Luce d’agosto – William Faulkner – light in august pdf free ebook download – La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami Kenji

 Si narra che una sera d’estate William Faulkner fosse seduto in veranda insieme alla moglie ed osservassero scendere il tramonto. Ad un certo punto la donna casualmente, più o meno con queste parole, commentò: “Niente è paragonabile alla luce d’agosto, non è vero?” Quasi nello stesso istante William Faulkner è come se fosse folgorato da un’illuminazione. Balza in piedi, corre nel suo studio e cambia il titolo del romanzo che stava ultimando: da “Dark House” diventa “Light in August”.

Diversi critici hanno tentato di speculare sul significato del titolo. Per anni facendolo derivare dall’uso colloquiale della parola “light”, luce: volto a significare dare alla luce, usato in genere per descrivere una mucca quando partorisce (dà alla luce) e ritorna alla luce (muore), in collegamento alla gravidanza di Lena Grove, la giovane donna protagonista dell’opera.

Tant’è che Faulkner, a proposito della scelta del titolo, ha negato tale interpretazione, spiegando: “Ad agosto in Mississippi ci sono alcuni giorni, orientativamente a metà del mese, in cui all’improvviso ci sono precipitazioni anticipate, fa freddo, c’è una qualità di luce luminosa, dolce e fosforescente, sebbene sia un fenomeno antico, non dei giorni nostri. Avrebbe dovuto rappresentare i fauni e gli dei – secondo la tradizione greca dell’Olimpo. Dura giusto per un giorno o due, poi va via. Il titolo mi rimanda a quel momento in cui la luminosità diventa precedente alla nostra tradizione cristiana.”

Luce d’agosto fu portato a compimento, e pubblicato nel 1932, poco dopo che l’autore fosse diventato una celebrità. Il settimo dei suoi romanzi è ambientato nel periodo compreso tra le due guerre, e si incentra su due stranieri che arrivano in momenti diversi a Jefferson, nella contea di Yoknapatawpha – immaginario territorio del Sud dove l’autore ha ambientato gran parte dei suoi libri e che è ormai divenuto un luogo mitico, nonché letterario, del Novecento – ricreata sulla base di quella da cui proviene Faulkner: Lafayette, in Mississippi.

L’opera si focalizza subito su Lena Grove, una ragazza bianca incinta proveniente dall’Alabama alla ricerca del padre del bambino, che non è ancora nato, per quindi passare ad esplorare la vita di Joe Christmas, un uomo misterioso e sfuggente, carnefice e martire al tempo stesso, che si è stabilito a Jefferson da pochi anni e passa per bianco, ma che segretamente crede di avere antenati neri. Christmas, privo di riscatto e di redenzione, che fugge da tutto e da tutti per dimenticare le inquietudini delle sue origini razziali, lavora alla segheria con Lucas Burch, il padre del figlio di Lena, che ha cambiato il suo nome quando ha scoperto che lei era incinta.

Ben presto, nella comunità di Jefferson, si spargerà la voce di un brutale omicidio, risucchiando tutti i suoi membri in una spirale vertiginosa.

Joanna Burden – “yankee”, discendente di abolizionisti, e per tale motivo odiata dai cittadini di Jefferson – proprietaria del capanno in cui Christmas e Burch vivono, è stata assassinata. Burch, coinvolto nella scena del crimine, svela che Christmas aveva una relazione con lei; ed è proprio per tale motivo ritenuto colpevole dell’assassinio. Mentre Burch è in carcere, in attesa di intascare la taglia che pende sulla testa di Christmas, Lena è assistita da Byron Bunch, uno scapolo zelante che si innamora di lei. Bunch, a sua volta, trova il sostegno in un altro emarginato, l’ex ministro Gail Hightower – per aiutare Lena a partorire e per proteggere Christmas affinché non venga linciato – un reverendo presbiteriano ripudiato dalla sua Chiesa per un vecchio scandalo della moglie adultera e suicida, che non ha nessuno da inseguire e niente da cui fuggire, perché la sua vita stagnante è già finita molti anni prima che nascesse, risucchiata dalla morte miserabile del nonno in una guerra priva di coraggio e di eroismo.

