Amiri Baraka. Jazz, rap ribellione e slam poetry

 La morte della ragione

1

La mia rabbia, talvolta,
è talmente brutta, è come se stesse seduta
fuori dalla natura, chiamando anche me
fuori, in qualche freddo vento merdoso
dell’inferno dell’uomo di colore. Le morte preghiere
che mi inaridiscono. Che rifiutano a me
e ai miei simili che camminano
la luce della calma razionale.
I denti del tempo
in una zona temperata. Vento tagliente
che mi strappa il respiro e gli abiti.
Tutta la mia perspicacia se n’è andata, io dissi,
disseccata per fare logica in polvere morbida
di cui ci imbrattiamo il volto per farci trovare
nelle notti quando la luna batte sulle
case, e fantasmi siedono a respirane
il sangue. Queste sono frasi, ordinati
termini logici, capricci del ritmo, perduti
in un bagliore di grazia missionaria.

2

Mio nonno era un omone grosso
che lasciò un cadavere ancor più grosso
quando lo uccisero. Matto
com’era, si aggirava per la città di gesso
di notte, declamando le mie poesie.
Oh, per l’amore di chiunque
da ascoltare per il Dio di chiunque. Io sostengo
che questa non è la condizione generale
dell’uomo. Questa non è
l’agonia e la morte di chiunque.
Mi condussero là nella sua giacchetta accorciata.
Guardavo mentre lo calavano giù. Oh,
dio di Chiunque, faceva un freddo tale, e la pioggia
mi veniva addosso così forte. Ma tirai su la giacca
contro la faccia. E diedi un calcio alla cassa:
e i becchini la lasciarono cadere imprecando.

Traduzione: Fernanda Pivano

versione originale:

The Death of Reason
1

My anger, sometimes,
is so ugly, it’s like it sits
outside nature, calling me, also,
out, in some cold shit wind
of the colored man’s hell. The dead prayers
drying me out. Denying me
and my walking buddies
the light of rational calm.
The teeth of weather
in a temperate zone. Sharp wind
pulling my breath and clothes.
Any sharpness in me gone, I said,
dryed out for soft powdered logic
we smear on our faces to be found
nights when the moon breaks against
buildings, and ghosts sit breathing
its blood. These are sentences, fixed
terms of logic, fits or rhythm, lost
in a flash of missionary grace.

2

My grandfather was a big man
who made a bigger corpse
when they killed him. Crazy
as he was, stalking the chalk city
at night, naming my poems.
Oh. for anybody’s God. I claim
this is not the general condition
of man. This is not
anybody’s choking and death.
They led me out in his cut-down. Oh,
Anybody’s god, it was so cold, and the rain
came on me so hard. But I pulled the coat
up close to my face. And kicked at the box;
and the diggers dropped it cursing.

Amiri Baraka. Jazz, rap ribellione e slam poetry

Il poeta, drammaturgo e autore di critica è morto a Newark, nel New Jersey, dove era nato quasi ottant’anni fa.

di Valerio Mattioli10 gennaio 2014

Amiri Baraka è stata la coscienza critica, il rivoluzionario impenitente dell’America nera. Nato come LeRoi Jones 79 anni fa, esordì da poeta nella New York del Greenwich Village, della beat generation e del bebop; saggista, critico, attivista, personalità tra le più radicali del panorama culturale a stelle e strisce, è autore di volumi come Il popolo del blues (Shake Edizioni) che già dal sottotitolo – Negro Music In White America – suona come una rivendicazione di orgogliosa alterità. Reso in italiano con un più morbido Sociologia degli Afroamericani Attraverso il Jazz, il libro è un classico che mette in relazione le lotte per l’emancipazione dei neri e la musica che di quelle lotte fu colonna sonora ineguagliata: e cioè proprio il jazz, che per Baraka è più che un oggetto di studio. È anzi una passione viscerale, oltre che il mezzo attraverso il quale declina la sua poesia.

