Dialogo tra Primo Levi e il fisico torinese Tullio Regge – L’altrui mestiere ; cromo

 

Dialogo

Dialogo (con Tullio Regge), Edizioni di Comunità, Paperback, 1984

Il Dialogo tra Primo Levi e il fisico torinese Tullio Regge uscì per la prima volta nel dicembre 1984 presso le Edizioni di Comunità, casa editrice fondata negli anni Quaranta dall’industriale Adriano Olivetti.«Pur abitando nella stessa città, Primo Levi e Tullio Regge non avevano mai avuto l’occasione di parlarsi. Per suggerimento di Regge, l’incontro avviene nel giugno 1984: davanti a un registratore, la conversazione fiorisce spontaneamente, e tocca con grande libertà gli argomenti più vari: gli anni della formazione e i rapporti con la scuola, le letture, le esperienze professionali, le responsabilità della scienza, il futuro dell’uomo, la nascita dell’universo, le più recenti ipotesi della fisica contemporanea (dalle particelle elementari alla cosmologia) e i vari momenti di quel “romanzo” scientifico che è stata l’enunciazione della teoria della relatività e il dibattito che essa ha provocato.
Se Levi parla dell’incidenza che hanno avuto le scienze sulla sua attività di scrittore, Regge ricorda le grandi personalità che ha conosciuto durante il suo lungo soggiorno a Princeton, come Gödel, Heisensberg, Oppenheimer, Dyson, mentre sullo sfondo resta sempre la figura di Einstein. Il dialogo procede pieno di sorprese, di ipotesi mirabolanti, di curiosità, di humor, e offre non pochi elementi ad un autoritratto involontario dei due autori.
“Un paio d’ore di lettura in tutto, questo volumetto, ma di quelle che vengono dal cielo – ha scritto Massimo Piattelli Palmarini quando il libro uscì –. Una di quelle letture che riconciliano con l’esistenza e che le danno, per un momento, un senso…”».
[Brano dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi 1994, collana «Gli struzzi»]

http://www.primolevi.it/Web/Italiano/Contenuti/Opera/110_Edizioni_italiane/Dialogo

L’altrui mestiere

L’altrui mestiere, Einaudi, Gli struzzi, 1985

«Questo volume raccoglie una cinquantina di saggi che Primo Levi ha pubblicato su quotidiani e periodici dal 1964 al 1984. Lo sfondo è quello dei libri più noti di Levi, la sua esperienza professionale di chimico, e l’altra del campo di concentramento nazista. Ma è uno sfondo lontano e sfumato, su cui si stagliano temi diversi. Prevalgono, per scelta precisa e dichiarata fin dal titolo, gli studi e le divagazioni del dilettante curioso e libertino, le “invasioni di campo”, i bracconaggi su riserve di caccia altrui: in specie, sullo sterminato territorio delle scienze naturali, della zoologia, dell’astronomia, scienze che Levi non ha mai studiato sistematicamente, e che appunto per questo esercitano su di lui il fascino degli amori non soddisfatti.
Ma in altri saggi si ritrovano prese di posizione su problemi attuali, divertite riletture di classici antichi e moderni, ricordi di giovinezza nostalgici o ironici, osservazioni sui legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura e sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria.
Si tratta insomma di una piccola summa delle esperienze e dei pensieri extravaganti di uno degli scrittori italiani meno conformisti, ed insieme, forse al di là delle intenzioni dell’autore, di una sommaria ma veridica autobiografia.
Si trova qui, per così dire allo stato puro, la scrittura che rende inconfondibile la pagina di Levi: nitida, scarna e precisa, di radici culturali vigorose, ma accessibile a qualsiasi lettore di volontà buona».
[Quarta di copertina della prima edizione Einaudi 1985, collana «Gli struzzi»]
«Tra gli oggetti dell’attenzione enciclopedica di Levi, i più rappresentati nel volume sono le parole e gli animali. (Qualche volta si direbbe che egli tenda a fondere le due passioni in una glottologia zoologica o in una etologia del linguaggio)».
[da Italo Calvino, I due mestieri, «la Repubblica», 6 marzo 1985]

http://www.primolevi.it/Web/Italiano/Contenuti/Opera/110_Edizioni_italiane/L%27altrui_mestiere

Partiamo invece ora dal mestiere del chimico. Che è il suo, lo è stato, e non è mai

stato rinnegato. Al contrario, lo ha sempre considerato una premessa indispensabile e

preziosa per la sua scrittura che ne è uscita potenziata.

