XIII. Dialettica. Negazione della negazione

XIII. Dialettica. Negazione della negazione

Che cos’è dunque la negazione della negazione? Una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d’azione e un’importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto, si afferma nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia, e alla quale, malgrado ogni lotta e ogni resistenza, anche Dühring, senza saperlo, è obbligato, in qualche modo, ad obbedire. È evidente per se stesso che, riguardo al particolare processo di sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione. Infatti, se affermassi il contrario, poiché il calcolo integrale egualmente è negazione della negazione, affermerei solo l’assurdo che il processo biologico di una spiga di orzo sia calcolo integrale, o anche, ahimè!, socialismo. Ma questo è ciò che i metafisici continuano, nelle scuole, ad attribuire alla dialettica. Se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente trascuro la particolarità di ogni singolo processo speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero.

“Questo schizzo storico” (della genesi della cosiddetta accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra) “è tutt’ora relativamente la cosa migliore del libro di Marx e sarebbe ancora migliore se non si fosse puntellato per andare avanti, oltre che sulle grucce della dottrina, su quelle della dialettica. Cioè, in mancanza di qualche mezzo migliore e più chiaro, qui la hegeliana negazione della negazione deve far da levatrice ed estrarre l’avvenire dal grembo del passato. La soppressione della proprietà individuale, compiutasi nella maniera già detta sin dal XVI secolo, è la prima negazione. Essa sarà seguita da una seconda, caratterizzata come negazione della negazione e perciò come ristabilimento della “proprietà individuale”, ma in forma più elevata, basata sul possesso comune del suolo e degli strumenti di lavoro. Se questa nuova “proprietà individuale” è stata ad un tempo chiamata da Marx anche “proprietà sociale”, qui si palesa la superiore unità di Hegel, nel quale la contraddizione deve essere superata, ossia secondo un gioco di parole, deve essere insieme sorpassata e conservata (…) Conseguentemente l’espropriazione degli espropriatori è per così dire il prodotto automatico della realtà storica nelle sue relazioni materiali esterne (…) Difficilmente un uomo giudizioso si lascerebbe convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale sul credito dato alle fandonie di Hegel, una delle quali è la negazione della negazione (…) L’ibrida formula nebulosa delle idee di Marx non sorprenderà, del resto, chi sappia che cosa si può combinare o piuttosto che stravaganze debbono venir fuori prendendo come base scientifica la dialettica di Hegel. Per chi sia ignaro di questi artifici bisogna notare espressamente che la prima negazione hegeliana è il concetto catechistico di peccato originale, e la seconda è quella di una superiore unità che porta alla redenzione. Ora, non è effettivamente possibile fondare la logica dei fatti su questo giochetto analogico preso a prestito dal campo della religione (…) Marx resta tranquillamente nel mondo nebuloso della sua proprietà ad un tempo individuale e sociale e lascia ai suoi adepti di risolvere questo profondo enigma dialettico.”

Quindi Marx non può dimostrare la necessità della rivoluzione sociale, l’instaurazione della società fondata sulla proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione creati dal lavoro, altrimenti che invocando la hegeliana negazione della negazione, e, basando la sua teoria socialista su questo giochetto analogico preso a prestito dalla religione, arriva al risultato che nella società dell’avvenire dominerà una proprietà ad un tempo individuale e sociale, intesa come unità superiore hegeliana data dal superamento della contraddizione.

Lasciamo da parte per intanto la negazione della negazione e guardiamo alla “proprietà ad un tempo individuale e sociale”. Essa viene caratterizzata da Dühring come un “mondo nebuloso” e, cosa meravigliosa, in ciò egli ha veramente ragione. Ma disgraziatamente chi si trova in questo mondo nebuloso non è Marx, ma invece ancora una volta proprio Dühring. Invero, come già sopra, grazie alla sua destrezza nel metodo hegeliano del “delirare”, poteva stabilire senza fatica che cosa dovessero contenere i volumi ancora incompiuti del “Capitale”, così anche qui senza fatica può rettificare hegelianamente Marx, attribuendogli quella unità superiore della unità di cui Marx non ha detto neppure una parola.

