Resoconto della manifestazione contro il carcere duro – sito archivio controappunto : note sulla repressione

Resoconto della manifestazione contro il carcere duro

Sabato 25 maggio 2013 a Parma si è tenuto un corteo nazionale contro il carcere, la differenziazione, il 41 bis e l’isolamento, sotto la parola d’ordine di un trattamento umano per i reclusi, organizzato dall’Assemblea Uniti Contro la Repressione. I partecipanti al corteo, realtà anarchiche e che si definiscono – spesso a torto: vedi gli stalinisti – comuniste, erano tra i 300 e 400: ranghi ridotti dato che gli “antagonisti” attesi erano circa un migliaio. Forse dovuto al tempo infelice che ha regnato su tutta la giornata: pioggia e vento freddo. Tutto il mondo parlamentare fino al Popolo Viola hanno biasimato la manifestazione – nonostante anche l’Unione Europea e Amnesty International (refworld.org) abbiano criticato aspramente la legge 41 bis.

L’aspetto rilevante di questa giornata non è stato tanto il contenuto del corteo – sul quale ci esprimeremo in un altro momento – ma bensì il dispiego di forze dell’ordine nel tentativo di arginare e eventualmente sopprimere qualsiasi cosa.

La giunta grillina di Parma, per questa occasione ha istituito uno stato di emergenza surreale, isolando la città dai manifestanti al fine di “prevenire”. Le misure (valide dalle 14 alle 18 prorogabili) sono state: limitazione della circolazione nelle zone limitrofe al percorso della manifestazione, rimozione forzata per le vetture e le biciclette in sosta lungo il percorso, rimozione dei cassonetti lungo il percorso, deviazione delle linee dei trasporti pubblici, chiusura degli esercizi commerciali e degli istituti scolastici.

La stampa locale e, per alcuni casi, nazionale, ha fomentato uno spropositato allarmismo nei confronti di questa manifestazione, “per garantire – a detta del questore – _il loro (nostro) diritto di manifestare le proprie idee e al contempo di preservare l’ordine e le proprietà_”. Gazzetta di Parma e TvParma (di proprietà di Confindustria) hanno dipinto gli attesi manifestanti come se fossero gli Unni. Parmadaily (quotidiano online) ha addirittura titolato “Mafia, manifestazione a Parma contro il 41bis” (parmadaily.it). Altri hanno bollato la manifestazione di essere filobrigatista. Una forte polemica è nata anche dal fatto che il 25 maggio si trova vicino alla ricorrenza della strage di Capaci, usata strumentalmente, va da sé, dai suddetti “media” per buttare fango sulla manifestazione. Inutile sottolineare che, al di là delle differenze, anche profonde, tra i manifestanti, nessuna forze politica presente può essere accusato di collusione, amicizia, simpatia con la mafia, anzi.

Il concentramento sarebbe dovuto essere alle 14 in Barriera Repubblica (p.le Vittorio Emanuele II), una piazza ai margini del centro della città, nella quale attendevano una dozzina di camionette di polizia, carabinieri e guardia di finanza, qualche volante, qualche automobile e un’ambulanza. C’era pure un elicottero della Polizia, che nel corso del tragitto si è dato il cambio con uno dei carabinieri; detto tra parentesi, in un momento in cui le forze dell’ordine lamentano l’impossibilità, a volte, di usare le automobili per il taglio dei fondi e, quindi, alla benzina, per fare muovere le vetture, il carburante i questione potevano anche evitare di buttarlo… Il corteo è partito con due ore di ritardo, alle 16, ha percorso via Emilia Est, poi via Mantova ed è finito sotto le recinzioni del carcere, di fronte alle celle. Il percorso è stato di circa 3,4 km, all’interno di una città fantasma. Il corteo, inutile dirlo, è stato costantemente “recintato” da una presenza massiccia di forze dell’ordine borghese in tenuta antisommossa, tra strade rigorosamente transennate. Il Barilla Center, piccolo centro commerciale con multisala che si affaccia sul percorso del corteo, è stato completamente chiuso da un cordone di uomini in divisa. Un negozio si è barricato dietro una grata con i suoi lavoratori, come perfetta esemplificazione del risultato di questa sceneggiata istituzionale, di come l’allarmismo e la sicurezza portino ad autoincarcerarsi.

