J.G. Ballard – Extreme Metaphors

Un anziano pilota d’aerei in pensione viene ucciso da un cecchino nel Metro-Centre, un centro commerciale sull’autostrada che collega Londra all’aeroporto di Heathrow. Il suo unico figlio, Richard Pearson, in rotta col padre da anni, giunge sul posto con l’intenzione di provvedere ai funerali e tornarsene a casa. Ma presto si accorge che la ricostruzione ufficiale del delitto non sta in piedi, e che a Brooklands – l’anomima cittadina che specchiandosi nel centro commerciale tenta di darsi un’allucinata identità – si vanno diffondendo nuove e misteriose forme di violenza collettiva. Decide allora di restare, o piuttosto vi è indotto da una fascinazione di cui non si rende conto, e indagando sulla morte del padre scopre che un Nuovo Ordine, basato sull’intolleranza e la violenza contro chi non partecipa ai riti consumistici o li sabota, si sta a poco a poco gonfiando all’interno del vecchio come un tumore…

  I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione.

  (Cap. 1, La croce di San Giorgio, incipit)

  In un luogo come quello, una stazione di servizio su una strada a scorrimento veloce esprimeva un senso di comunità più profondo di quello di una chiesa di qualsivoglia confessione, una maggiore consapevolezza di una cultura condivisa rispetto a quella che può comunicare una biblioteca o una galleria municipale.

  (Cap. 1, pag. 11)

  “Una sommossa?” Mi fece cenno di seguirla giù per le scale fuori dalla mensa. “Signor Pearson, nel Surrey non ci sono sommosse. La gente è molto più calma, molto più pericolosa…”

  (Cap. 3, La sommossa, pag. 30)

  “Si guardi attorno, signor Pearson. Abbiamo a che fare con un nuovo esempio di uomo e di donna: occhi stretti, passivi, stringono in mano le loro carte di credito dei grandi magazzini… Vogliono essere presi in giro, vogliono essere convinti a comprare delle emerite schifezze. La loro istruzione si basa sugli spot televisivi. Sanno che le uniche cose che valgono sono quelle che possono mettere nella busta della spesa. Questa è una zona infestata, signor Pearson, e la peste si chiama consumismo.”

  (Cap. 4, Il movimento di resistenza, pag. 37)

  Come tutti i grandi centri commerciali, il Metro-Centre soffocava l’inquietudine, neutralizzava la minaccia che esso stesso rappresentava e aveva un effetto calmante sulle persone sospettose… Entrando in quegli enormi luoghi di culto, tornavamo indietro nel tempo, diventavamo come bambini che vanno per la prima volta a casa di un nuovo compagno di scuola, una casa che inizialmente sembrava proibita. Ben presto, però, avremmo visto una madre sconosciuta ma sorridente che avrebbe messo a suo agio anche il bambino più nervoso, con la promessa di dolci e caramelle elargiti nel corso di tutta la visita.

  (Cap. 5, Il Metro-Centre, pag. 41)

  Davanti a un bancone – la maggiore occasione di confronto che la razza umana ha con l’esistenza – non c’era ieri, non c’erano corsi e ricorsi storici, ma solo un intenso presente commerciale.

  (Cap. 5, pag. 51)

  “È molto più di un negozio, signor Pearson. È un’incubatrice. La gente entra lì dentro ed è come se si svegliasse, perché si rende conto di vivere un’esistenza vuota. E quindi cerca nuovi sogni…”

  (Cap. 7, Il gioco dell’oca, pag. 65)

  “…C’è tantissima violenza in giro. La gente non se ne rende conto, ma si annoia a morte. Lo sport è il segnale più evidente. Ovunque lo sport abbia un ruolo così importante si può stare sicuri che la gente si annoia a morte e non vede l’ora di poter sfasciare qualche mobile alla prima occasione.”