In Marx leggiamo:

“È la negazione della negazione. Questa ristabilisce la proprietà individuale, ma fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione di lavoratori liberi e sul loro possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso. La trasformazione della proprietà privata sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della società capitalistica, che già poggia di fatto sulla direzione sociale della produzione, in proprietà sociale” [64].

Questo è tutto. Lo stato di cose instaurato mediante l’espropriazione degli espropriatori viene quindi caratterizzato come il ristabilimento della proprietà individuale ma sulla base della proprietà sociale della terra e dei mezzi di produzione creati dal lavoro stesso. Ciò significa che chiunque capisca il senso delle parole, che la proprietà sociale si estende alla terra e agli altri mezzi di produzione e la proprietà individuale ai prodotti, e quindi agli oggetti dell’uso. E perché la cosa sia comprensibile anche ad un bambino di sei anni, Marx suppone, a pag. 56, una

“associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale,”

quindi una società organizzata socialisticamente, e dice:

“Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi[65].

E questa cosa è davvero abbastanza chiara anche per la testa hegelianizzata di Dühring.

La proprietà ad un tempo individuale e sociale, questa ibrida forma confusa, questa insulsaggine che risulta necessariamente dalla dialettica di Hegel, questo mondo nebuloso, questo profondo enigma dialettico che Marx lascia da risolvere ai suoi adepti, ancora una volta è una libera creazione ed una libera immaginazione di Dühring. Marx, come preteso hegeliano, è tenuto a fornirci, come risultato della negazione della negazione, una giusta unità superiore, e poiché non lo fa secondo i gusti di Dühring, costui ricade necessariamente ancora una volta nel suo stile più elevato e più nobile, e attribuisce a Marx, nell’interesse della più piena verità, cose che sono prodotti assolutamente esclusivi e propri di Dühring. Un uomo che è così completamente incapace di citare correttamente, sia pure in via eccezionale, ha davvero di che indignarsi moralmente di fronte all'”erudizione cinese” di altra gente che, senza eccezioni, cita correttamente, ma proprio per questo “mal nasconde la mancanza di una conoscenza che penetri nel complesso delle idee degli scrittori che di volta in volta cita”. Dühring ha ragione. Evviva la maniera di delineare la storia in grande stile!

Sinora siamo partiti dal presupposto che l’ostinazione di Dühring nel falsare le citazioni sia almeno in buona fede e poggi o su una totale incapacità di intendere che gli è propria o, invece, su un’abitudine di citare a memoria, abitudine peculiare alla maniera di delineare la storia in grande stile, e che altrimenti potrebbe tacciarsi di sciatteria. Ma sembra che siamo arrivati ad un punto in cui, anche per Dühring, la quantità si converte in qualità. Infatti, se consideriamo in primo luogo che il passo di Marx è in sé completamente chiaro e che per giunta è anche completato da un altro passo che assolutamente non lascia adito a nessun fraintendimento; in secondo luogo che questa mostruosità di “una proprietà al contempo individuale e sociale”, Dühring non l’aveva scoperta né nella sopraccitata critica al “Capitale” contenuta negli “Ergänzungsblätter”, né in quella contenuta nella prima edizione della “Storia critica”, ma la scopre solo nella seconda edizione e quindi in terza lettura; e, infine, che in questa seconda edizione, rielaborata socialisticamente, Dühring fu costretto a far dire a Marx le più grandi idiozie possibili sulla futura organizzazione della società, per poter invece tanto più trionfalmente presentare, così come fa, “la comunità economica che io ho tratteggiato nei suoi aspetti economici e giuridici nel mio “Corso””; se consideriamo tutto questo, siamo costretti a concludere che qui Dühring ci spinge ad ammettere che egli abbia apportato premeditatamente alle idee di Marx un'”amplificazione benefica”: benefica per Dühring.