A detta della stampa vi è stato un momento di “tensione”, che non è stato tale, quando si è allontanato dei giornalisti che stavano riprendendo e fotografando. Gli unici “danni” sono stati alcune scritte sui muri.

Nel momento in cui il corteo ha raggiunto le finestre delle celle, è stato salutato con forza dai detenuti. Così la manifestazione ha espresso la propria solidarietà battendo sassi contro la recinzione metallica, intonando slogan, fischiando, accendendo fumogeni, botti e fuochi artificiali. Poi, tramite un generatore e un amplificatore, si è cercato di aprire un dialogo con i detenuti, facendo intervenire le voci di alcune organizzazioni.

In un sabato tra cielo grigio e uomini in blu, una manifestazione di solidarietà umana è stata isolata, criminalizzata e biasimata; una giornata, in un certo qual modo, inquietante – indice del clima parmigiano e italiano – ma che non ci stupisce affatto. Se “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” (F. Dostoevskij), la situazione delle carceri italiane è per l’appunto indice del grado di “civilità” della formazione sociale borghese in salsa italica.

Per quanto ci riguarda, abbiamo distribuito la nostra stampa e il volantino – già sul sito. Al di là delle ovvie differenze tra le nostre posizioni con quelle degli organizzatori del corteo e al di là dell’altrettanto ovvia criminalizzazione dello stesso da parte di tutte le forze borghesi, bisogna rilevare che una manifestazione su temi così scabrosi e difficili per la stragrande maggioranza della cosiddetta “opinione pubblica” (proletari compresi), non può essere calata “a freddo” su di una città senza un lavoro preventivo, metodico, di preparazione politica; cosa che, per altro, è stata rilevata anche da una parte degli organizzatori stessi. Inoltre il cosiddetto carcere duro andava meglio contestualizzato nell’ambito di un regime classista e antiproletario, che criminalizza gli immigrati irregolari e reprime col carcere l’uso di droghe (per altro funzionali al sistema) e la reiterazione di piccoli reati, in cui spesso sono costretti ad incorrere proletari e sottoproletari. Per essere più incisiva e comprensibile, la protesta andava allargata oltre il “41 bis”, per denunciare le leggi sull’immigrazione e in generale l’apparato repressivo borghese, che è sempre pronto ad abbattersi con violenza sulle lotte proletarie (come poi emerso anche da alcuni interventi dal microfono durante la manifestazione). D’altra parte, è uno degli aspetti – tra i più deleteri – del movimentismo, quello di procedere “per campagne”, senza inserirle in un coerente, organico e continuativo lavoro politico, a contatto stretto con la classe: in breve, in un lavoro di partito.

Il giorno successivo, domenica 26, e i seguenti, le forze di pubblica sicurezza si compiacevano di avere evitato disordini grazie al massiccio impiego di forze. In sostanza, si è colpevoli fino a prova contraria.

EZ

Sabato, June 1, 2013

http://www.leftcom.org/it/articles/2013-06-01/resoconto-della-manifestazione-contro-il-carcere-duro

NOTE SULLA REPRESSIONE

Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongono (la sottolineatura è di chi scrive) il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da 7 a 15 anni. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro a otto anni”.

Quello che precede non è un estratto da qualche legge speciale repressiva di qualche Paese sudamericano oppresso da qualche giunta militare; è un articolo del nostro codice penale, si tratta dell’ormai tristemente noto art. 270 bis.

Ma andiamo con ordine.

