaga che venne nominato marchese di Mantova nel 1433. Tempo prima gli era stato concesso il diritto di indossare la livrea reale inglese, un privilegio confermatogli da Enrico VI nel 1436. Il ritratto di Federigo da Montefeltro, realizzato da Joos van Wassenhove (noto in Italia come Giusto di Gand) o da Pedro Berruguete, mostra il duca con le insegne dell’Ermellino (concessogli da Ferrante di Napoli) e dell’ordine della Giarrettiera (che aveva ottenuto da Enrico IV d’Inghilterra). Con un goffo tentativo di rivaleggiare con Federigo, i da Varano, signori di Camerino, pretendevano che un loro antenato avesse ricevuto l’ordine della Giarrettiera già nel 1285, molto prima cioè che quello stesso ordine cavalleresco venisse istituito! Infine i signori italiani facevano orgogliosamente sfoggio di emblemi imperiali, regali o principeschi aggiungendoli ai loro stemmi; i Bentivoglio di Bologna erano particolarmente orgogliosi di portare l’Aquila imperiale sul loro scudo, un privilegio che gli era stato concesso nel 1460.

Pisanello, Il ciclo arturiano. Dettaglio con scena di combattimento fra cavalieri. Affresco, 1440 ca. Mantova, Palazzo Ducale.

Pisanello, Il ciclo arturiano. Dettaglio con scena di combattimento fra cavalieri. Affresco, 1440 ca. Mantova, Palazzo Ducale.