Ma quale funzione ha in Marx la negazione della negazione? A p. 791 e sgg. Egli riassume i risultati conclusivi dell’indagine, compiuta nelle cinquanta pagine che precedono, sulla cosiddetta accumulazione originaria del capitale [66]. Prima dell’era capitalistica esistevano, almeno in Inghilterra, piccole industrie fondate sulla proprietà privata che il lavoratore aveva dei suoi mezzi di produzione. La cosiddetta accumulazione originaria del capitale qui è consistita nell’espropriazione di questi produttori immediati, cioè nella dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro proprio. Questo fenomeno fu possibile perché la piccola industria, di cui abbiamo parlato sopra, è compatibile solo con limiti naturali angusti della produzione e della società e perciò ad un certo livello crea i mezzi materiali della sua propria distruzione. Questa distruzione, la trasformazione dei mezzi di produzione individuali e frazionati in mezzi di produzione socialmente concentrati, forma la preistoria del capitale. Appena gli operai si sono trasformati in proletari, i loro mezzi di lavoro si sono trasformati in capitale, appena il modo di produzione capitalistico comincia a reggersi in piedi, l’ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore trasformazione della terra e degli altri mezzi di produzione, e perciò l’ulteriore espropriazione dei proprietari privati, prendono una forma nuova.

“Ora, quello che deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente che lavora per sé, ma il capitalista che sfrutta molti operai. Questa espropriazione si compie attraverso il giuoco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico collettivo della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale, combinato. Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più si ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui divengono incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.” [67]

Ed ora io chiedo al lettore: dove sono gli intrecci dialettici aggrovigliati e gli arabeschi di idee, quel garbuglio mal concepito di idee per cui infine tutto è uno, dove i miracoli dialettici ad uso dei fedeli, dove il gran mistero della dialettica, dove gli aggrovigliamenti conformi alla dottrina hegeliana del logos, senza i quali Marx, secondo Dühring, è incapace di compiere il suo sviluppo? Marx dimostra semplicemente dal punto di vista storico, e brevemente riassume, questo concetto: che proprio come una volta la piccola industria creò necessariamente col suo proprio sviluppo le condizioni della sua distruzione, cioè dell’espropriazione dei piccoli proprietari, così ora il modo di produzione capitalistico ha creato del pari le stesse condizioni materiali che necessariamente lo distruggono. È questo un processo storico, e se ad un tempo è un processo dialettico, la colpa non è di Marx, per quanto ciò possa essere spiacevole per Dühring.

Solo ora, dopo aver portato a termine la sua dimostrazione storico-economica, Marx prosegue:

“Il modo di produzione e di appropriazione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, è la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione” ecc. (come si è citato sopra) [68].

Marx non pensa dunque, caratterizzando questo processo come negazione della negazione, di dimostrare per questa via che esso è un processo storicamente necessario. Al contrario: dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata. Questo è tutto. Ancora una volta è quindi una pura insinuazione di Dühring la sua affermazione che la negazione della negazione debba qui far da levatrice, estraendo l’avvenire dal grembo del passato, o che Marx esiga che ci si debba, sul credito accordato alla negazione della negazione, lasciar convincere della necessità della proprietà comune del suolo e del capitale (la quale è proprio una contraddizione dühringiana in carne ed ossa).