Il nostro ordinamento penale, nel suo assieme, contiene al suo interno tutto un florilegio di norme sostanzialmente repressive dell’opposizione politica e sociale: si tratta dei famigerati “delitti contro la personalità dello stato”, che sono, come specie di reati, i primi in assoluto previsti dal codice penale. Ai fini della comprensione e dello studio dei meccanismi della repressione penale che il sistema opera, in varie fogge e misure a seconda delle epoche, nei confronti di quanti, come prospettiva e pratica politica, non si accontentino di implorare D’Alema, dall’altra parte dello schermo, di dire qualcosa di sinistra, e soprattutto ai fini dell’autotutela dei militanti anticapitalisti ed antimperialisti, ovunque collocati organizzativamente, vi sono talune fattispecie di reato che risultano particolarmente illuminanti.

Tutti coloro che, per l’appunto, non abbiano ancora assunto la televisione, o anche la tastiera di un computer, come terreno privilegiato, se non unico, di lotta politica dovrebbero avere la lucidità, per non dire l’istinto di conservazione, di dare almeno una scorsa ai testi che si stanno per esaminare sommariamente, quantomeno con un’attenzione simile, dato che uguale non potrà esser mai, a quella che si dedica di solito ad una polemica, peraltro fondamentale per le sorti del movimento rivoluzionario internazionale, tra due correnti, pardon, “tendenze”, di partito, o peggio all’interno della stessa “tendenza”, od anche tra un gruppo e l’altro della “sinistra sociale”, o peggio, come sopra, all’interno dello stesso gruppo.

Orbene, un codice penale nato in un sistema fascista, ovviamente, non si poteva permettere il lusso di trascurare le pene per i cervelli che ancora non perdevano il vizio di pensare, e, peggio, di pensare non come il duce, o chi per lui, ed, ancora peggio, di dare degli impulsi di azione, di azione sociale, ai rispettivi corpi in seguito alla predetta elaborazione cerebrale. E difatti il codice penale “Rocco” (com’è noto, dal nome del Ministro di Giustizia dell’epoca) quel lusso non se lo permise; anzi, ai già citati “delitti contro la personalità dello stato”, di quello stato, ossia dello stato fascista, dedicò tutto il titolo primo della sua lunga serie di delitti previsti e puniti.

Come si accennava sopra, qui, per mere ragioni di spazio, si farà cenno, brevemente, solo alle figure più significative (il che vuol dire micidiali) della repressione dei gruppi politici e sociali di opposizione, quando non addirittura del mero dissenso politico anche individuale.

Il primo articolo che è necessario esaminare è quello dedicato alle “associazioni sovversive”, (art. 270). Ed è opportuno ricordarlo per esteso: “Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni. Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni”.

Per capire veramente a fondo le norme contenute in questo articolo, la loro “ratio” come dicono i giuristi veri (ed anche quelli falsi), è utile citare qualche passo della relazione ministeriale al progetto di articolo di legge in esame. “ E’agevole dedurre, dalla prima parte dell’articolo in esame, il riferimento alle associazioni comuniste o bolsceviche, il cui programma è diretto precisamente a stabilire violentemente la dittatura di una classe sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale, ecc… Tanto l’una quanto l’altra categoria di associazioni , essendo dirette a sostituire ai modi attuali di ripartizione della ricchezza quelli che nella dottrina sono definiti comunemente i modi socialisti di tale ripartizione, hanno un obiettivo comune, la distruzione della proprietà individuale, e altresì un metodo comune di lotta, la violenza. Di ambedue codesti elementi comuni tengono conto le citate disposizioni…. La prima parte dell’articolo, facendo menzione degli ordinamenti economici costituiti nello Stato, intende precisamente riferirsi all’istituto della proprietà individuale, il cui ordinamento è bensì giuridico, ma ha contenuto economico.” (Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, p. 52).

Le parole del guardasigilli littorio costituiscono un duro colpo per coloro che affermano, di solito pomposamente, la natura di scienza autonoma, se non proprio superiore, del diritto, nei confronti delle altre scienze sociali, o peggio nei confronti dei poteri sociali costituiti. E, per questo, bisogna veramente esser grati al fascismo ed al suo lessico notoriamente meno inzuccherato e camuffato da quei paludamenti diplomatici e “democratici” propri, di solito, dei “regimi democratici” quando, come sovente accade, fanno qualcosa di poco democratico.

