Nakagami, Kenji Mille anni di piacere – The Millennial Rapture

Nakagami Kenji

Mille anni di piacere

Questo romanzo esprime, nella massima forza, la tradizione letteraria giapponese: qui trionfa lo splendore arcano nel mondo, ricco di simboli e di miti violenti. Protagonisti sono meravigliosi giovani appartenenti a una classe sociale subumana, per il mondo giapponese contemporaneo. I giovani del clan dei Nakamoto vivono e consumano la loro vita, segnata da una predizione riposta nel sangue nel tragico e furioso congiungersi di eros e morte; ed è merito della loro condizione, è il privilegio della loro condizione sociale, un privilegio epico, a consentire loro di vivere un’autenticità spaventosa ma ben più profonda e reale di quella di qualunque altro uomo o donna.

Sono esseri arcani, animali mitologici, che pur tentando di sfuggire per tutta la vita al loro destino vengono infine da esso raggiunti; vivono in una solenne ritualità i gesti che li condurranno alla morte. Ragazzi tra i diciannove e i trentatre anni, i Nakamoto utilizzano il loro corpo come fosse il canale che li ricongiunge al mito, a quel leggendario inevitabilmente inscindibile dal reale come da tradizione letteraria nipponica: basti pensare al grandioso Genji monogatari. Una scrittura visionaria e stracarica di lirismo travolgente, ben dissimile in questo anche dagli altri grandi protagonisti della letteratura giapponese novecentesca; penso soprattutto al Mishima della Casa di Kioko e dei superbi racconti di Morte di mezz’estate dove eros e morte sono incentrati in una scrittura celebrale e lacerata, dove il piano di astrazione filosofica e di emblematizzazione simbolica dei personaggi si differenzia di  gran lunga dal concreto realismo di Nakagami.

Una scrittura sensuale, quella di Nakagami, intesa nell’accezione di sensorialità e di violenta fisicità, che istintiva e potente trasfigura questi personaggi in poesia, senza l’astrazione del simbolico. Giovani criminali come esseri legati al mondo favoloso degli dei e della terra, al di fuori della storia e di una tediosa disamina sociale e civile, che guasterebbe tutto. In Mishima, invece, la lacerazione, tutta occidentale, tra mondo delle parole e il mondo vero e proprio, e il contrasto tra vita e arte, sono entrambe insufficienti al bisogno di completezza ed entrambe frequentate per arrivare poi all’azione che le unisce, l’unica, il suicidio. Tutto ciò è estraneo a Nakagami, più profondamente nipponico.

http://www.lankelot.eu/letteratura/nakagami-kenji-mille-anni-di-piacere.html

 «Non aveva rimorsi neanche dopo aver ammazzato un uomo, era innocente per il solo fatto di non essere cosciente della sua colpa, era senza peccato persino quando aveva pensato di fare una cosa umanamente inconcepibile, denudare una donna e copulare nel sangue».

Nel suo romanzo-capolavoro Nakagami è riuscito a raccontare uno spazio mitico in cui vagiti e rantoli costituiscono il ritmo brulicante dell’universo.

È l’universalità della miseria quella che Nakagami ci racconta, col suo corollario di fatica, ignoranza e violenza; i suoi Vicoli, come accade sotto ogni cielo negli ambienti più degradati, sono abitati da un’umanità tesa a soddisfare i bisogni primordiali, imprigionata in una dimensione arcaica, in una sacca densa di odori e di umori dove emerge il lato più brutale degli individui. (…) È una vicenda corale quella che zia Oryu ci racconta, in una recitazione cadenzata come la voce dei cantastorie che nel tramandare l’epopea della loro gente trasformano gli uomini in miti, gli eventi in leggenda, i luoghi in simboli. I Vicoli, sospesi al di sopra dello Stagno dei Fiori di Loto in una dimensione che trascende spazio e tempo, diventano così un’utopia di intimità e compassione, un limbo dove tutti sono innocenti, perché ogni vita è parte del divino.

http://www.einaudi.it/libri/libro/kenji-nakagami/mille-anni-di-piacere/978880614760

Colline dopo colline, attraversando Shikoku. Era il 2009.

Quello che mi ha sempre colpito, in Nakagami Kenji (1946-1992), è la scrittura. Incisiva, ruvida, mai consolatoria nella scelta di storie in cui la violenza e il sesso stanno a descrivere con brutalità una realtà dura come quella dei villaggi-ghetto in cui erano (e ancora sono, spesso) relegati i burakumin, i fuoricasta. E questa realtà fatta di spietatezza e di ansia di sopravvivenza Nakagami la conosceva bene, nato com’era in quella stessa comunità. I Vicoli (roji) sono l’ambiente che fa da sfondo alle storie di cui è protagonista un’umanità dolente e ai margini, fra cui spiccano personaggi di grande forza, mai rassegnati, mai domi. Ma il linguaggio crudo ed efficace, in Nakagami, spesso si fa poesia. Il tono lirico che percorre le sue pagine non fa che accentuare il dolore e il sentimento di ingiustizia che impregnano la vita di ognuno. E invita a guardarci dentro e a guardare il cielo.