È già mancare totalmente di ogni conoscenza della natura della dialettica, il ritenerla, come fa Dühring, uno strumento puramente dimostrativo, come su per giù si può considerare in un campo più limitato la logica formale o la matematica elementare. La stessa logica formale è anzitutto un metodo per scoprire nuovi risultati, per progredire dal noto all’ignoto, e la stessa cosa, solo in un senso molto più eminente, è la dialettica, la quale, poiché infrange l’angusto orizzonte della logica formale, contiene il germe di una comprensione del mondo più comprensiva. La stessa situazione si ha nella matematica. La matematica elementare, la matematica delle grandezze costanti, si muove, almeno nel suo complesso, entro i limiti della logica formale; la matematica delle grandezze variabili, di cui il calcolo infinitesimale costituisce la parte più importante, essenzialmente non è altro che l’applicazione delle leggi della dialettica ai rapporti matematici. Qui l’aspetto puramente dimostrativo passa decisamente in secondo piano di fronte alle molteplici applicazioni del metodo a nuovi campi d’indagine. Ma quasi tutte le dimostrazioni della matematica superiore, a partire dalle prime dimostrazioni del calcolo differenziale, considerate rigorosamente, dal punto di vista della matematica elementare, sono false. E non può essere diversamente se, come qui avviene, si vogliono dimostrare per mezzo della logica formale i risultati raggiunti in campo dialettico. Voler dimostrare qualche cosa per mezzo della dialettica, per un crasso metafisico quale Dühring, sarebbe sprecare la medesima fatica che sprecarono Leibniz e i suoi discepoli per dimostrare ai matematici del tempo i principi del calcolo infinitesimale. Il differenziale causava loro le stesse convulsioni che causa a Dühring la negazione della negazione, nella quale del resto, come vedremo, esso ha anche la sua parte. Questi signori infine, se nel frattempo non erano ancora morti, cedettero borbottando, non perché fossero convinti, ma perché i risultati che si ottenevano erano sempre giusti. Dühring, come egli stesso dice, è solo sui quaranta, e se raggiungerà la tarda età che gli auguriamo, potrà anche lui fare la stessa esperienza.

Ma che cosa è dunque questa spaventosa negazione della negazione che rende così amara la vita di Dühring, e che rappresenta per lui lo stesso delitto imperdonabile rappresentato nel cristianesimo dal peccato contro lo spirito santo? Un processo semplicissimo che si compie dappertutto e giornalmente, che ogni bambino può comprendere, solo che lo si liberi dal gran mistero sotto il quale lo nascondeva la vecchia filosofia idealistica e sotto il quale è interesse di metafisici poco agguerriti dello stampo di Dühring continuare a nasconderlo. Prendiamo un chicco di orzo. Miliardi di tali chicchi di orzo vengono macinati, bolliti e usati per fare la birra, e quindi consumati. Ma se un tale chicco di orzo trova le condizioni per esso normali, se cade su un terreno favorevole, sotto l’influsso del calore e dell’umidità subisce un’alterazione specifica, cioè germina, il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta che esso ha generata, la negazione del chicco. Ma quale è il corso normale della vita di questa pianta? Essa cresce, fiorisce, viene fecondata e infine a sua volta produce dei chicchi di orzo e non appena questi sono maturati, lo stelo muore, viene a sua volta negato. Come risultato di questa negazione della negazione abbiamo di nuovo l’originario chicco di orzo, non però semplice, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta. Le specie di cereali si modificano con straordinaria lentezza e così l’orzo, quale è oggi, è approssimativamente simile a quello di cent’anni fa. Ma prendiamo invece una pianta ornamentale che può facilmente essere modificata, per es. una dalia o un’orchidea; trattiamone il seme e la pianta che da essa è nata secondo i dettami della floricoltura e otterremo, come risultato di questa negazione della negazione, non solo una maggior quantità di semi, ma anche un seme migliorato qualitativamente, che produce fiori più belli, ed ogni ripetizione di questo processo, ogni nuova negazione della negazione fa progredire questo perfezionamento. Questo processo si compie nella massima parte degli insetti, per es. nelle farfalle, in un modo analogo a quello in cui si compie nel chicco di orzo. Gli insetti nascono dall’uovo mediante negazione dell’uovo, compiono la loro metamorfosi fino a raggiungere la maturità sessuale, si accoppiano e vengono ancora una volta negati, poiché muoiono appena si è compiuto il processo di generazione e la femmina ha deposto le sue numerose uova. Che in altre piante e in altri animali il fenomeno non si compia con questa semplicità, che essi, prima di morire, producano semi, uova o piccoli non una sola, ma più volte, è cosa che qui non ha importanza per noi; qui dobbiamo dimostrare solamente che nei due regni del mondo organico la negazione della negazione ha realmente luogo. Inoltre tutta la geologia è una serie di negazioni negate, una serie di successivi sgretolamenti di vecchie formazioni rocciose e di stratificazioni di nuove formazioni. In un primo tempo la primitiva crosta terrestre sorta dal raffreddamento della massa fluida sotto l’azione di agenti oceanici, meteorologici e chimico-atmosferici si sgretola e queste masse sgretolate si stratificano sul fondo marino. Sollevamenti locali del fondo marino al di sopra della superficie delle acque espongono di nuovo parti superiori di questa prima stratificazione all’azione della pioggia, del calore variabile a seconda delle stagioni, dell’ossigeno e dell’acido carbonico atmosferici; a queste stesse azioni soggiacciono le masse rocciose che, eruttate dall’interno della terra, si sono fuse aprendosi un varco attraverso i suoi strati e si sono poi raffreddate. Durante milioni di secoli si formano in questo modo strati sempre nuovi, sempre di nuovo vengono in gran parte distrutti e sempre di nuovo impiegati come materiale per la formazione di nuovi strati. Ma si ha un risultato molto positivo: la costruzione di un suolo dove si trovano mescolati i più diversi elementi chimici in uno stato di sgretolamento meccanico che permette la vegetazione più copiosa e svariata.