Newark, 1974

Newark, 1974

Perché i versi di Baraka sono jazz, e il recente  Roma Jazz Festival di quest’anno era dedicato proprio al «connubio tra jazz e letteratura», uno come lui proprio non poteva mancare. E non era la prima volta che sbarcava a Roma. Negli annali resta la sua performance al famigerato Festival dei Poeti di Castelporziano, anno 1979, l’evento che simbolicamente mise fine ai Settanta italiani in un tripudio di palchi espropriati, contestazioni, scazzi, involontaria autocoscienza di gruppo e minestroni aggratis. Intervistato al telefono, Baraka ha rievocato quell’esperienza con un certo stupefatto divertimento: «C’era questo palco sulla spiaggia e dinanzi al palco migliaia di persone. Era tutto molto caotico e selvaggio: dovevano esibirsi poeti americani, russi, italiani… A un certo puntoto il palco crollò e fu una fortuna che nessuno si fece male. Una situazione bizzarra a dire poco». La performance di Baraka fu memorabile, e i suoi versi violentemente ritmici, incalzanti, eppure così inequivocabilmente musicali, aprivano di fatto uno squarcio sul rap prossimo venturo, un paragone che d’altronde lo stesso Baraka sottoscriveva con convinzione. «Il rap è musica, ritmo e poesia, questo senza dubbio; e poi i primi rapper condividevano parecchio con i cosiddetti poeti jazz, a partire dall’interesse per i temi sociali e politici, una cosa che ritrovi in musicisti come Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, i Public Enemy, o anche il primo Tupac». Pionieri a parte, gli ho chiesto cosa ne pensava del rap attuale e il suo giudizio è senza appello: «Da quando le corporation hanno preso a saccheggiarlo, il rap è diventato un’altra cosa. I temi sociali sono stati messi al bando, e i testi si limitano a parlare perlopiù di droga, sesso, soldi… È la tipica ideologia delle corporation: fare soldi è l’unica cosa che conta, gli americani ci fanno pure le guerre apposta. La gente muore e le corporation diventano ricche».
Anche sul jazz contemporaneo Baraka era critico, e anche qui non ci ha pensato due volte a individuare i responsabili della progressiva marginalizzazione della sua musica d’elezione: «Se tu senti le ultime cose di Coltrane prima che morisse, capisci bene come quella musica fosse prima di tutto una presa di coscienza, e che era quel tipo di coscienza a dettare le forme. Ma visto che era una musica che rifetteva troppo su quello che stava succedendo nel mondo, le corporation decisero di ignorarla, e stabilirono che l’unico tipo di jazz ammissibile era la cosiddetta fusion. Da quel momento in poi, il jazz è diventato praticamente musica da ascensore: il che non significa che non ci siano ancora grandi musicisti che fanno ottimo jazz, solo che la radio e l’industria musicale li ignorano». La discussione sarebbe potuta andare avanti per ore. Baraka sapeva quello che diceva e aveva idee molto precise, e di certo le sue opinioni – anche le più controverse – pesano. Dopotutto resta un poeta, e come declamò il suo amico Ted Joans a Castelporziano trentaquattro anni fa: «You have nothing to fear from the poet but the truth».

Pubblicato su XL 90 di ottobre 2014. Aggiornato 10 gennaio 2014

http://xl.repubblica.it/articoli/amiri-baraka-jazz-rap-ribellione-e-slam-poetry/8390/

venerdì 10 gennaio 2014

Il jazz dice addio ad Amiri Baraka

Amiri Baraka, nato Everett LeRoi Jones, intellettuale, poeta, scrittore e musicista americano è morto, secondo quanto riporta il Los Angeles Times, giovedì 9 gennaio all’età di 79 anni.
Avevamo scritto di lui pochi mesi fa, in occasione della sua presenza al Roma Jazz Festival dove si era esibito in un reading accompagnato da un gruppo formato da René Mc Lean al saxofono contralto, D.D. Jackson al pianoforte, Calvin Jones al contrabbasso e Pheeroan akLaff alla batteria.
Baraka è stata una delle figure fondamentali delle lotte di rivendicazione del popolo afroamericano diventandone una delle voci maggiori e più rispettate. In Italia è conosciuto per la traduzione di una delle sue opere maggiori, ovvero, il popolo del blues, in cui ripercorreva la storia afroamericana attraverso la musica.
Fin da giovane si era distinto per il suo anticonformismo, come quando era stato espulso dall’Air Force per aver letto testi comunisti. Dopo una laurea alla Columbia diventò una delle figure fondamentali del movimento “Beat” di cui scrisse e pubblicò testi nella rivista “Yugen” in cui scrissero, tra gli altri, autori importanti come William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Gregory Corso e Jack Kerouac.
Cambiò il proprio nome in seguito all’assassinio di Malcom X per poi legarsi al Black Arts Movement, movimento vicino alle Black Panther.
Negli anni ’80 cominciò a insegnare all’Università Statale di New York e fino al 1994, anno in cui smise, fu professore in varie Università, compresa la Columbia. È stato autore di una ventina di raccolte di poesia, ha inciso dischi, scritto testi teatrali, diverse opere-jazz, pubblicato otto volumi di saggi, un paio di romanzi, parecchi racconti e, in qualità di performer, ha collaborato con i maggiori jazzisti americani, raccontandone le gesta e la vita.