Scrivere significa comunicare, e per comunicare pensieri, idee, nozioni, bisogna fare

chiarezza. E per fare chiarezza, insiste Levi, è necessario innanzitutto dare il senso giusto alla costruzione linguistica, che deve essere ordinata perché abbia un senso. Questa chiarezza è fondamentale.

E certo questa dote rappresenta una buona eredità del suo primo mestiere:

“[…] La scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti

da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, […]. Sta allo scrittore

farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio

pubblico, e il lettore volenteroso non deve andare deluso. […] Il mio lettore

‘perfetto’ non è un dotto, ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo

né per passatempo nè per fare bella figura in società, ma perché è curioso di

molte cose, vuole scegliere fra esse […]. Noi vivi non siamo soli, non dobbiamo

scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo:

dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola e far sì che ogni

parola vada a segno. Del resto parlare al prossimo in una lingua che egli non

può capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno

strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto a tutte le

chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi

coloniali (Dello scrivere oscuro) [5, pp. 50-54]”.

Alla “lingua dei chimici” Levi dedica spazio e particolare attenzione. Mette poi in evidenza

il fatto che il mestiere del chimico è molto recente rispetto alle altre attività umane e, nell’infinito panorama dei gerghi specialistici, ha dovuto adattarsi alla necessità di poter indicare e descrivere in modo preciso più di un milione di oggetti distinti, poiché tanti sono (e crescono ogni anno)

i composti chimici rinvenuti in natura o costruiti per sintesi. Ora, la chimica

non è nata intera come Minerva, bensì faticosamente, attraverso le prove e gli

errori pazienti ma ciechi di tre generazioni di chimici che parlavano lingue

diverse e che spesso comunicavano fra loro solo per lettera, perciò la chimica

del secolo scorso si è andata consolidando attraverso una terrbile confusione di

linguaggi i cui resti persistono nella chimica di oggi [5, p.121

SCIENZA E LETTERATURA Primo Levi ei mestieri degli altri Mimma Bresciani
150 anni di matematica e scienze nella La storia dei programmi di

www.consiglio.regione.toscana.it/pianeta-galileo/default.aspx?idc=65&nome=atti_2011-2012