Queste testimonianze dimostrano che tali gusti strettamente legati alla cultura delle corti europee, ma che un tempo erano giudicati «medievali» o «forestieri» nel quadro della mentalità del Rinascimento italiano, di fatto fossero fortemente presenti anche in esso: trasparivano ad esempio dai libri d’ore illustrati e dai romanzi cavallereschi nelle biblioteche dei Visconti e degli Este; dagli affreschi del ciclo dei mesi commissionati dal principe-vescovo di Trento (1400 circa); dal ciclo di re Artù di Pisanello per il Palazzo Gonzaga a Mantova (1440 circa) o dai temi storici, mitologici, cavallereschi presenti nelle decorazioni dei palazzi dei Trinci a Foligno o dei da Varano a Camerino. Né sorprende che i governanti italiani cercassero di stabilire dei più stretti legami con le dinastie reali e principesche dell’Italia e d’Europa. I d’Este strinsero un gran numero di alleanze matrimoniali con una dinastia che aveva molto accresciuto il ruolo e l’influenza della monarchia del Sud nelle vicende italiane.
Naturalmente i loro nemici si prendevano gioco di quelle dinastie di sangue reale e le criticavano quando si associavano a dei signori venuti su dal nulla. Il cronista fiorentino Matteo Villani mostrò di non apprezzare il matrimonio di Isabella di Valois, contessa di Virtù, e figlia di Giovanni II di Francia con Giangaleazzo Visconti: «Che cosa vi può essere di più straordinario del vedere un principe di antico e illustre lignaggio inginocchiarsi al servizio dei tiranni?». Il fatto che Venceslao avesse venduto a Giangaleazzo il titolo ducale nel 1395 contribuì alla sua deposizione dal trono imperiale nel 1400. L’acquisto del ducato di Valentinois nel 1498 da parte di Cesare Borgia e il successivo matrimonio con la figlia del re di Navarra (1499) suscitarono il sarcasmo della corte di Francia. Ma le critiche e le beffe non fanno che sottolineare il valore che tali matrimoni avevano per le famiglie che esercitavano il potere nell’Italia del Rinascimento.
L’albero genealogico dei Visconti, ad esempio, rivela un certo numero di legami, autentici o presunti, con le case reali o principesche di Cipro e di Sicilia, dell’impero di Francia e d’Inghilterra. La tradizione vorrebbe che Beatrice «Tenda» sia stata la figlia di Pietro Balbo II, conte di Tenda, in Piemonte e quindi discendente dalla linea imperiale bizantina dei Lascaris; ma se fosse stato davvero così è evidente che Filippo Maria Visconti non sarebbe riuscito a sbarazzarsi di lei con così grande facilità.
In termini costituzionali, l’adesione all’ordinamento gerarchico può essere riscontrata nel fatto che sempre più i principi del Rinascimento marginalizzarono, se si fa eccezione di una forma di rispetto tutta di facciata, il concetto della sovranità popolare: certo, le manifestazioni di entusiasmo popolare e le acclamazioni costituivano ancora dei grandi ingredienti della presa del potere e dell’incoronazione, ma l’idea dell’elezione era ormai virtualmente scomparsa. Questo fenomeno si può riscontrare sia nei principati ecclesiastici o secolari del Nord (il Principato vescovile di Trento o la casa Savoia, ad esempio) che nelle monarchie del Sud e delle isole e nel Papato.
La situazione politica e giuridica non era la stessa in quelle zone della penisola dove le basi giuridiche dell’autorità apparivano più ambigue, vale a dire nelle signorie sorte sui territori dello Stato della Chiesa e nel Regno d’Italia. Qui si considerava ancora piuttosto importante mantenere qualcosa di più di una semplice parvenza di consenso da parte dei comuni interessati. Il punto può essere ben chiarito dal caso della successione Sforza al Ducato di Milano: nonostante il suo potere militare, Francesco riteneva importante salvaguardare il concetto che le comunità che gli si sottomettevano lo facessero liberamente e organizzò la sua acclamazione come duca di Milano per compensare la debolezza delle sue pretese ereditarie. Ciò avvenne anche nella signoria di Piombino degli Appiano: quando venne meno la linea diretta di successione maschile nel 1451, si attribuì al comune la funzione di assegnare la successione a Emanuele. Persino Cesare Borgia, dopo aver conquistato la Romagna nel 1499 non si sentì dispensato dal richiedere il consenso dei comuni della provincia.
Ma nella maggior parte di questi casi è raro che l’autentica iniziativa provenisse dalla popolazione soggetta. Il titolo a vita di «Confaloniere di giustizia» conferito a Giovanni II Bentivoglio fu meno il prodotto di una decisione da parte del comune di Bologna e più il risultato delle pressioni e della protezione di potenze straniere a lui alleate. Generalmente il consenso dei comuni e i titoli da essi conferiti avevano il loro peso dal punto di vista della propaganda, o anche perché rappresentavano dimostrazioni di «libera scelta» che avrebbero legato più completamente i sudditi al nuovo regime. È però chiaro che persino ove persistevano delle forme di partecipazione popolare, i principi dell’Italia del Rinascimento preferivano fondare i loro titoli a governare su altre basi.
Il titolo più ovvio e tradizionale negli Stati secolari italiani era quello del diritto ereditario, e il forte e costante richiamo ad esso può essere constatato dal modo in cui le dinastie dominanti magnificavano o creavano di sana pianta la storia delle loro antiche origini e le gesta dei loro antenati. La continuità veniva sovente sottolineata dall’adozione di un numero relativamente ristretto di nomi di battesimo – Jacopo tra gli Appiano, Ugolino e Corrado tra i Trinci, ad esempio. La propaganda dinastica costituiva un aspetto molto importante della cultura di corte in Italia, così come lo era per tutta l’Europa del Medioevo e del Rinascimento; nel tardo XIV secolo Giulio Cesare da Varano fece inserire i ritratti di famiglia nello schema delle decorazioni del suo palazzo di Camerino. La credenza nel principio ereditario poteva trovare un’espressione più concreta quando i signori si associavano al governo i loro successori e cercavano di regolare la loro successione per testamento. Leonello d’Este assunse un ruolo sempre più importante nel governo già a partire da dieci anni prima della morte di Niccolò III (1441); Rodolfo III da Varano fece diversi tentativi per organizzare la successione tra i suoi figli prima di morire nel 1424.
I principi dell’Italia del Rinascimento tentarono anche di acquistare dei titoli ereditari di governo dai loro superiori. Sia nello Stato della Chiesa che nel territorio imperiale, i signori cercavano di accumulare cariche vicariali per provvedere un’eredità alla loro successione. Essi erano altresì disposti ad intraprendere svariati sforzi, a livello politico, diplomatico e finanziario, per entrare in possesso di titoli feudali che avessero carattere ereditario. Per quanto parte del territorio imperiale, il Regno d’Italia offre l’esempio più famoso di questo fenomeno; quello di Giangaleazzo che conseguì il titolo di duca nel 1395, seguito a ruota da altre dinastie: i Gonzaga furono creati marchesi nel 1433 e gli Este vennero nominati duchi di Modena nel 1452. Delle ambizioni simili si possono riscontrare anche tra i vicari dello Stato della Chiesa; gli Este ottennero il titolo ducale per Ferrara nel 1471, i Montefeltro per Urbino nel 1474 e i da Varano per Camerino nel 1515.
Naturalmente distorcere il significato di questa ricerca di titoli di legittimità giuridica costituirebbe un errore. Francesco Sforza rifiutò il titolo di marchese che Eugenio IV gli aveva offerto nel 1484 per conferire ulteriore dignità alle sue conquiste nella Marca di Ancona, ma il titolo avrebbe avuto poca utilità per rafforzare la sua posizione in termini militari e politici. […] Il potere del principe del Rinascimento non dipendeva dalla sua legittimità come governante, e il conseguimento di una successione ereditaria e il premio di un titolo non gli garantivano la sicurezza politica dai nemici interni o esterni.
In verità tali «riconoscimenti» potevano dimostrarsi una fonte di debolezza. Le pretese francesi sulla successione viscontea minacciarono gli Sforza anche prima delle guerre d’Italia e si può dire lo stesso per quel che riguarda il Regno di Napoli, dove le pretese della casa d’Angiò e la riconosciuta supremazia papale incoraggiarono i baroni del regno a resistere alla corona d’Aragona. Il nepotismo aggressivo praticato da molti pontefici del Rinascimento lasciò i loro congiunti esposti ai nemici alla morte del patrono papale; Francesco Maria della Rovere, nipote di Giulio II e duca d’Urbino, fu privato del suo principato nel 1516 da Leone X de’ Medici, che lo assegnò a suo nipote Lorenzo, anche se Francesco Maria ne tornò in possesso nel 1521 alla morte di quel papa.