  (Cap. 9, La spiaggia dell’Holiday Inn, pag. 74)

  Ormai la finzione era parte integrante della vita della classe media, tanto che l’onestà e la franchezza sembravano subdoli stratagemmi. La bugia più sfacciata era quella che più si avvicinava alla verità.

  (Cap. 11, L’aria pesante della notte, pag. 87)

  Politica per l’era della tv via cavo. Impressioni fugaci, l’illusione che ci sia un significato sopra un mare di vaghissime emozioni. Stiamo parlando di un tipo di politica virtuale che non ha alcun legame con la realtà. Anzi: questa politica ridefinisce il concetto stesso di realtà. Il pubblico partecipa volentieri a questo genere di presa per i fondelli.

  (Cap. 14, Verso una follia volontaria, pag. 109)

  “Le religioni esempi di pazzia volontaria?”

  “Enormi sistemi di delirio collettivo che hanno portato all’uccisione di milioni di persone, lanciato crociate e fondato imperi. Una grande religione è sempre sinonimo di pericolo. Oggi la gente vuol credere a tutti i costi, ma riesce a trovare Dio soltanto attraverso la psicopatologia. Basta guardare le aree più devote del mondo: il Medio Oriente e gli Stati Uniti. Stiamo parlando di società malate che possono solo peggiorare. La gente è pericolosissima quando non le rimane nient’altro in cui credere oltre a Dio… Il futuro sarà una lotta tra vasti sistemi di psicopatologie, tutte volontarie e intenzionali.”

  (Cap. 14, pag. 113)

  Quella era la particolarissima geometria della folla, che sceglieva di volta in volta il suo leader. Apparentemente passivi, si raggruppavano e cambiavano rotta senza nessuna logica ovvia, formazioni variabili guidate da vari gradi di noia e mancanza di obiettivi.

  (Cap. 17, La geometria della folla, pag. 129)

  Il consumismo è lo strumento migliore mai inventato per controllare le persone.

  (Cap. 21, Una politica nuova, pag. 156)

  David Cruise rimaneva la voce del Metro-Centre, l’ambasciatore del regno delle lavatrici e dei forni a microonde, ma era anche il leader di un partito politico virtuale la cui influenza si stava espandendo attraverso tutte le città sull’autostrada. Come altri demagoghi, faceva leva sui tratti patologici della sua personalità. Eppure, era emerso non dalle strade o dalle birrerie piene di operai della Monaco degli anni della Depressione, ma dai salotti dei programmi pomeridiani; era un uomo senza un messaggio che aveva trovato il suo deserto.

  (Cap. 22, L’eroe con l’impermeabile, pag. 168)

  “…Un vero senso di comunità, la gente lo trova negli ingorghi stradali e negli atri degli aeroporti.”

  “O nel Metro-Centre?” aggiunsi io. “Il palazzo del popolo?”

  “E in altre centinaia di centri commerciali. A cosa servono la libertà, i diritti dell’uomo e la responsabilità civile?… Abbiamo bisogno di qualcosa di più drammatico… Il consumismo genera un bisogno che può essere soddisfatto solo dal fascismo, un tipo di follia che è l’unica strada possibile da perseguire… Il male e la psicopatologia si sono trasformati in stili di vita. È una prospettiva inquietante, ma il fascismo consumista è forse l’unico modo per tenere insieme la nostra società. Per controllare quell’aggressività e arginare tutte quelle paure e quelle forme d’odio.”

  (Cap. 24, Uno stato fascista, pagg. 180-181)

  “Per quanto mi riguarda, la sola vera comunità è quella che abbiamo costruito qui nel Metro-Centre. Io credo solo in questo. Le squadre sportive, i club di tifosi, le serate dedicate ai titolari di carte gold e tessere fedeltà… Mi vengono questi strani pensieri… Mi viene voglia di buttare giù il vecchio mondo e di costruire un ordine nuovo, qualcosa di simile a quello che stiamo costruendo tutti insieme qui dentro al Metro-Centre.”