Atti 2011-2012

Primo Levi e i mestieri degli altri – Consiglio Regionale della

Cromo

C’era del pesce come secondo piatto, ma il vino era rosso. Versino, capetto della manutenzione, disse che erano tutte storie, purché il vino e il pesce fossero buoni. (…) Il vecchio Cometto aggiunse che la vita è piena di usanze la cui radice non è più rintracciabile: il colore della carta da zucchero, l’abbottonatura diversa per uomini e donne, la forma della prua delle gondole, e le innumerevoli compatibilità e incompatibilità alimentari, di cui appunto quella in questione era un caso particolare: ma del resto, perché obbligatoriamente lo zampone con le lenticchie, e il cacio sui maccheroni?
Io feci un rapido ripasso mentale per accertarmi che nessuno dei presenti l’avesse ancora udita, poi mi accinsi a raccontare la storia della cipolla nell’olio di lino cotto. Quella, infatti, era una mensa di verniciai, ed è noto che l’olio cotto (ölidlinköit) ha costituito per molti secoli la materia prima fondamentale della nostra arte. (…) Raccontai ai commensali che in un ricettario stampato verso il 1942 avevo trovato il consiglio di introdurre nell’olio, verso la fine della cottura, due fette di cipolla, senza alcun commento sullo scopo di questo curioso additivo. Ne avevo parlato nel 1949 col signor Giacomasso Olindo, mio predecessore e maestro, che aveva allora superato la settantina e faceva vernici da 50 anni, e lui, sorridendo benevolmente sotto i folti baffi bianchi, mi aveva spiegato che in effetti, quando lui era giovane e cuoceva l’olio personalmente, i termometri non erano ancora entrati nell’uso: si giudicava della temperatura della cottura osservando i fumi, o sputandoci dentro, oppure, più razionalmente, immergendo nell’olio una fetta di cipolla infilata sulla punta di uno spiedo; quando la cipolla cominciava a rosolare, la cotttura era buona. Evidentemente, col passare degli anni, quella che era stata una grossolana operazione di misura aveva perso il suo significato, si era trasformata in una pratica misteriosa e magica.
A questo punto feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l’arte da cui sono state attinte: decaduta l’equitazione al rango di sport costoso, sono ormai inintelligibili, e suonano strambe, espressioni come “ventre a terra” e “mordere il freno”; scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, ha perso ogni riferimento la frase “macinare” o “mangiare a quattro palmenti”, che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta. Allo stesso modo, poiché anche la natura è conservatrice, portiamo nel coccige quanto resta di una coda scomparsa.
Bruni ci raccontò un fatto in cui era stato lui stesso implicato, ed a misura che raccontava, io mi sentivo invadere da sensazioni dolci e tenui che cercherò poi di chiarire: devo premettere che Bruni ha lavorato dal 1955 al 1965 in una grande fabbrica in riva a un lago, la stessa dove io ho imparato i rudimenti del mio mestiere verniciario negli anni 1946-47. Raccontò dunque che, quando laggiù era responsabile del reparto Vernici Sintetiche, gli era capitata per mano una formulazione di un’antiruggine ai cromati che conteneva un componente assurdo: nulla meno del cloruro d’ammonio, il vecchio e alchimistico Sale Ammoniaco del tempio di Ammone, assai propenso a corrodere il ferro piuttosto che a preservarlo dalla ruggine. In quella fabbrica in riva al lago, a meno di ulteriori sviluppi, il cloruro d’ammonio si mette tutt’ora; eppure esso è oggi totalmente inutile, come posso affermare con piena cognizione di causa, perché nella formulazione l’ho introdotto io.
L’episodio citato da Bruni, l’antiruggine ai cromati e il cloruro d’ammonio, mi scagliarono indietro nel tempo, fino al rigido gennaio del 1946 quando ancora la carne e il carbone erano razionati, nessuno aveva l’automobile, e mai in Italia si era respirata tanta speranza e tanta libertà.
Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro: mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, e una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al vecchio marinaio di Coleridge, che abbranca per strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro. Ma poiché di poesie e racconti non si vive, cercavo affannosamente lavoro, e lo trovai nella grande fabbrica in riva al lago.
(…)
Un giorno [il direttore della fabbrica] mi mandò a chiamare, e con una luce obliqua negli occhi mi annunciò che aveva un lavoretto per me. Mi condusse in un angolo del piazzale, vicino al muro di cinta: ammonticchiati alla rinfusa, i piú bassi schiacciati dai piú al¬ti, c’erano migliaia di blocchi squadrati, di un vivace color arancio. Me li fece toccare: erano gelatinosi e mollicci, ave¬vano una sgradevole consistenza di visceri macellati. Dissi al direttore che, a parte il colore, mi sembravano dei fegati, e lui mi lodò: proprio cosí stava scritto nei manuali di verni¬ciologia! Mi spiegò che il fenomeno che li aveva prodotti si chiamava in inglese proprio cosí, «livering», e cioè «infega¬tamento», ed in italiano impolmonimento; in certe condi¬zioni, certe vernici da liquide diventano solide, con la consi¬stenza appunto del fegato o del polmone, e sono da buttar via. Quei corpi parallelepipedi erano state latte di vernice: la vernice si era impolmonita, le latte erano state tagliate, ed il contenuto buttato nel mucchio delle immondizie.