Altrettanto accade nella matematica. Prendiamo una qualsiasi grandezza algebrica, per es. a. Neghiamola e avremo così –a (meno a), neghiamo questa negazione moltiplicando –a per –a, avremo così +a2, cioè la primitiva grandezza positiva, ma ad un grado più elevato, ossia alla seconda potenza. Anche qui non ha importanza il fatto che possiamo ottenere lo stesso a2 moltiplicando per se stessa la grandezza positiva a. Infatti la negazione negata è così fissa in a2, che tutti i casi a2 ha due radici quadrate, cioè a e –a, e questa impossibilità di negare la negazione negata, la radice negativa contenuta nel quadrato, acquista un significato ancora più tangibile nelle equazioni quadratiche. In modo ancora più convincente si presenta la negazione della negazione nell’analisi superiore, in quelle “somme di grandezze indefinitamente piccole” che lo stesso Dühring dichiara le più alte operazioni della matematica e che in linguaggio ordinario si chiamano calcolo differenziale e integrale. Come si compiono queste specie di calcoli? Io ho, per es., in un problema determinato due grandezze variabili, x e y, delle quali l’una non può variare senza che insieme vari l’altra, in un rapporto determinato dalle circostanze. Io derivo x e y, cioè suppongo che x e y siano così infinitamente piccole che scompaiono di fronte ad una grandezza reale, per piccola che essa sia, e che di x e y non resti che il loro rapporto specifico, senza però nessuna, per così dire delle circostanze materiali, un rapporto quantitativo senza quantità dy/dx, il rapporto delle due derivate di x e di y e dunque = 0/0, ma posto 0/0 come l’espressione di y/x. Che questo rapporto tra due grandezze scompare, la fissazione del momento del loro scomparire, è una contraddizione, è cosa che noto solo di passaggio; ma ci può turbare tanto poco quanto poco in generale ha turbato alla matematica da quasi duecento anni. Che cos’altro ho fatto dunque se non aver negato x e y, ma negato non in modo da non occuparmene più, come nega la metafisica, ma in quella maniera che corrisponde alle circostanze. Invece di x e y io ho, nelle formule o equazioni che mi stanno davanti, la loro negazione, dx e dy. Ora io continuo a calcolare con queste formule, tratto dx e dy come grandezze reali, anche se sottoposte a certe leggi eccezionali, e ad un certo punto nego la negazione, cioè integro la formula differenziale, al posto di dx e di dy, ottengo di nuovo le grandezze reali x e y, ma non mi trovo di nuovo al punto in cui ero al principio: invece ho risolto un problema sul quale la geometria e l’algebra comuni si sarebbero forse invano affaticate.