I protagonisti di Light in August consumano le loro vicende in un mondo che si dipana quasi sempre in strade in salita, circondate da casotti abitati da neri invisibili e bisbiglianti, sceriffi, taglialegna, predicatori, e donne “dal volto di pietra”. L’autore ama focalizzarsi su personaggi disadattati, emarginati dalla propria società, e rappresenta lo scontro di persone alienate, contro una società rurale puritana e pregiudicata. In uno stile modernista, vorticoso, non strutturato che va dall’allegoria cristiana al racconto orale, Faulkner ci ha restituito il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, e dà vita ad un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono. Le tematiche esposte sono l’etnia, il razzismo, il sesso, le classi sociali, e la religione nell’America meridionale.

A tratti è come se le parole, le frasi di Faulkner ci guidassero in un grande deserto, assolato e cocente, col solo scopo di smarrirci e darci ad intendere che l’unica maniera di sopravvivere è quella di continuare ad avanzare. Leggere Faulkner è quasi come masticare pietra. La sua è scrittura che sa di essere dura, ruvida. Ci costringe a scalare improbabili dune impervie, a desiderare di bagnare la gola diventata troppo asciutta, ma quando si è finalmente fuori di quel deserto ci si accorge di essere stati ripagati con una storia potentissima.

Manca, a differenza delle altre opere, la Natura forte e dirompente, tranne forse che quando le due colonne di fumo si levano minacciose dalla casa incendiata dei Burden ed è da quest’incendio che il male, la disperazione, la violenza, inquinano e spazzano le vite dei personaggi di questo libro. E sempre a differenza delle opere precedenti, in cui Faulkner sperimenta notevolmente, spingendo la forma-romanzo ai suoi limiti più estremi, in Luce d’agosto questa componente sembra mancare o avere uno spessore più sottile; l’autore americano usa un linguaggio più sobrio di quello a cui già ci aveva abituati, che quasi mai abbonda di troppi aggettivi, controllato e limpido. Mancano i lunghi monologhi o i paragrafi infiniti e stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Il primo accoglimento dell’opera, però, ha acceso alcuni dissapori: secondo l’opinione di alcuni giornalisti lo stile di Faulkner, così come la questione del soggetto suscitava delle riserve. Soltanto col tempo c’è stata una rivalsa tale da far considerare il romanzo come uno dei più importanti di Faulkner e una delle migliori opere in lingua inglese di tutto il XX secolo. 

Alfredo Perna

http://www.raccontopostmoderno.com/2013/04/luce-agosto-william-faulkner-recensione/

Luce d’agosto – William Faulkner, 1932

Prima d’ora non conoscevo William Faulkner e mai mi era capitato tra le mani un suo romanzo o sotto gli occhi il suo nome.

Decisi di leggere Luce d’agosto’ per caso, un giorno, leggendo ‘Viver para contarla’ dove Gabriel Garcia Marquez scrive:

 

 

“Yo habìa comprado en el puerto una buena provisiòn de cigarillos de los màs baratos, de tabaco negro y con un papel al que poco le faltaba para ser de estraza, y empecè a fumar a mi manera de entonces, encendiendo uno con la colilla del otro, mietras releìa Luz de agosto, de William Faulkner, que era entonces el màs fiel de mis demonios tutelares”.

Non terminai di leggere il romanzo di Marquez e corsi in libreria a comprare quello di Faulkner.

Non saprei dire quanto il bisogno di leggere Luce d’agosto sia dipeso dal fatto che uno scrittore del calibro di Marquez stesse rileggendo questo autore a me sconosciuto, o se piuttosto non abbiano influito su di me maggiormente le circostanze ed il modo con cui Faulkner mi è stato introdotto. D’altronde, anch’io sono un fumatore accanito che sfoglia con le dita ingiallite dal tabacco le pagine in cerca del suo “demone tutelare”. E credo di averne trovato un altro, nonostante quasi un secolo di distanza.

Forse perché negli stessi anni (a partire dal 1930) Faulkner iniziò a collaborare con Hollywood scrivendo sceneggiature, o forse perché fa parte del suo stile (a cui, quindi, sarebbe dovuta tale collaborazione), la scrittura di questo autore ha un potere evocativo sorprendente che, personalmente, non avevo ancora incontrato. La facilità con cui emergono, involontariamente e senza sforzo, le immagini di cui si sta leggendo stupisce molto di più di quanto sia scritto sulle pagine: si riesce a costruire la scena con una semplicità incredibile, come se fosse un atto tra lo spontaneo e il volontario, come se la si stesse inquadrando con una telecamera. Lo stesso accade con i personaggi, descritti da pochi tagli decisi, netti, che tuttavia riescono ad offrire una figura completa e con una personalità affatto evanescente o indefinita.