In sostanza, da una relazione di accompagnamento di quel tenore ad una norma dalla formulazione già di per sé inquietantemente limpida nei suoi intenti socialmente e politicamente “bonificatori”, dalla mala pianta della sovversione, ossia di qualsiasi forma di opposizione politica e sociale minimamente organizzata, si possono trarre almeno un paio di spunti di riflessione esegetica. Il primo è più di natura teorica e riguarda la natura e la funzione del diritto penale che vengono propugnate da un testo normativo e da uno esplicativo della fatta di quelli in esame; è un approccio, quello di Rocco, e dei suoi fratelli giuridici e soprattutto politici, che porta alle sue estreme e più bieche conseguenze la teoria c.d. “sanzionatoria” del diritto penale”. Ciò, al di là delle formule esoteriche per addetti ai lavori, veri o sedicenti che siano, altro non vuol dire se non che il diritto penale viene pensato e, soprattutto, praticato come cane da guardia di principi e norme posti in altre branche dell’ordinamento giuridico, in particolare nel diritto civile, il quale ultimo, a sua volta, mutua, in molti casi, i suoi postulati da altre “scienze sociali”, ma soprattutto da rapporti sociali ed economici, in particolare da rapporti di produzione e di distribuzione (“l’istituto della proprietà individuale, il cui ordinamento è bensì giuridico, ma ha contenuto economico”).

Il secondo spunto di riflessione che scaturisce quasi automaticamente dall’esame della norma di cui all’art. 270 c.p., poi, riguarda un profilo più direttamente pratico – applicativo, ossia politico, della medesima; e, quindi, questo aspetto più che gli studiosi del diritto penale dovrebbe interessare chiunque abbia una certa attinenza con teorie politico – culturali che prevedano “la dittatura di una classe sociale sulle altre” e\o la sovversione degli “ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato”. Ed ovviamente la situazione non ne risulta affatto alleggerita per tutti coloro che non si limitino a studiare, o a fare riferimento nel foro interno, a quelle teorie così esecrabili, ma addirittura ispirino a quegli assunti una militanza politica organizzata.

La questione interpretativamente, il che vuol dire politicamente, fondamentale ruota attorno all’avverbio “violentemente” previsto dalla norma in questione; perché escludere a priori, in una prospettiva certo non ottimistica dell’evoluzione della situazione politica, sociale e culturale del paese, e, dunque, giudiziaria, ma forse neppure particolarmente orwelliana, la possibilità che un’azione di lotta dura, anche se sostanzialmente pacifica, come un picchettaggio durante uno sciopero piuttosto che la disobbedienza a provvedimenti normativi ed amministrativi platealmente liberticidi (come ciò che sta accadendo oggi con i vari bandi di imposizione di stato d’assedio per Genova), vengano qualificati “violenza” ai fini dell’applicabilità della norma contenuta nell’art. 270, con la conseguente possibilità, per non dire quasi certezza, che i militanti e soprattutto i dirigenti di un’organizzazione, di un gruppo politico che abbiano un programma rivoluzionario e che prevedano il ricorso a forme di lotta come quelle citate sopra si vedano piombare tra capo e collo un’accusa di associazione sovversiva?

Si tenga presente, scusandosi per le ripetute “divagazioni” strettamente giuridiche, ma si reputano fondamentali ai fini della comprensione della sostanza politica del discorso, che per una parte della dottrina e della giurisprudenza il concetto di violenza rilevante ai fini dell’attivazione della norma in esame può anche prescindere dalla forza fisica e fare leva anche solo su una indistinta “coazione psichica”, che, nella fumosità della formulazione, come concetto sembra tagliato su misura per i picchettaggi durante gli scioperi.

Già da queste brevi, e fatalmente sommarie, note sull’art. 270 c.p., norma certamente significativa in ambito di normazione repressiva ma, ahimè, non “la più significativa”, come si vedrà, si spera di aver dato ai compagni ed ai militanti quantomeno il polso della situazione normativa e giudiziaria del paese, presente ma soprattutto futura, in materia di rischi concreti per la propria libertà e per la verginità del proprio certificato del casellario giudiziale, rischi che possono derivare ai medesimi compagni, a noi tutti, praticamente solo dalla propria militanza anticapitalista ed antimperialista.