Non altrimenti accade nella storia. Tutti i popoli civili cominciano con la proprietà comune del suolo. In tutti i popoli che oltrepassano un certo grado primitivo, nel corso dello sviluppo dell’agricoltura, questa proprietà comune del suolo diventa una catena per la produzione. Essa viene soppressa, viene negata, viene trasformata, dopo una serie più o meno lunga di gradi intermedi, in proprietà privata. Ma ad un più elevato grado di sviluppo dell’agricoltura, prodotto dalla stessa proprietà privata del suolo, la proprietà privata diventa, al contrario, una catena per la produzione, caso che si verifica oggi tanto nel piccolo quanto nel grande possesso fondiario. Sorge necessariamente l’esigenza che anch’essa sia negata, riconvertita in bene comune. Ma quest’esigenza non implica il ristabilimento della vecchia proprietà comune primitiva, ma l’instaurazione di una forma molto più elevata, più sviluppata di proprietà comune che ben lungi dal diventare una catena per la produzione, la libererà piuttosto dalle sue pastoie e le permetterà di utilizzare in pieno le moderne scoperte della chimica e le moderne invenzioni della meccanica.

O ancora: la filosofia antica fu un materialismo primitivo, spontaneo. Come tale, essa era incapace di venire in chiaro del rapporto tra pensiero e materia. Ma la necessità di chiarirsi questo rapporto portò ad una dottrina di un’anima separabile dal corpo, quindi all’affermazione dell’immortalità di quest’ultima e finalmente al monoteismo. L’antico materialismo fu dunque negato con l’idealismo. Ma nello sviluppo ulteriore della filosofia anche l’idealismo divenne insostenibile e fu negato col moderno materialismo. Quest’ultimo, la negazione della negazione, non è la semplice restaurazione dell’antico materialismo, ma invece alle durevoli basi di esso aggiunge anche tutto il pensiero contenuto in un bimillenario sviluppo della filosofia e della scienza della natura, nonché il pensiero contenuto in questa stessa storia bimillenaria. Insomma non è più una filosofia, ma una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza della scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia è dunque qui “superata”, cioè “insieme sorpassata e mantenuta”, sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al suo contenuto reale. Perciò, dove Dühring vede solo “giuochi di parole”, si trova, considerando più attentamente le cose, un contenuto reale.

Finalmente, perfino la dottrina egualitaria rousseauiana, di cui la dühringiana è solo una cattiva copia falsificata, non viene alla luce senza che la hegeliana negazione della negazione debba far da levatrice, e per giunta quasi venti anni prima della nascita di Hegel [69]. E ben lontana dal sentirne vergogna, ostenta quasi sfarzosamente nella sua prima presentazione il marchio della sua origine dialettica. Nello stato di natura e di selvatichezza gli uomini erano eguali; e poiché Rousseau vede nel linguaggio già una falsificazione dello stato di natura, ha completamente ragione nell’applicare, in tutta la sua estensione, l’eguaglianza degli animali di una specie determinata anche a questi uomini-animali che di recente Haeckel ha classificato, in via ipotetica, come alalì, cioè privi di linguaggio [70]. Ma questi uomini-animali, eguali tra di loro, avevano una qualità che li rendeva superori agli altri animali: la perfettibilità, l’idoneità ad uno sviluppo ulteriore; e fu questa la causa della disuguaglianza. Nel sorgere della disuguaglianza Rousseau vede dunque un progresso. Ma questo progresso era antagonistico, era ad un tempo un regresso.