Quella vernice, mi disse, era stata prodotta durante la guerra e subito dopo; conteneva un cromato basico ed una resina alchidica. Forse il cromato era troppo basico o la resi¬na troppo acida: sono appunto queste le condizioni in cui può avvenire un impolmonimento. Ecco, mi regalava quel muc¬chio di antichi peccati; ci pensassi su, facessi prove ed esa¬mi, e gli sapessi dire con precisione perché era successo il guaio, cosa fare perché non si ripetesse, e se era possibile ri¬cuperare il prodotto avariato.
Cosí impostato, mezzo chimico e mezzo poliziesco, il pro¬blema mi attirava: lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera), mentre uno dei fuligginosi e gelidi treni mer¬ci di allora mi trascinava verso Torino. Ora avvenne che il giorno seguente il destino mi riserbasse un dono diverso ed unico: l’incontro con una donna, giovane e di carne e d’os¬sa, calda contro il mio fianco attraverso i cappotti, allegra in mezzo alla nebbia umida dei viali, paziente sapiente e sicura mentre camminavamo per le strade ancora fiancheggiate di macerie. In poche ore sapemmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita, come infatti è stato. In poche ore mi ero sentito nuovo e pieno di potenze nuove, lavato e gua¬rito dal lungo male, pronto finalmente ad entrare nella vita con gioia e vigore; altrettanto guarito era ad un tratto il mon¬do intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agli inferi con me e non ne era tornata. Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non piú l’i¬tinerario doloroso di un convalescente, non più un mendica¬re compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non piú solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, mi¬sura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del re¬duce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere com¬plesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da stu¬dente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenzia¬le. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Pa¬radossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere co¬me una pianta.
Nel merci del lunedí seguente, pigiato fra la folla inson¬nolita e imbacuccata nelle sciarpe, mi sentivo ilare e teso co¬me mai prima né dopo. Ero pronto a sfidare tutto e tutti, al¬lo stesso modo come avevo sfidato e sconfitto Auschwitz e la solitudine: disposto, in specie, a dare battaglia allegra al¬la goffa piramide di fegati arancioni che mi attendeva in ri¬va al lago. È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano? Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l’avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica…
(…)
Non mi fu difficile procurarmi, oltre alle PDA [Prescrizione di Acquisto], anche le altrettante inviolabili PDC [Prescrizioni di Collaudo]: in un cassetto del laboratorio c’era un pacchetto di schede bisunte, scritte a macchina e più volte corrette a mano. Estrassi la scheda del cromato, che per il lungo uso era divenuta color dell’aurora, e lessi con attenzione. Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è un’unità così definita da sopportare un così definito coefficiente numerico. A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l’edizione precedente della scheda del cromato portava l’indicazione di aggiungere “2 o 3” gocce, e non “23”: la “o” fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. Gli eventi si concatenavano bene: la revisione della scheda aveva comportato un errore di trascrizione, e l’errore aveva falsato tutte le analisi successive, appiattendo i risultati su di un valore fittizio dovuto all’enorme eccesso di reattivo, e provocando così l’accettazione di lotti di pigmento che avrebbero dovuto essere scartati; questi essendo troppo basici, avevano scatenato l’impolmonimento.
(…)
Poiché il magazzino conteneva parecchi lotti di cromato pericolosamente basici, che dovevano essere utilizzati perché erano stati accettati al collaudo e non si potevano più restituire al fornitore, il cloruro venne ufficialmente introdotto come preventivo antimpolmonimento nella formulazione di quella vernice. Poi io diedi le dimissioni, passarono i decenni, finì il dopoguerra, i deleteri cromati troppo basici sparirono dal mercato, e la mia relazione fece la fine di ogni carne: ma le formulazioni sono sacre come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte, e non un iota può venire mutato. Perciò, il mio Cloruro Demonio, gemello di un amore felice e di un libro liberatore, ormai in tutto inutile e probabilmente un po’ nocivo, in riva a quel lago viene tutt’ora religiosamente macinato nell’antiruggine ai cromati, e nessuno sa più perché.

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