Nakagami Kenji è stato uno dei più grandi scrittori giapponesi del XX° secolo: leggerlo non lascia indifferenti, leggerlo apre gli occhi e la mente alla complessità. E rivela un Giappone spesso volutamente “dimenticato”. Anche dagli studiosi.

Quando le arrivò all’orecchio il rumore del vento che attraversava alberi e cespugli sulla collina retrostante e faceva sbattere le assi della porta, zia Oryū comprese che era giunto l’inverno nei Vicoli sempre tiepidi come un pozzo angusto, e pensò che l’inverno arrivava anche a Buenos Aires dove si erano stabiliti gli uomini partiti verso nuove terre e nuovi cieli lasciando i loro bambini, e che in quel ghetto laggiù che dicevano simile ai Vicoli il vento doveva ugualmente soffiare disperdendo e sollevando le foglie, doveva farle volteggiare per meglio schernire il loro splendore sfolgorante al sole come l’uccello dorato delle illusioni effimere. Zia Oryū chiuse gli occhi e mentre si sforzava di ascoltare ebbe l’impressione che le sue orecchie volassero lontano come le foglie che turbinavano al vento e continuassero ad avanzare nell’aria indefinitamente. Ciò che vede, ciò che sente, tutto è gioia per lei. Ecco che segue il sentiero tracciato sul limitare del bosco lussureggiante e quando sbuca sulla cresta della collina dietro ai Vicoli uscendo da una folta macchia illuminata dai raggi che filtrano attraverso gli alberi, assomiglia ancor più a uno spirito tremolante, e se un tronco brilla di luce lo tocca per vedere cos’è, se un filo d’erba si piega, se sente un fruscio, fa un giro per andare a guardare. Rendendosi conto che è a causa di una cavalletta che ci è saltata sopra, zia Oryū, che pur essendo diventata uno spirito è rimasta monella, allunga la mano con decisione e le afferra le antenne. “C’è qualcosa che sta toccando le mie antenne”, pensa la cavalletta, eppure non c’è un alito di vento e non sono sopraggiunti altri insetti a portare altri pericoli, non sembra esserci alcun rischio imminente, però è più prudente scappare, fa un balzo in avanti ma viene seguita da zia Oryū che l’ha già raggiunta. C’è solo un salto da lì al mare che pare una cintura d’abito da festa sulla quale siano state versate gocce di robbia la mattina, di giada a mezzogiorno e d’uva alla sera, andando lungo i campi dalla bassa collina al bosco di pini piantati controvento, tra il verde degli alberi di ineffabile bellezza, zia Oryū passa di corsa come un piccolo animale bianco venuto dal fondo delle montagne a leccare il sale marino e va a mettersi sulla spiaggia per ricevere il vento al largo. – Oryū, sei proprio diventata vecchia! non sei piena di dolori, a star sempre coricata? – dice il suo spirito a lei che è inchiodata sul suo giaciglio nel ventre della collina dietro ai Vicoli, e ridacchia immaginando quale piacere sarebbe essere per un istante uno spirito fuggito da quel vecchio corpo decrepito che non può più muoversi.

– No, non sento nessun dolore.

Così si rivolgeva al proprio spirito zia Oryū, nello stesso modo in cui rispondeva alle domande di alcune donne dei Vicoli che si prendevano cura di lei e le preparavano da mangiare da quando non si sollevava più dal suo futon, e dopo aver visto quello spirito volteggiare al vento e allontanarsi lungo la spiaggia in direzione di una barca tirata in secca era infine venuta a pensare, dopo tanto tempo, che ogni cosa era gioia. Lei era libera.

Nakagami Kenji, Mille anni di piacere, traduzione di Antonietta Pastore, Torino, Einaudi, 2007, pp.  137-139.

http://www.rossellamarangoni.it/%E8%AA%AD%E3%82%80%E3%80%82yomuleggere-rileggendo-mille-anni-di-piacere-di-nakagami-kenji.html

The Millennial Rapture

Oryu, anziana e molto malata, giace sul proprio futon e parla con l’immagine del marito defunto immortalata in un quadro collocato sul muro di fronte. L’angolo remoto dell’isola Okushiri che tutti chiamano Roji, il ‘Vicolo’, è da sempre tutto il loro mondo: ghettizzati perché discendenti (dunque considerati di fatto ancora appartenenti) di quella che fu la casta gerarchicamente più bassa nell’antico sistema sociale giapponese (i burakumin, letteralmente ‘abitanti dei villaggi’), patirono la perdita del figlio di soli due anni per una grave malattia che non poterono curare per mancanza di denaro, quindi decisero di abbracciare Buddha; lui divenne monaco e lei devota levatrice, votata ad aiutare a far nascere bambini di altri e all’occorrenza educarli, non mancando di fornire mai, sempre da lui appoggiata, sostegno agli stessi anche in seguito.