  (Cap. 25, Solo, smarrito e arrabbiato, pag. 188)

  Comprare è un atto politico, l’unica vera forma di politica che ci rimane al giorno d’oggi.

  (Cap. 31, Difendiamo il centro commerciale, pag. 221)

  Trenta minuti dopo apparve Carradine, che scese dalla rampa di scale del piano ammezzato e ci informò che non avremmo pranzato quel giorno se non avessimo prima pulito i supermercati riportandoli nella condizione immacolata in cui li avevamo trovati. Ci ricordò che dovevamo tutti sentirci fieri del Metro-Centre e pagare il debito che avevamo nei confronti di quel centro commerciale che aveva trasformato la nostra vita.

   (Cap. 34, Il lavoro rende liberi, pag. 246)

James Graham Ballard

 

Christian Bale è James Ballard a 11 anni

ne L’Impero del Sole, di Steven Spielberg (1987)

 

James Graham Ballard nel 2006, a 76 anni

(dal sito www.ballardian.com)

Nel 1941, dopo Pearl Harbour, i Giapponesi occuparono Shangai e presero come ostaggi i civili inglesi, americani e francesi che non avevano fatto in tempo a lasciare la città. Un ragazzo di undici anni, diviso dai genitori dalla folla in preda al panico, finì così in un campo di prigionia e vi rimase fino al 1946, quando finalmente poté tornare in patria e ricongiungersi alla famiglia.

Il ragazzino era James Graham Ballard, oggi settantasettenne. Che nel 1984, quando era già tra i più importanti scrittori inglesi, narrò i cinque anni della sua spaventosa, affascinante, solitaria e accelerata iniziazione all’età adulta ne L’impero del sole (da cui Steven Spielberg, nel 1987, trasse l’omonimo film interpretato da Christian Bale nella parte del piccolo Ballard, da John Malcovich e da Natasha Richardson.)

Furono anni di passaggio, di forzata fuoriuscita dall’infanzia, e al tempo stesso di blocco, di forzata immobilità. Anni di solitudine e insieme di smarrimento tra la folla, di prigionia e al contempo di una sorta di mostruosa libertà da orfano. Anni in cui al bambino furono rivelati gli orrori, le aberrazioni, le follie, le miserie e le “semplici” stranezze che la società “normalmente” riesce a nascondere a sé stessa scaricandole sui deboli, sugli emarginati, sugli “estranei”. Anni e orrori che l’adulto, lo scrittore J. G. Ballard, ha poi continuato a vivere e raccontare fino ai giorni nostri nelle sue opere, così come hanno fatto e fanno – ciascuno a suo modo – tutti coloro che, sopravvissuti a essi o venuti dopo, avendoli davvero compresi non sono mai più riusciti a non vedere intorno a sé – nelle vie delle città, sugli schermi delle tv, nelle pagine dei giornali, tra i loro stessi famigliari, amici, colleghi – il nazismo e il fascismo che il nazismo e il fascismo hanno inoculato nel mondo, e che ovunque nel mondo continuano a disseminare, tra noi e in noi, germi di delirio e microesperimenti di futuri, possibili, mostruosi Nuovi Ordini.

Tra le opere di Ballard, oltre ai numerosissimi saggi e racconti – raccolti di recente dall’editore Fanucci in una completa e bellissima antologia in tre volumi – ricordiamo i romanzi Deserto d’acqua (1962), Vento dal nulla (1962), Foresta di cristallo (1966), Crash (1973), L’isola di cemento (1974), Condominium (1975), Ultime notizie dall’America (1981), Il giorno della creazione (1987), La gentilezza delle donne (1991), che continua le vicende autobiografiche de L’Impero del sole, Cocaine Nights (1996), Il paradiso del diavolo (1998), La mostra delle atrocità (1999), Super-Cannes (2000) e Millennium People (2004), gli ultimi tre tutti pubblicati in Italia da Feltrinelli.

http://www.scuolanticoli.com/libri/pagelibri_001.ht

The Waiting Grounds

Just dug out the tea set and had some seriously fine long-jing.  On the back of that, time to catch up with some blogging.