“Tutti gli ulteriori progressi” (che oltrepassano lo stato primitivo) “sono stati in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell’individuo, e in effetti verso la decrepitezza della specie (…) La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti la cui invenzione produsse questa grande rivoluzione” (la trasformazione della foresta vergine in terra coltivata, ma anche l’introduzione della miseria e della schiavitù per opera della proprietà). “L’oro e l’argento per il poeta, ma per il filosofo sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e prodotto il genere umano.”

Ogni nuovo progresso della civiltà è ad un tempo un nuovo progresso della disuguaglianza. Tutte le istituzioni che si dà la società nata con la civiltà si mutano nel contrario di quello che era il loro fine primitivo.

“È dunque incontestabile, ed è la massima fondamentale di tutto il diritto politico, che i popoli si son dati dei capi per difendere la propria libertà e non per servirli.”

E tuttavia questi capi diventano necessariamente gli oppressori dei popoli e spingono questa oppressione sino al punto in cui la disuguaglianza, portata al suo culmine, si converte a sua volta nel suo contrario, diventa causa dell’eguaglianza: davanti al despota tutti sono uguali, ossia uguali a zero.

“È qui l’ultimo termine dell’ineguaglianza, è il punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché non sono niente, e (…) i sudditi” (non hanno) “altra legge che la volontà del padrone.”

Ma il despota è padrone solo finché ha la forza, perciò quando

“Lo si può cacciare non può reclamare contro la violenza (…) Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte; tutto avviene in tal modo secondo l’ordine naturale”.

E così la disuguaglianza si muta a sua volta in eguaglianza, non però nell’antica eguaglianza naturale degli uomini primitivi privi di linguaggio, ma in quella più elevata del contratto sociale. Gli oppressori vengono oppressi. È negazione della negazione.

Qui abbiamo dunque, già in Rousseau, non solo un corso di idee che è perfettamente uguale a quello seguito nel “Capitale” di Marx, ma, anche nei particolari, tutta una serie di quegli sviluppi dialettici di cui si serve Marx: processi che per loro natura sono antagonistici, contengono in sé una contraddizione, il convertirsi di un estremo nel suo contrario e finalmente, come nocciolo di tutto, la negazione della negazione. Se dunque Rousseau nel 1754 non poteva ancora parlare il gergo hegeliano, tuttavia, sedici anni prima della nascita di Hegel, era già profondamente corrotto dalla peste hegeliana, dalla dialettica della contraddizione, dalla dottrina del logos, dal neologismo, ecc. E se Dühring, rendendo superficiale la dottrina egualitaria rousseauiana, opera coi suoi vittoriosi due uomini, è anche lui già su quel piano inclinato sul quale scivolerà senza scampo tra le braccia della negazione della negazione. Lo stato di cose in cui fiorisce l’eguaglianza dei due uomini e che è anche rappresentato come uno stato ideale, a p. 271 della “Filosofia” viene designato come “stato primitivo”. Questo stato primitivo, secondo la p. 279, viene però necessariamente soppresso dal “sistema di rapina”: prima negazione. Ma, grazie alla filosofia della realtà, siamo arrivati ora ad abolire il sistema di rapina e ad introdurre al suo posto quella comunità economica, poggiante sull’eguaglianza, che è stata inventata da Dühring: negazione della negazione, eguaglianza ad un grado più elevato. Delizioso spettacolo che allarga beneficamente l’orizzonte, vedere Dühring commettere, con la sua augusta persona, il delitto capitale della negazione della negazione!

Che cos’è dunque la negazione della negazione? Una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d’azione e un’importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto, si afferma nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia, e alla quale, malgrado ogni lotta e ogni resistenza, anche Dühring, senza saperlo, è obbligato, in qualche modo, ad obbedire. È evidente per se stesso che, riguardo al particolare processo di sviluppo che compie, per es., il chicco di orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione. Infatti, se affermassi il contrario, poiché il calcolo integrale egualmente è negazione della negazione, affermerei solo l’assurdo che il processo biologico di una spiga di orzo sia calcolo integrale, o anche, ahimè!, socialismo. Ma questo è ciò che i metafisici continuano, nelle scuole, ad attribuire alla dialettica. Se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente trascuro la particolarità di ogni singolo processo speciale. Ma la dialettica non è niente altro che la scienza delle leggi generali del movimento e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero.