Per capire la sua idea tra la correlazione tra musica jazz e rivendicazione razziale Jones scrisse, ne “Il popolo del blues”, che “La più espressiva musica negra di qualsiasi periodo è l’esatto riflesso di ciò che il negro è in quello stesso periodo, riflette le sue convinzioni su se stesso, sull’America e sul mondo” e spiegò che “la musica negra che si sviluppò negli anni Quaranta era qualcosa di più della manifestazione fortuita di un mutamento sociale: essa era il risultato di consapevoli tentativi di sottrarre l’espressione artistica al pericolo di venir inghiottita nella corrente generale, o anche solo ‘compresa’. Per prima cosa questi giovani musicisti incominciarono a considerarsi musicisti seri, artisti, non semplici esecutori, e questo atteggiamento cancellò dal jazz l’etichetta (protettiva e restrittiva a un tempo) di ‘espressione popolare’. Musicisti come Charlie Parker, Thelonious Monk e Dizzy Gillespie furono ricordati, in tempi diversi, per aver detto: ‘Non mi importa se tu ascolti la mia musica o no’”.
Nonostante le sue opere controverse il ruolo intellettuale e storico di Baraka non è mai stato messo in discussione. E oggi il mondo della cultura 8e non solo afroamericana) perde uno dei suoi testimoni più importanti e influenti.
(Fonte Music FanPage)

http://mipiaceiljazz.blogspot.it/2014/01/il-jazz-dice-addio-ad-amiri-baraka.html

Baraka Amiri

Il popolo del Blues

Questo libro (sottotitolo “Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz”) è davvero un classico; se però riprendiamo la nozione calviniana fin troppo nota non so se facciamo un favore al lettore, perché dalla narrativa alla saggistica le cose cambiano: ciò che dà valore alla proposizione di Calvino è il fatto che parlava di letteratura. E la letteratura – il paradosso è solo apparente – si salva, quando si salva, e dura nel tempo (alcuni suoi frutti diventano “classici”) in virtù e per lo più della sua rinuncia a pronunciare delle verità assolute. I personaggi si muovono in situazione, sono contraddittori, ci parlano in modo diverso perché anche noi cambiamo come lettori nel tempo e alle diverse latitudini; le storie, benché si assomiglino tutte, proprio come quelle degli esseri umani, sono ogni volta uniche, irripetibili. Insomma, il regime della letteratura vera e propria è il possibile, l’immaginario, la contraddizione (compresa quelle delle interpretazioni). Per la saggistica tutto questo vale meno (si parla ovviamente alla grossa). Il quoziente di verità di uno studio sulle classi sociali nell’Inghilterra dell’Ottocento, o sulla genesi o la “sociologia degli afroamericani attraverso il jazz” (sottotitolo di questo libro) è curiosamente meno stabile di una poesia d’amore di Catullo. Dunque, né lo spazio né il contesto generale ci impegnano qui a “misurare” la tenuta nel tempo delle convinzioni di Amiri Baraka (nome originario: LeRoi Jones) a proposito de “Il popolo del blues”, unanimemente (a prescindere dalle valutazioni che potrebbero farne al riguardo specialisti di varia provenienza) considerato un fortino degli studi sulla musica afroamericana.

Il libro uscì nell’ormai lontano 1963 e ora lo ripubblica la Shake in una bella edizione ricca di fotografie (ci sono tutti, Muddy Waters, Ida Cox, Ornette Coleman, la Holiday, Armstrong e disegni e foto di aste di schiavi, locali di Harlem etc). Baraka, nato nel 1934, poeta e saggista, movimentista politico, promotore della Black Community Development and Defense Organization, fondatore della casa editrice Totem Press che ebbe un ruolo importante nello sviluppo della Beat Generation, poi convertitosi all’Islam, svolgeva una ricerca densissima che includeva il fatto musicale in una storia molto più complessa. Intesa come storia sociale ovviamente, persino politica.