Continuing the science-fictioney theme of Track 12, this longer story is set in a familiar trope:  the remote mining colony in space with only a handful of people and the discovery of ancient bits and stuff.  It’s the setting for so many stories I can think of, and probably has its roots in jingoistic colonial adventure stories in which missionaries hack through remote jungles and happen upon Thuggee cults and Hindus spelt ‘Hindoo’

Interestingly enough, the missionary thing gets flagged up in The Waiting Grounds, when a box of religious texts, including bibles, the quran and the talmud among others, turns up in the inventory of stuff left behind by two missing explorers.  It’s not explored or explained in any detail, but it was an interesting thing to notice.

In short, strange carved monoliths are found, listing a couple of millennia of dynasties in various star systems in five different languages, including English.  Cue cosmic trip across space-time to the end of the universe.  It’s quite a bit like 2001:  A Space Odyssey in that respect, although the protagonist gets plopped back where he was, left to contemplate his place in the universe.

The general consensus seems to be that this story is uncharacteristic of his writing, in that it’s not set on Earth and are written fairly straight, with little irony.  One of the things I did notice about The Waiting Grounds in particular is the setup of the characters.  It’s fairly standard science-fiction stuff: the hero arrives, there’s been some kind of mysterious event, there’s a character who knows more than they let on, the mystery is investigated, horrors ensue, minds are blown but the hero lives to recount the story.  Amongst the novels I’ve read, Super-Cannes, Cocaine Nights and Kingdom Come all follow this pattern.  This is not lost on others who are familiar with Lovecraft.

http://jgbshortstories.blogspot.it/2011/01/waiting-grounds.html

IL CONDOMINIO di J.G. Ballard

Titolo Originale: High – Rise

© Feltrinelli – pag. 189

Genere: narrativa

A cura di Chebarbachenoia (2006)

Un nuovo, lussuoso, modernissimo grattacielo si staglia sulla sky-line della periferia di Londra.

Quaranta piani di cemento e vetro dotati di piscina, giardino, banca, centro commerciale.

Una città verticale, una metropoli in miniatura, una cellula high-tech, (sicuramente per quei tempi -il romanzo è del 1975-). Ma, incredibilmente, anche una gabbia sospesa tra cielo e terra chiusa al mondo esterno, un’arena per gladiatori, una giungla.

Ed ecco i condomini-protagonisti che parteciperanno-assisteranno alla mutazione del grattacielo: Richard Wilder, il “produttore televisivo, massiccio e combattivo” del secondo piano, Anthony Royal, l’architetto che ha realizzato il grattacielo e ne occupa l’attico, il borghese Robert Laing , professore alla Facoltà di Medicina.

Se il primo è il guerriero che con ogni mezzo vuole e riesce a conquistare il grattacielo scalandolo a piedi, il secondo rappresenta l’aristocrazia dei piani alti . Ma sarà il terzo, tenutosi in disparte, ad essere testimone del rinascere, del ritorno, (ma sarà vero ?) della normalità.

Al di là di questa palesemente metaforica “High-rise”, (che è il titolo originale del romanzo e che credo dovrebbe tradursi in “ascesa” o “corsa verso l’alto”), è altro quello che più mi ha colpito.

Fin dalle reazioni dei condomini ai primi “inconvenienti” che si verificano nel grattacielo, (aria condizionata che fa i capricci, scarichi per l’immondizia che si intasano, ascensori che non funzionano etc.etc.), il lettore avverte che, come un brulicare di insetti sotto un masso, sotto la superficie descritta da Ballard c’è una realtà diversa. Discussioni sempre più animate, liti feroci anche per motivi banali, sfoceranno sempre più in atti di vandalismo, in violenza.