Si può obiettare però che la negazione che qui ha avuto luogo non è una vera negazione: io nego un chicco d’orzo anche macinandolo, un insetto anche calpestandolo, la grandezza positiva a anche cancellandola, ecc. Ovvero, io nego la proposizione “la rosa è una rosa” dicendo “la rosa non è una rosa”; ma che risultato si ha negando di nuovo questa ultima proposizione e dicendo: “ma pure, la rosa è una rosa”? queste obiezioni sono in effetti gli argomenti principali dei metafisici contro la dialettica e sono del tutto degni della loro limitatezza di pensiero. Nella dialettica negare non significa dir di no, o dichiarare che una cosa non è sussistente o comunque distruggerla. Già Spinoza dice: Omnis determinatio est negatio, ogni limitazione o determinazione è ad un tempo una negazione [71]. E inoltre qui il carattere specifico della negazione è determinato in primo luogo dalla natura generale e in secondo luogo dalla natura particolare del processo. Io devo non soltanto negare, ma anche di nuovo sopprimere la negazione. Devo quindi costruire la prima negazione in un modo tale che la seconda resti o diventi possibile. Come? A seconda della natura particolare di ogni singolo caso. Macinando un chicco di orzo, calpestando un insetto, ho certo compiuto il primo atto, ma ho reso impossibile il secondo. Ogni genere di cose ha una sua maniera peculiare di essere negata in modo che ne risulti uno sviluppo, e la stessa cosa si ha per ogni genere di idee e di concetti. Nel calcolo infinitesimale la negazione avviene in un modo diverso che nella costruzione di potenze positive per mezzo di radici negative. È questa una cosa che deve essere appresa come tutte le altre. Con la semplice cognizione che la spiga di orzo e il calcolo infinitesimale sono sottoposti alla negazione della negazione, io non potrò né coltivare con successo dell’orzo, né derivare o integrare, così come non saprò senz’altro suonare il violino con le semplici leggi della determinazione dei toni mediante la dimensione delle corde. Ma è chiaro che da una negazione della negazione che consista nell’occupazione puerile di scrivere e cancellare alternativamente a, o di affermare alternativamente di una rosa che essa è o non è una rosa, non può risultare nient’altro che la stupidità di chi si dà a tali fastidiosi procedimenti. Eppure i metafisici vorrebbero darci a bere che se mai volessimo compiere la negazione della negazione, è questa la maniera giusta.

Quindi ancora una volta non altri che Dühring è quello che ci mistifica, affermando che la negazione della negazione è un giochetto analogico inventato da Hegel, preso a prestito dal campo della religione, fondato sulla storia del peccato originale e della redenzione. Gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere che cosa fosse la dialettica, proprio nello stesso modo che parlavano in prosa molto tempo prima che esistesse la parola prosa [72]. Alla legge della negazione della negazione, che opera inconsciamente nella natura e nella storia, e, sino a quando non venga finalmente riconosciuta, opera inconsciamente anche nella nostra testa, Hegel ha soltanto dato per la prima volta una formulazione netta. E se Dühring vuole anche esercitare la cosa in segreto, ed è solo il nome ciò che non può sopportare, non ha che da trovare un nome migliore. Se invece è proprio la cosa che egli vuol cacciar via dal pensiero, di grazia cominci col cacciarla via dalla natura e dalla storia e inventi una matematica in cui –a × –a non dia +a2 e in cui il derivare e l’integrare siano vietati sotto minaccia di pena.

 

http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1878/antiduhring/1-4.htm

“Gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere cosa fosse la dialettica”

Critique of Hegel’s Philosophy of Right e Ideologia tedesca …

Anti-Dühring Friedrich Engels (1878) | controappuntoblog.org

 

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