Questa cifra “politica” è messa in questione ancora oggi, in una prefazione scritta molti anni dopo proprio per i lettori italiani: e chiama in causa precisi orientamenti dell’autore, vicino com’è stato nella sua vita a un originale intreccio di marxismo e ottiche afroamericane. In questa lettura, blues e jazz partecipano di vicende sociali e culturali che li determinano, e se le radici di questa musica sono nere, poi essa si articola attraverso l’indubbio meticciato con il mondo americano. “L’estetica del blues non ha solo valore storico ma anche sociale – scrive Baraka. ­– E deve riguardare il come e il cosa sia l’esistenza nera e il modo in cui si riflette su se stessa”. Estetica che non si arresta ai prodromi della schiavitù, ma s’incrocia e modifica con ciò che incontra via via, rimanendo tuttavia, a suo avviso, una forma peculiare di emozione, un sentimento. Qualcosa che ha da essere studiato non solo nei suoi elementi stilistico-strutturali dunque; e ricordando che “l’estetica blues è solo un aspetto della totalità dell’estetica afroamericana”.

Ora, prima ancora di giungere alla dialettica delle influenze reciproche, v’è un’anima del continente nero da cui origina tutto. Questa “natura” africana per Baraka è espressione di una visione animistica, consiste in un “trasporto, un possesso dell’anima” grazie al quale l’individuo ricompone il se stesso più profondo con il ‘Tutto’”; le stesse poliritmie sarebbero l’ovvia conseguenza di un’apertura di quelle genti verso l’altro. Per tutto questo, ci troveremmo davanti a un linguaggio, una forma dello stile che traducono senza mediazione un sentimento per sua natura “politico”. La libertà espressiva di questa musica, dai suoi albori, non farebbe che rappresentare un anelito alla libertà tout court. Da una parte insomma nell’intellettuale LeRoi Jones scorgiamo le tracce di una persuasa equivalenza ideologia=linguaggio che ha fatto la fortuna di certe poetiche vicine al marxismo, dall’altra le note che abbiamo appuntato precedentemente parrebbero la spia di una rivelazione estatica del nero che si àncora alle proprie radici mitiche. La contraddizione forse è solo negli occhi di chi guarda, i nostri; dagli schiavi “proprietà” dei bianchi colonizzatori alle brass band di New Orleans, dagli spirituals allo swinging, da Bessie Smith al be-bop di Parker, e dall’impatto di musicisti diversi con contesti sociali sempre differenti, quello che è in gioco per Baraka in questa storia è sempre un dissidio, un conflitto fecondo senza il quale non esiste né pensiero né forma ma solo una logica del dominio. Comunque la si pensi, non fosse che per la straordinaria ricchezza dei riferimenti storici, dell’analisi dei moduli ritmico-stilistici a confronto con il mondo bianco specie nei primi anni del ‘900, questo è un libro che non può mancare in una bibliografia essenziale della storia moderna, non soltanto musicale.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Amiri Baraka (LeRoi Jones) poeta, intellettuale e militante afroamericano, è nato nel 1934 a Newark, New Jersey. Nel 1961 ha pubblicato Preface to a Twenty Volume Suicide Note e successivamente con la sua casa editrice ha fatto conoscere Allen Ginsberg, Jack Kerouac e altri autori della Beat Generation. Vicino ai movimenti neri e al marxismo, ha scritto anche: Four Black Revolutionary Plays (1969), The Autobiography of LeRoi Jones (1984), The Music: Reflections on Jazz and Blues (1987), Somebody Blew Up America (2001).

IL POPOLO DEL BLUES ShaKe edizioni 2011 pagine 218 Euro 16,00 Edizione Illustrata 

Approfondimento in rete http://www.amiribaraka.com/

http://italia.allaboutjazz.com/italy/articles/arti1005_005_it.htm

Michele Lupo

http://www.lankelot.eu/letteratura/baraka-amiri-leroi-jones-il-popolo-del-blues.html




Il blues ; Mance Lipscomb | controappuntoblog.org

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