È possibile che i protagonisti non si rendano conto, (o non vogliono rendersi conto?), di quanto sta accadendo, di quello in cui si stanno trasformando?

Addirittura è ciò che è fuori dal grattacielo che viene avvertito come strano, diverso, sbagliato; è quando sono fuori dal grattacielo che i suoi abitatori si sentono estranei a ciò che li circonda. E per reazione, si chiudono, si isolano sempre più, fanno muro contro chiunque potrebbe intromettersi ed interrompere il loro nuovo gioco.

È vero : per molto tempo ancora i condomini si laveranno, sbarberanno o truccheranno, vestiranno come si conviene e usciranno per andare a lavoro. Ma là, in ufficio, a scuola, in studio, saranno come in trance , in attesa di tornare alla vera vita: al grattacielo.

E più il grattacielo va in tilt, si gretola, si crepa, mal funziona, più va alla malora, più i suoi abitatori, desiderandolo, perdono le proprie inibizioni, si liberano di schemi ed infrastrutture mentali e regrediscono.

Inquietantemente circondati dai rifiuti, dal fetore che si leva dagli alimenti (e non solo da quelli), in decomposizione, dall’acqua putrida, non fanno una piega di fronte a questo imbarbarimento.

In una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, Ballard ci conduce dalla iper-tecnologia, all’oscurantismo medioevale, alla nascita dei clan intorno alle figure più carismatiche, all’età tribale.

Tanto indietro che Wilder si denuderà fino a mettere in mostra i genitali, giacerà con tutte le donne delle quali conquisterà l’appartamento, si dipingerà il corpo come i primitivi, piscerà quasi a marcare il territorio, perderà la facoltà di esprimersi a parole e adotterà i grugniti: “Cercò di parlare ma scoprì di grugnire, incapace di articolare le parole con quei suoi denti rotti e la lingua coperta di cicatrici”.

I protagonisti sono volontariamente (e consapevolmente), regrediti ed involuti fino alla tribalità, allo stato animale?

Come possono poi tornare alla “normalità” come se nulla fosse stato ?

Che parallelo, che sillogisma esiste tra il grattacielo ed i suoi abitatori?

In un certo senso, una delle cose che impressiona di più è che una “situazione” come quella descritta da Ballard possa svilupparsi in una realtà a noi tanto nota, vicina, palpabile, come quella di un condominio.

Il modo di raccontare freddo, distaccato, quasi “scientifico”, inoltre, dà la sensazione, spiacevole, che potrebbe essere tutto vero e non molto lontano da noi…!

http://leggiamo.altervista.org/narrativa_ilcondominio.htm




J.G. BALLARDHELLO AMERICA(Hello America, 1981)