Tiziano, Ritratto di Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino. Olio su tela, 1536-38. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Tiziano, Ritratto di Francesco Maria I della Rovere, duca di Urbino. Olio su tela, 1536-38. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Infine il riconoscimento della sovranità pontificia imperiale, implicito nella ricerca e nell’accettazione di titoli, poteva esporre i loro detentori all’iniziativa dell’autorità superiore, come quando Alessandro VI attaccò i signori dello Stato della Chiesa accusandoli di tradimento per non aver versato i pagamenti del censimento. Nonostante tutti i loro sforzi diplomatici e lo splendore della loro corte, gli Sforza, proprio come i duchi di Borgogna, non riuscirono mai ad acquisire il prestigio e la sicurezza che sono propri di un titolo sovrano o regale.
Esempi di questo genere servono comunque solo a mostrare che questo tipo di titoli non erano poi vuoti di significato e che il vero potere sovrano sfuggiva alla maggior parte dei principi italiani. Questa conclusione è stata riconosciuta da molto tempo per quel che riguarda lo Stato della Chiesa nel tardo XV secolo, un periodo in cui, secondo gli storici, i vari pontefici hanno deliberatamente esteso e consolidato la loro autorità tanto nelle varie provincie che nella stessa Roma; ma anche nel periodo precedente, segnato dal grande scisma e dal conciliarismo, l’appoggio e la sanzione papale erano altamente apprezzate, anche se magari il più delle volte l’iniziativa restava nelle mani dei signori di provincia.
Diverso è l’atteggiamento degli storici per quel che riguarda l’autorità imperiale del Nord che essi hanno considerato una sorta di anacronismo che, se da un lato indeboliva e dissolveva il potere imperiale a nord delle Alpi, d’altro lato dava prova di essere poco più di un motivo di disturbo nella penisola. Ma tale posizione trascura gli sforzi fatti per ottenere onori e titoli imperiali e l’ansia con cui famiglie quali i Gonzaga e gli Este prestavano attenzione alla vicende dell’Impero. Inoltre tale posizione trascura il fatto che in una situazione estremamente fluida e confusa dal punto di vista politico, gli imperatori potevano ancora esercitare un’influenza politica e militare. L’appoggio dato da Sigismondo a coloro che pretendevano l’eredità dei Della Scala a Verona e Ludovico di Teck nelle sue mire su Aquileia costituirono una minaccia per la Repubblica di Venezia che tendeva ad espandersi sul territorio italiano, e la sfida imperiale a Venezia divenne ancora più grande allorché l’Impero passò nelle mani degli Asburgo.