Ma quella di cui all’art. 270 non è l’unica norma del codice penale sostanzialmente finalizzata a reprimere l’opposizione politica e sociale, per non dire, come già ricordato, anche il mero dissenso minimamente organizzato.

Basterà ricordare, anche qui a livello puramente emblematico di tutto un tessuto normativo ancora saldamente in vigore, solo un paio delle previsioni incriminatici più “creative”, tra quelle coniate dal fecondo legislatore fascista nel 1930: la norma in materia di “associazioni antinazionali”, a tenore della quale “chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente (l’art. 270 bis, sul quale si dirà qualcosa fra poco), nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongano di svolgere o che svolgano un’attività diretta a distruggere o deprimere il sentimento nazionale è punito con la reclusione da uno a tre anni.” (art. 271 c.p.). Oppure la norma che prevede la punizione della “propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale”, per la quale “chiunque nel territorio dello Stato fa propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura di una classe sociale sulle altre (ci risiamo), o per la soppressione violenta di una classe sociale o, comunque, per il sovvertimento violento degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero fa propaganda per la distruzione di ogni ordinamento politico e giuridico della società, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Alle stesse pene soggiace chi fa apologia dei fatti preveduti dalle disposizioni precedenti.” (art. 272 c.p.)

Come risulterà evidente anche a persone non particolarmente versate in argomenti penalistici, in quest’ultimo caso, contrariamente alle norme sommariamente esaminate sopra, per essere perseguiti ai sensi dell’art. 272 non è necessario aver costituito o diretto o anche solo partecipato ad un’associazione, ad un gruppo; basta “fare propaganda” e sono pronti cinque anni di galera per rieducare il reo. Ed anche qui si reputa utile, esclusivamente ai fini della più piena comprensione del pericolo da parte del maggior numero di compagni e di militanti, ricordare che le Sezioni Unite della Cassazione sono giunte addirittura a sostenere che per aversi apologia è sufficiente la formulazione di un discorso favorevole rispetto ad un fatto, non essendo necessaria la sua esaltazione. Quanto tutto ciò possa risultare concretamente armonizzabile, in molti casi concreti ed in determinate epoche storiche contrassegnate da fregole per non dire isterie emergenziali, con il principio di cui all’art. 21 Cost. in materia di diritto di manifestazione del proprio pensiero lo si lascia immaginare a chi legge queste modeste note.

Questo è un sommario estratto del quadro meramente codicistico, ossia creato dal legislatore fascista nel 1930, delle norme punitive dei cosiddetti “delitti contro la personalità dello stato”, ossia dei reati “politici”.

In questo rigoglioso giardino della repressione politica, negli anni 70 furono piantati numerosi, nuovi, originali e, soprattutto, fecondissimi alberi da frutto: la legge 18 aprile 1975 n. 110 in materia di armi che prevede come armi da guerra, tra le altre, “le bottiglie e gli involucri esplosivi o incendiari” (praticamente le molotov come i proiettili all’uranio impoverito); la legge 22 maggio 1975 n. 152, la cosiddetta “legge Reale”, una sorta di madre di tutte le leggi speciali, istitutiva, tra le altre perle, del fermo di polizia; e, per venire direttamente al cuore della questione, il d.l. 625 del 1979 convertito nella legge n. 15 del 1980, il cosiddetto, tristemente noto, “decreto Cossiga”.

Quest’ultimo provvedimento deve la sua meritatissima fama all’introduzione nel nostro ordinamento di due autentiche perle di civiltà giuridica: la prima fu la previsione del cosiddetto “dolo specifico d’eversione”, sintetizzato nell’art. 1 del decreto: “Per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con la pena diversa dall’ergastolo, la pena è sempre aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato.” Questa formulazione è talmente brutalmente cristallina nella sua logica ispiratrice discriminatoria e nella sua finalità perseguita di repressione politica che non necessità di una sola riga di spiegazione.