1.La Costa d’Oro

«Lì c’è oro, Wayne, polvere d’oro ovunque! Svegliati! Le strade d’America

sono lastricate d’oro!»In seguito, quando affiancarono l’ Apollo al molo derelitto della Cunard,alla punta inferiore di Manhattan, Wayne doveva ricordare, alquanto diver-ito, la frenesia con la quale McNair aveva fatto irruzione nella veleria.L’ufficiale di macchina gesticolava come un matto, la sua barba palpitante come una lanterna dallo stoppino troppo lungo.«Wayne, è tutto come avevamo sognato! Dacci un’occhiata, anche se rischia di accecarti!»Per poco non aveva rovesciato Wayne giù dall’amaca. Wayne, puntellandosi al soffitto di metallo, aveva fissato la barba luminosa di McNair.Una irreale luminosità ramata riempiva il locale delle vele, avvolgendolo di balle di tappeti dorati, quasi la nave fosse incappata nell’occhio di un ciclone radioattivo.«McNair, aspetti! Meglio sentire il dottor Ricci, prima! C’è il rischio…»McNair, però, se n’era già andato, pronto a mettere a soqquadro la nave.Wayne lo sentì gridare qualcosa ai due stupefatti fuochisti nella carbonaia.Mentre egli aveva dormito tutto il pomeriggio — reduce da un lungo turno di guardia notturno terminato alle otto di mattina — l’ Apollo aveva gettatol’ancora a mezzo miglio dalla riva di Brooklyn, presumibilmente per dar tempo alla professoressa Summers e ai componenti scientifici della spedizione di controllare l’atmosfera. Adesso erano pronti a riprendere la rotta ea entrare nel porto di New York, loro primo approdo dopo il viaggio iniziato a Plymouth.I verricelli cigolarono lamentosi, le catene dell’ancora scivolarono lungole rugginose piastre di prua. Wayne si calò giù dall’amaca e si vestì in fretta, con una sbirciata nello specchio fessurato, sulla porta. Il riflesso gli restituì un viso patinato d’oro, un paio di occhi vividi e ansiosi al di sotto di una zazzera bionda da angelo timido. Quando raggiunse la coperta, un anuvola di fuliggine si riversò dal fumaiolo e coprì la vela di prua di centinaia di lucciole morenti. Equipaggio e passeggeri affollavano l’orlo di murata, nell’attesa impaziente, mentre le vetuste macchine dell’ Apollo chiaramente sfinite dalle sette settimane di viaggio attraverso l’Atlantico, ansimavano contro la pigra acqua costiera.Rimproverandosi — già stava tremando d’eccitazione come un bambino— Wayne scrutò la costa che sembrava attrarlo con una sua forza magnetica. Un’immensa distesa lucente e dorata inguainava la linea costiera diBrooklyn, riflessa dai moli e dai magazzini silenziosi. Il sole pomeridiano premeva sulle vie di una Manhattan deserta, aggiungendo il suo splendore alla distesa luminosa lì sotto. Wayne ebbe quasi l’impressione che quelle sstrade e le serpentine di scorrimento veloce si fossero pavimentate, in preparazione del loro arrivo, con i più rari tesori.A poppa dell’ Apollo si stagliava in lontananza l’arco poderoso del ponte sospeso di Verrazzano al di sopra dello Stretto, una visione da lungo tempo familiare a Wayne dalle vecchie diapositive della Biblioteca della Società Geografica di Dublino. Avevva guardato per ore e ore le fotografie e del ponte e di mille altre immagini dell’America, ma era impreparato alla grandezza spettacolosa e alla forma misteriosa di quell’artefatto. Che — incerto qual modo — era riuscito a esagerare la propria mole durante il lungo secolo di oblìo generale. Molti dei cavi verticali avevano ceduto, e l’immensa struttura dalle tonalità di rame, coperta ora di ruggine e verderame,assomigliava a un’arpa inoperosa che avesse vibrato la sua ultima musica per il mare indifferente.Wayne contemplava la metropoli sempre più vicina, di nuovo incapace di riconciliare lo spettacolo che aveva davanti con l’immagine di Manhattan profilata all’orizzonte, quale aveva sognata a occhi aperti nel buio della sala di proiezione della biblioteca. Dozzine di torri a cercare il cielo, soffuse di luce pomeridiana. Anche a tre miglia di distanza, le pareti di vetro di quei colossali edifici brillavano come specchi di bronzo, quasi che le vie ai loro piedi fossero lastricate di lingotti. Wayne poteva individuare il vecchio Empire State Building, venerabile patriarca della city, le due colonne gemelle del World Trade Center, i 200 piani della Torre OPEC che dominava Wall Street, con l’insegna al neon che puntava verso la Mecca. Insieme, disegnavano il familiare profilo a sfondo di cielo, i cui vertici e canyon Wayne conosceva ormai a memoria, e che ora parevano trasformati d aquesto sogno d’oro.Sentì di nuovo McNair vociare ai fuochisti attraverso i boccaporti della sala macchine.«Dio buono, avrete bisogno di qualcosa di più delle vostre pale!

il resto su:

http://it.scribd.com/doc/89042651/J-G-Ballard-Hello-America-Ita-Libro

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