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Beato Galeotto Roberto Malatesta Confessore

Al nome dei Malatesta, il pensiero corre subito alla Romagna e a Rimini, la città che dal XII secolo fu la signoria di questa celebre e potente famiglia, insieme con gran parte della Marca d’Ancona.
Ma il nome dei Malatesta, Signori di Rimini, non evoca di solito ricordi di santità o di perfezione spirituale. Evoca piuttosto echi di successi guerreschi e mondani, spesso privi di scrupoli, conditi di superbia e di crudeltà, di ambizione e di sopraffazione.
Anche il più celebre membro della famiglia, Sigismondo Pandolfo, uno dei più valenti condottieri del ‘400, ebbe una vita estremamente turbinosa e non certo esemplare dal punto di vista morale e spirituale.
Se ne riscattò soltanto in parte con il suo tenace amore per Isotta degli Atti e per il suo mecenatismo verso uomini d’afte e di cultura, di cui è testimonianza, a Rimini, lo splendido Tempio Malatestiano, costruito da Leon Battista Alberti architetto, e decorato da Agostino di Duccio scultore e da Piero della Francesca pittore.
Può sorprendere, dunque, trovare il cognome dei Malatesta portato da un Santo, o meglio da un Beato, il Beato Roberto. Non si tratta di un caso di omonimia, ma proprio del figlio del Signore di Rimini, nato a Brescia nel 1411 e vissuto – brevissimamente – nella città adriatica che avrebbe visto poco dopo i fasti e i nefasti di Sigismondo Pandolfo.
Nella storia politica della famiglia Malatesta, la vita di Roberto trascorse quasi senza peso. Era un giovane delicato, di salute e di anima, al quale, sedicenne, venne data in sposa, contro la sua volontà, ma per precisi criteri dinastici, la giovane Margherita d’Este, nata nella famiglia dei Signori di Ferrara.
1 due giovanissimi sposi vissero insieme castamente e santamente, quasi isolati, nella corazza della loro virtù, da quello che era, di regola, l’ambiente frivolo e superbo delle grandi famiglie signorili dei tem-po.
Roberto era terziario francescano, e del Terzo Ordine osservò la Regola con una fedeltà e una costanza degna di un vero asceta.
Si fece ammirare e amare per pietà e carità, soprattutto nei confronti degli infermi, e addirittura dei lebbrosi.
Morì, forse di contagio, quando aveva soltanto ventitré anni. A Rimini lasciò commosso rimpianto, ma sembrò che il ricordo di quel giovane fragile e schivo dovesse presto scomparire, nell’ombra gettata da altri personaggi ben più imponenti e di imprese ben più clamorose. Così invece non fu, se la memoria di Roberto Malatesta, venerato come Beato, è sopravvissuta tenace fino ai nostri giorni, proprio grazie ai delicati meriti del giovane signore di Rimini, il quale aggiunse al nome ammirato e temuto dei Malatesta il profumo della difficile santità.

 

Fonte:

Archivio Parrocchia

 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90473

 
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