Allo stesso tempo – e questo è quanto di più io abbia apprezzato dello stile faulkneriano – al lettore rimane una grande libertà del dettaglio: come se l’autore avesse delineato solo i tratti principali della trama, dei paesaggi, dei personaggi, mentre al lettore è lasciata la possibilità di definirli nel particolare a seconda delle proprie esperienze: un paesaggio già visto, un associazione di un volto che per qualche ragione alberga la sua memoria, una voce che non si sa perché appartiene proprio al vecchio del bar con la sigaretta in bocca e la canotta sporca.

La scrittura è asciutta, essenziale. La sua semplicità e totale mancanza di fronzoli stilistici è segno più di una chiarezza di vedute che adattamento alla semplicità contadina del contesto che descrive. La lucida consapevolezza dell’autore traspare a piccole dosi in affermazioni di poche righe nascoste in un fiume di pagine che scorrono a prescindere e che, attraverso un linguaggio assolutamente non forbito, svelano i segreti di cui egli è custode.

Leggere Faulkner è come guardare dal buco di una serratura dispiegarsi un mondo immenso di scene legate tra loro, dinamiche, realissime e crude, vive. In un paio di frasi riesce ad offrire al lettore una immagine che non è uno scorcio: “la stanza, pulita e spartana” che “sapeva di Domenica”; Byron Bunch che crede che “tutti, uomini o donne, sono motivati da quelli che crede sarebbero i suoi stessi motivi se fosse tanto folle da fare ciò che stanno facendo gli altri”; Joe Christmas che, ramingo, si porta dietro il suo “essere senza radici” come “una bandiera, con un che di spietato, di solitario, e quasi di orgoglioso”; oppure la città che “si dispiacque di essersi rallegrata, come a volte la gente si dispiace per coloro che alla fine ha costretto a fare come voleva”.

Faulkner, dunque, accompagna Christmas nella sua fuga dal suo “sangue nero”, dal suo passato e da se stesso, con il freddo distacco della rassegnazione prevista di chi non si è arreso, ma che semplicemente sapeva – sin dall’inizio – che sarebbe andata così. Una testarda determinazione nell’assumere che non ci sono sempre spiegazioni. A volte possono esserci solo storie, di quelle dove un uomo, verso la fine, pensa:

“Eppure sono arrivato più lontano in questi sette giorni che in tutti i trent’anni. Ma non sono mai uscito dal cerchio. Non sono mai sfuggito dall’anello di quello che ho fatto e non potrò mai disfare”.

Con la stessa semplicità e scioltezza, Faulkner sciorina ai quattro venti verità inopinabili sulla vita e sull’Uomo, sulla natura degli uomini e delle donne, sentenze micidiali sulla società di quel tempo e sulle sue abitudini, come fossero banalità o ovvietà note a tutti.

Nonostante “la vita aveva cominciato a correre così veloce che accettare avrebbe preso il posto di capire e di credere”, Faulkner non perde la sua lucidità d’analisi del mondo che lo circonda, fatto di gente buffa che “non riesce a continuare a pensare o a fare una cosa in un certo modo a meno che ogni tanto non le si dia un nuovo motivo per farlo. E poi quando hanno un nuovo motivo, poco ma sicuro, cambia lo stesso”.

Probabilmente deve la sua chiarezza di vedute al fatto che egli continua a capire, all’aver capito che l’uomo è “dotato di inventiva al fine di potersi fornire in momenti di crisi di forme e di suoni con i quali difendersi dalla verità”, perché “la mente ha la felice capacità di liberarsi di quanto la coscienza si rifiuta di assimilare”.

E a volte, per farlo, scrive.