La seconda perla è costituita dalla norma citata per esteso all’inizio di questa narrativa, l’art. 270 bis c.p. rubricato “associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”, e introdotto nel codice penale, per l’appunto, introdotta dal “decreto Cossiga”.

Per provare anche in questo caso a dare con parole povere e brevi il senso metagiuridico, cioè politico, della questione è opportuno ricorrere nuovamente ad una sentenza della Cassazione sull’art. 270 bis e soprattutto alle possibili conseguenze pratico – applicative della sentenza medesima. La Cass. ha, in sostanza, evidenziato che il fine di eversione del cosiddetto ordine democratico che connoterebbe un’associazione politica “può ben essere desunto dalla convergenza di vari elementi, quali la personalità degli associati con la loro qualificazione ideologica, la disponibilità di appartamenti destinati alle unioni clandestine, il possesso di armi occultate in detti appartamenti, il rinvenimento di documenti falsi o di altri arnesi o strumenti sintomatici di attività illegali, la detenzione di carte e stampati e scritti vari, a contenuto chiaramente sovversivo, destinati all’utilizzo ed alla diffusione, la disponibilità di somme non giustificate e da qualunque altro elemento logicamente utilizzabile, per una diagnosi tecnico – giuridica del tipo indicato” (Cass. 14\2\1985; e Cass. 4\11\1987, Sez. I).

Ora, a tacere, per ovvie ragioni di sintesi, di tutta un’altra serie di considerazioni nel merito della su citata elencazione di “sintomi di eversione” formulata dalla Cassazione, emerge ineludibilmente dalla medesima lista una questione tipicamente “interpretativa” che però, manco a dirlo, può celare una sostanza politico – applicativa assolutamente devastante per le sorti della libertà di tanti militanti anticapitalisti: perché sia imputabile e, soprattutto, condannabile una persona per “associazione con finalità di terrorismo e di eversione”, gli elementi emblematici enucleati dalla Cassazione debbono necessariamente essere tra loro in concorrenza o possono anche trovarsi in alternativa? Ancora più semplicemente, perché un compagno possa esser condannato a quindici anni di galera, è almeno necessario che egli si sia venuto a trovare (o che lo abbiano fatto trovare, ma questo è un altro, lungo discorso) in tutte le condizioni enunciate dalla Cassazione come “indicative di sovversione”, o può addirittura esser sufficiente anche che si sia venuto a trovare solo in alcune di quelle?

La questione, come certamente intuiranno tutti i compagni ed i militanti, è rivestita di valenza tutt’altro che meramente dommatico – speculativa. In sostanza, se la risposta “giudiziaria” alla questione medesima fosse tra le seconde paventate nei due periodi precedenti, se cioè fosse quella che non sarebbe fuori luogo definire la più forcaiola, allora ci sarebbe da stare pochissimo allegri. Perché in quel caso ognuno di noi, dalla “accertata qualificazione ideologica”, che avesse la disponibilità di un buco di appartamento “destinato alle unioni clandestine”, ossia potenzialmente anche alle semplici riunioni politiche, che in quell’appartamento tenesse “carte e stampati e scritti vari, a contenuto chiaramente sovversivo”, ossia un volantino (orrore!) di denuncia dei padroni e del sistema capitalistico, e a cui carico fosse trovato “qualunque altro elemento logicamente utilizzabile, per una diagnosi tecnico – giuridica del tipo indicato”, ebbene ognuno di noi che dovesse sciaguratamente venire a trovarsi in quelle condizioni soggettive potrebbe potenzialmente finire nella rete dell’art. 270 bis.

In pratica, l’art. 270 bis, simbolico e sintetico, come si è cercato sinora di spiegare, di un ben più ampio e capillare reticolato normativo di chiara matrice e funzione politico – repressiva, nella più ottimistica e riduttiva delle interpretazioni, è una sorta di cambiale in bianco che ognuno di noi che, per l’appunto, non si rassegni all’idea di avere “un orizzonte che si fermi al tetto”, per dirla con Claudio Lolli, firma a lorsignori con il semplice inizio della propria militanza antagonista; cambiale che essi potranno mettere all’incasso quando meglio aggraderà loro. Nella più cruda, ma anche qui, ahimè, decisamente poco surreale, delle interpretazioni, poi, quella norma costituisce una sorta di mina antiuomo, ovviamente uomo militante, che è stata buttata sul percorso di militanza e di lotta di ognuno di noi; e, che, in quanto tale può esplodere in qualsiasi momento indipendentemente dal volere e dall’azione di ognuno di noi.