Le riflessioni della donna riguardano l’infausta sorte della stirpe dei Nakamoto, costituita invariabilmente da maschi belli destinati all’infedeltà, ad una vita sopra le righe e ad una morte precoce; e su alcuni di questi, che lei strinse tra le mani prima ancora della madre naturale ma che prima di lei si spenserò — ed in maniera violenta, Oryu concentra il suo accorato racconto: sono Hanzo, donnaiolo impenitente incapace di guadagnarsi una stabilità negli affetti come nel lavoro, Miyoshi, schiavo delle emozioni forti date dal sesso dalla droga e dai furti, Tatsuo, che lei stessa contribuì ad avviare alla perdizione, e prima ancora Hikonosuke, padre del primo — che venne al mondo mentre questi moriva per mano di un’amante tradita.
  Partendo dall’omonima raccolta di racconti dello scrittore Kenji Nakagami (un burakumin orgoglioso delle proprie origini, a differenza di altri che le tacevano — tacciono — per sfuggire allo stigma), con The Millennial Rapture l’ultrasettantenne Koji Wakamatsu sfida il razzismo che, latente, ad oltre un secolo dalla soppressione del sistema per caste (datato 1871) resiste e persiste nel proprio paese, elevando questa comunità di reietti dimenticati da tutti a protagonista assoluta: in quella che, nonostante il realismo (magico) della forma, assume presto i contorni di una favola cupa sul piacere e sull’autodistruzione, non c’è spazio infatti per i vessatori, discriminati e banditi dalla narrazione per provocatorio e beffardo contrappasso. All’interno del loro spazio, delimitato da un’inquietante nube chiara che sovrasta i monti e oltre la quale mai si volgerà lo sguardo del regista, Hikonosuke, Hanzo, Miyoshi e Tatsuo Nakamoto sono figure quasi mitiche, esseri magnetici ma profondamente imperfetti, uomini dissoluti ed eccessivi, dotati d’un fascino innato e dirompente ma incapaci del minimo autocontrollo, capaci di far capitolare ogni donna ma vittime del loro stesso sangue, sempre in cerca del godimento e in fuga dalla responsabilità, perennemente in bilico tra estasi ed intimo dolore.
Maestro nel filmare il potere insopprimibile dell’impulso sessuale — ragione e motore di ogni umano gesto — caricando altresì le immagini di un sottotesto politico, Wakamatsu cala lo spettatore in un’atmosfera sospesa ma genuinamente morbosa e maledetta (perfettamente accompagnata in musica dal folk scarno di Hashiken e dalla voce profonda di Mizuki Nakamura), mostrandosi apparentemente parco (certo più che in passato) con le rappresentazioni estetiche della lussuria, ma donando alla narratrice Oryu (una sofferente e grandiosa Shinobu Terajima, da lui recentemente diretta anche nello stupefacente Caterpillar) uno sguardo al contempo materno e turbato, e scegliendo di concluderne la parabola con una sequenza dal sapore incestuoso ma paradossalmente liberatorio in cui il cinema vola alto e lo scandalo lascia spazio alla poesia.

http://cinerepublic.filmtv.it/the-millennial-rapture-recensione-di-pazuzu/14593/



 

Nakagami, Kenji

Enciclopedia Italiana – VI Appendice (2000)