http://www.stroboscopio.com/luce-dagosto-william-faulkner/

Faulkner LIGHT IN AUGUST

La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami

Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d’agosto», un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parla Nakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi
Tommaso Pincio
Per troppo tempo il lettore italiano ha conosciuto uno dei più grandi romanzi del Ventesimo secolo in una traduzione che, seppure d’autore, non gli rende giustizia. Per errori, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luce d’agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confini dello scempio letterario. Finalmente, grazie alla cura di un fine conoscitore come Mario Materassi, questo capolavoro è stato ora restituito al suo originale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23). William Faulkner lo portò a compimento poco dopo essere diventato una celebrità. Fin dall’inizio della carriera si era guadagnato discrete e talvolta ottime recensioni, ma fu soltanto nell’autunno del 1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscitato davvero molta sensazione» scrisse alla moglie rimasta in Mississippi riferendosi al clamore per Santuario, uscito una decina di mesi prima. «Adesso sono la più importante figura letteraria in America. Mi aspetta un grande futuro».
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L’urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l’immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d’agosto rappresenta, almeno in parte, un’eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d’estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c’è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l’appunto dall’immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall’Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l’uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all’omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest’ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l’aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l’idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità – prima ancora del delitto di cui si macchia – a farne un paria. D’altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d’agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell’antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d’agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell’immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un’entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d’agosto. L’influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste – o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 – uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l’umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell’impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l’etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell’Ottocento, con l’apertura del paese all’Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all’apparenza l’identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d’America, nonché all’opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l’impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell’universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l’uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell’incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l’immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un’intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l’autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l’occupazione americana fu istituita l’istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all’Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l’appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un’opera tanto brutale ed esplicita all’intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.

http://articoliscelti.blogspot.it/2007/11/la-luce-di-faulkner-nei-vicoli-di.html

The Isolated Individual in William Faulkner’s Light in August

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E’ uno dei capolavori di Faulkner, e appartiene al suo più felice momento creativo, quello che va da L’urlo e il furore del 1929, ad Assalonne, Assalonne! del 1936. Anche Luce d’agosto fa parte del ciclo dedicato alla contea di Yoknapatawpha, ed è particolarmente legato a L’urlo e il furore e a Santuario. Il romanzo è composto di varie storie intrecciate secondo una struttura complessa che ne rende piuttosto ardua la lettura. Una delle storie riguarda Lena Grove, una donna semplice e fiduciosa che è incinta di nove mesi e si reca dall’Alabama al Mississippi perchè è persuasa che il padre del nascituro, Lucas Burch, si prenderà cura di loro. La donna, armata di “una calma irragionevolezza”, rappresenta i valori immutabili della “buona terra” ed è pertanto un personaggio altamente positivo. Di lei si innamora Byron Bunch, un uomo che fino ad allora era sfuggito alla vita dedicandosi al lavoro indefesso e alla religione, ma che ora si lascia influenzare positivamente dalla forza vitale di Lena. Simbolicamente, questa forza vitale è espressa al momento del parto, che avviene presso la casa bruciata di Joanna Burden. La storia di Joanna è invece tragica e intessuta con le vicende di altri personaggi negativi; la donna appartiene a una famiglia del New England, che Faulkner descrive come fanaticamente antischiavista e che ha inculcato in Joanna un tremendo senso di colpa verso i neri. Ella si dedica così all’assistenza dei neri, persuasa che questa sia la croce da portare in espiazione delle colpe dei bianchi schiavisti. Superata la quarantina, viene violentata da Joe Christmas. Joanna cade in preda a una sorta di ninfomania compensatrice di tanti anni di solitudine, ma anche in questa nuova fase della sua vita si nota una vena di masochismo. Ella vuole infine tornare con Joe ma insiste perchè lui (di origini oscure e forse con sangue africano nelle vene) si proclami nero. In tal modo la sua ansia missionaria nei confronti dei neri e la sua furia erotica troverebbero un punto di fusione. Joe rifiuta, anzi le squarcia la gola, dando poi alle fiamme la casa. In seguito a ciò, si scatena la caccia all’uomo. Joe Christmas viene castrato e ucciso.

Un altro personaggio molto importante, che pure rappresenta l’esilio dalla vita reale provocato da idee preconcette, è Gail Hightower: costui si è ritirato in convento, luogo che gli pareva “intatto e completo e inviolabile da ogni parte, come un’urna classica e serena, dove lo spirito potesse rinascere di nuovo, riparato dall’aspra bufera del vivere e morire così, “pacificamente”. Nella pratica del ministero Gail rifugge da un vero contatto umano con i parrocchiani, induce la moglie al suicidio e viene costretto a lasciare la chiesa. Due eventi di segno opposto (la nascita del figlio di Lena e il linciaggio di Joe) lo ritrascinano nella vita e gli pongono una serie di problemi che l’uomo, essendo un intellettuale, non può risolvere, dato che per Faulkner il cuore è l’unico strumento di salvezza. Rimane in vita solo attaccandosi alla memoria del nonno, morto nella guerra civile vent’anni prima che Gail nascesse. Questa memoria , è secondo l’autore, l’unica cosa “pura e bella” che gli resti.

http://www.parodos.it/books/rest/faulkner.htm

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The Sound and the Fury video

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