Acquisire la consapevolezza che questi solo apparentemente sono scenari apocalittici e che, invece, costituiscono e non da oggi dati giuridici e, dunque, politici con i quali il movimento potrebbe, suo malgrado, esser costretto a confrontarsi ben presto, già potrebbe significare, per i compagni ed i militanti, evitare di farsi prendere completamente alla sprovvista quando dovessero iniziare a piovere le pietre degli avvisi di garanzia, se non direttamente delle ordinanze di custodia cautelare, e, dunque, provare ad organizzare un minimo di difesa e di resistenza, politica e giuridica.

Ma, come chiunque può ricavare, l’unico serio tentativo di resistenza, se non proprio di contrattacco, che noi potremmo o, comunque, dovremmo provare a metter in atto, da subito, dovrebbe essere una campagna tesa a rimuoverle del tutto queste mine antiuomo dal percorso di lotte e di solidarietà che, com’è negli auspici di tutti i democratici e di tutti gli uomini di buona volontà, la parte migliore di una nuova generazione, nuovamente e faticosamente, sta iniziando; una campagna, cioè, tesa ad espungere la più parte possibile della legislazione dell’emergenza che ancora inquina non solo il nostro ordinamento penale, ma lo stesso complessivo clima giuridico, politico e culturale del paese; com’è, peraltro, ontologicamente nella stessa natura delle leggi eccezionali.

Avviare una campagna nazionale del movimento, o quanto meno della maggior e miglior parte possibile di quest’ultimo, unitaria, coesa, lucida analiticamente e radicale programmaticamente (se radicalità vuol dire aspirare alla rimozione di un’ingiustizia e di un’oppressione, una delle tante, fatta legge) che chieda l’abolizione della legislazione d’emergenza; e che a questo fine incalzi tutte le forze organizzate, soprattutto se presenti in parlamento, delle varie sinistre. Che produca materiale di controinformazione sulle conseguenze abiette che la stessa legislazione ha prodotto in più di vent’anni sulla pelle di tanti esponenti della parte più nobile delle giovani generazioni del dopoguerra; che provi a dare almeno voce e volto a tutti i duecentosessanta compagni che ancora stanno marcendo in galera per “reati di terrorismo”; che non giri la testa dall’altra parte, per squallidi calcoli elettoralistici, davanti allle nuove iniziative repressive, mosse da finalità reali inconfessabili, contro “i nuovi terroristi”, ossia, contro persone colpevoli sostanzialmente solo di chiamarsi comunisti, di rifarsi all’Urss, e, soprattutto, di esser debolissimi politicamente ed isolati socialmente.

Questo, oltre che adempiere un inderogabile dovere morale nostro, può costituire, forse, un modo per provare a dare al nuovo movimento una coscienza di sé e del suo avversario; una griglia minima di obiettivi politici, a medio, se non proprio a breve termine ed unificanti, che, se perseguiti lucidamente, possano servire a far ricordare a tanti giovani compagni che la lotta paga. E solo il cielo dei militanti antagonisti sa quanto avrà bisogno di qualche risultato significativo, transitorio si sarebbe detto una volta, per evitare di implodere subito, questo nuovo movimento; a meno di non ritenere risultati le mere vetrine rotte del MC Donald.

Sul movimento, su tutti noi, come si accennava prima, potrebbero riprendere a piovere pietre, con maggiore violenza di oggi; che almeno non crediamo di poterci riparare aprendo un ombrello.

Stefano Palmisano

Fasano, 16\6\2001

http://www.controappunto.org/carcereerepressione/NOTE%20SULLA%20REPRESSIONE.htm

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