di Maria Teresa Orsi

Nakagami, Kenji

Scrittore giapponese, nato a Shingū (Wakayama) il 2 agosto 1946, morto a Tokyo il 12 agosto 1992. Cresciuto in una comunità di burakumin (letteralmente “gente di villaggio”, ma in realtà sinonimo di discendenti di gruppi un tempo socialmente discriminati), si affermò fin dagli inizi come scrittore scomodo, teso ad affrontare temi scabrosi e ingrati: primo fra tutti, quello delle minoranze etniche e sociali, ancora oggi vittime di discriminazioni che una propaganda governativa e una cultura massificata tendono a nascondere sotto una decantata ma inesistente armonia e uniformità nazionale. A questo tema sono dedicati i romanzi della cosiddetta trilogia, che lo imposero all’attenzione della critica: Misaki (1975, Il promontorio), Karekinada (1977, Il mare degli alberi morti) e Chi no hate shijō no toki (1983, Il tempo della morte ai confini della terra). Pur partendo dalla realtà contemporanea, N. ricorre al fantastico, al mito e alla leggenda, creando una personale e inquietante visione di un Giappone primitivo, dove le regole della convivenza sociale sono ribaltate e la presenza di situazioni condannabili dal punto di vista della morale dominante ha la funzione di scuotere le certezze dei lettori sulla validità dei modelli acquisiti. Coerentemente, nei suoi romanzi N. si avvale di una scrittura complessa, aspra e vigorosa, lontana dal limpido ritmo discorsivo e dall’approccio colloquiale immediato di molti suoi contemporanei. Tra i suoi ultimi romanzi si ricorda Keibetsu (1992, Il disprezzo), un ulteriore attacco al conformismo della società giapponese, e Izoku (post., 1993, Razze diverse), rimasto incompiuto per la morte prematura dello scrittore, che ripropone il tema delle minoranze (Coreani, Ainu, Burakumin), ipotizzando non la soluzione di una loro assimilazione bensì quella di una realtà socialmente eterogenea.

Enciclopedie on line

Nakagami nakaṅami, Kenji. – Scrittore giapponese (Shingū, Wakayama, 1946Tokyo 1992). Nei suoi lunghi romanzi, solidamente impiantati su elaborati intrecci, ha affrontato temi ingrati e scabrosi utilizzando una scrittura complessa e aspra, lontana dal ritmo discorsivo di molti suoi contemporanei. Oltre alla sua opera di maggior rilievo, la saga familiare che include Misaki (“Il promontorio”, 1975), Karekinada (“Il mare degli alberi morti”, 1977) e Shi no hate shijō no toki (“Il tempo della morte ai confini della terra”, 1983), vanno ricordati Sen nen no yuraku (“Mille anni di piacere”, 1982) e Keibetsu (“Il disprezzo”, 1992).

http://www.treccani.it/enciclopedia/kenji-nakagami/

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Kenji Nakagami (中上健次 Nakagami Kenji, August 2, 1946 – August 12, 1992) was a noted Japanese writer, critic, and poet of buraku ancestry.

Life

Born in the city of Shingū in Wakayama Prefecture, Japan, Nakagami was of burakumin ancestry. He was the first member of his village to be educated under the new compulsory education system “people thought that I was very bright because I could read my own name”. He moved to Tokyo age 19 in 1965, took on various manual handling jobs including a baggage handler at Tokyo airport, which also allowed him to continue his passions of jazz and writing.

In June 2006: “[a] poem card (shikishi) on which novelist Nakagami Kenji inscribed an original haiku has been found in the possession of haiku poet Ibaraki Kazuo of Nara Prefecture. The haiku was composed on June 3, 1990, at a party after a lecture given by Nosaka Akiyuki in the city of Shingū, Nara, to commemorate the founding of Kumano University. The poem reads Akiyuki ga / kiku gen no koe / natsu fuyō (Akiyuki / listening to phantom-like voices– / a summer cotton rose).”

Nakagami died from kidney cancer in 1992 in Wakayama at the age of 46.

Works

Many of his works are set in the Kumano region of the Kii Peninsula where he grew up under difficult circumstances. When Nakagami won the Akutagawa Prize in 1975 for The Cape ( Misaki), he became the first author born in the post-war period to win this prize. He is considered one of the most important postwar writers in Japan, and one of the only ones of prominence to reveal the dark side of a racist Japanese society. A number of Nakagami’s short stories have been translated into English and other languages, including The Cape and Snakelust (蛇淫 Ja’in). He also won the Mainichi Publishing Culture Award for his yet untranslated story Karekinada (枯木灘 The Sea of Withered Trees).

Major works available in English

  • Karlsson, Mats (2001), The Kumano Saga of Nakagami Kenji, Stockholm: Stockholms Universitet.
  • Nakagami, Kenji (1984), “The Immortal” (trans. Harbison, Mark) in Gessel, Van C. & Matsumoto, Tomone (eds.) (1985), The Showa Anthology – Modern Japanese Short Stories, New York: Kodansha International. ISBN 4-7700-1708-1
  • Rankin, Andrew (trans., ed.)(1999), Snakelust, Tokyo: Kodansha. ISBN 4-7700-2354-5
  • — (containing “The Mountain Ascetic”, “The Wind and the Light”, “Snakelust”, “Makeup”, “Crimson Waterfall”, “A Tale of a Demon” and “Gravity’s Capital”)
  • Zimmerman, Eve (trans., ed.)(1999), The Cape and Other Stories from the Japanese Ghetto, Berkeley California: Stone Bridge Press. ISBN 1-880656-39-6
  • — (containing “The Cape”, “House on Fire” and “Red Hair”)Sources

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