“Chronopolis” di J.G. Ballard: la città e il tempo

“Chronopolis” di J.G. Ballard:
la città e il tempo

Ponendo l’accento sul peculiare andamento spaziale di ogni opera narrativa, Frank Kermode ha osservato che l’uomo moderno, diversamente dall’uomo medievale, ha un’intima esigenza di “fictions relating to time – the kind that confer significance on the interval between tick and tock” (1). Esiste un nesso tra narrativa e tempo significativo (kairos) giacché entrambi acquistano una valenza semantica solo in quanto hanno un inizio e una fine. Se è vero che, delimitandolo spazialmente, l’uomo umanizza il tempo e gli dà una forma, resta pur sempre l’oggettiva e inevitabile presenza di chronos, vale a dire il tempo non umanizzato, il tempo che fluisce con o senza l’elemento umano.

Al centro di “Chronopolis” (C) – un racconto di J.G. Ballard pubblicato nel 1960 – troviamo affrontata la problematica del dualismo kairos/chronos altrimenti enucleabile mediante i paradigmi SENSO/NON-SENSO, UMANO/NON-UMANO. È significativo, pertanto, che in questo racconto, il protagonista, Conrad Newman, non riesca a dare un significato alla vita proprio perché, con l’abolizione dell’orologio sancita per legge, pare definitivamente compromessa la possibilità di conferire una dimensione umana al tempo, di lanciare un ponte tra la finitezza e limitatezza dell’uomo e l’infinito e indifferente trascorrere di chronos:

Time unfolded at its usual sluggish, half-confused pace. They lived in a ramshackle house in one of the amorphous suburbs, a zone of endless affernoons[…]
He [Newman] was in no hurry tu grow up; the adult world was unsynchronized and ambitionless[…](2).

Per molti versi, “Chronopolis” costituisce la prima intuizione ballardiana di un Leitmotiv che poi ritroveremo in molta parte della produzione dello scrittore anglosassone, che, in tal modo, si misura con uno dei grandi temi della narrativa fantascientifica. Per Ballard, tuttavia, non si tratta di imitare o rielaborate i modi convenzionali di scrittura, ma di tentare nuove soluzioni stilistico-narrative in cui vengano esaltati gli atteggiamenti dilemmatici e i conflitti interiori dell’uomo, per questo il narratore guarda più ai “demented landscapes of Van Gogh” (3) che ai padri fondatori della science fiction.

In proposito Carlo Pagetti ha giustamente notato che le opere ballardiane “si pongono come esercitazioni formali, allegorie e favole in cui vengono discussi e revisionati i miti su cui è basata la letteratura fantascientifica” (4). D’altro canto, nel notissimo saggio “Which Way to Inner Space” – apparso nella rivista New Worlds nel maggio 1962 – l’autore inglese parla di rinnovamento dei moduli fantascientifici, pensando soprattutto alla tematica temporale, non più intesa come il convenzionale viaggio nel tempo ma piuttosto come artificio utile per mettere in evidenza taluni aspetti della vicenda arcaico-collettiva dell’umanità e mostrare i risvolti psicologici del rapporto tra sensibilità umana e dimensione temporale:

[…] vorrei che la SF elaborasse concetti come zona tempo, tempo profondo e tempo archeopsichico. Vorrei vedere più idee psico-letterarie, più concetti metabiologici e metachimici, vorrei vedere dei sistemi temporali personali, delle psicologie e degli spaziotempi sintetici, e quei remoti ed oscuri semi-mondi che avvertiamo nei dipinti delle personalità dissociate, tutto in completa poesia speculativa e fantasia scientifica (5).

Insomma, per lo scrittore l’unico grande territorio inesplorato è rappresentato dall’universo interiore dell’uomo che, più dello spazio interplanetario, riserva, a chi vi si avventuri, non poca materia narrativa. A questo punto, si può dire che al binomio antinomico kairos/chronos fa riscontro il paradigma INTERNO/ESTERNO dal momento che il tempo umanizzato e dotato di semanticità può esistere solo se connesso alla sensibilità umana, laddove il paesaggio esterno diviene un elemento accessorio, talora correlativo oggettivo di una condizione interiore, tal altra rappresentazione di una decadenza di cui chronos è il grande artefice. Questa antinomia viene esplicitamente dichiarata nelle parole finali di The Drought (1965), quando l’eroe, Charles Ransom, giunge alla fine della sua avventura attraverso la catastrofe naturale della siccità:

To his surprise he noticed that he no longer cast any shadow on to the sand, as if he had at last completed his journey across the margins of the inner landscape he had carried in his mind for so many years. The light failed, and the air grew darker. The dust was dull and opaque, the crystals in its surface dead and clouded. An immense pall of darkness lay over the dunes, as if the whole of the exterior world were losing its existence (6).

È nondimeno interessante notare che a questo individuale inner space spesso corrisponde, su un piano strettamente topologico, l’individuazione metonimica di uno spazio limitato e centripeto che risulta funzionale al disvelamento del paesaggio interiore o, per dirla con David Ketterer, “devastated landscapes fanction, to some degree, as metaphorical reflections of man’s inner landscape” (7). È il caso di Concrete Island (1974), ove il protagonista, in seguito allo scoppio di una ruota, si ritrova con la sua Jaguar fracassata in un’isola di cemento racchiusa dall’intersecarsi di tre giganteschi nastri autostradali. Lo spazio brullo e abbandonato finisce per divenire, una volta che l’automobilista si è reso conto dell’impossibilità di ottenere soccorso, il luogo di una scoperta psichica, al punto che Maitland, l’eroe del romanzo, stabilirà un rapporto diretto tra il suo destino e quello dell’area di cui è prigioniero:

More and more, the island was becoming an exact model of his head. His movement across this forgotten terrain was a journey not merely through the island’s past but through his own (8).

È ancora il caso di High-Rise (1975), storia di un condominio che si trasforma in una sorta di enorme e buia caverna in cui vigono la legge del più forte e un impulso belluino all’autodistruzione. In questa favola moderna, costruita secondo il raffinato mosaico della imagery ballardiana, l’edificio di quaranta piani diviene il locus di un auto-confinamento che condurrà i protagonisti a un tribalismo cruento, al recupero della primordialità umana: aspetti, questi, incarnati soprattutto da un personaggio significativamente chiamato Wilder:

[…] Wilder welcomed and understod the night – only in the darkness could one become sufficiently obsessive, deliberately play on all one’s repressed insticts. He welcomed this forced conscription of the deviant strains in his character. Happily, this free and degenerate behaviour became easier the higher he moved up the building, as if encouraged by the secret logic of the high-rise (9).

Nella narrativa ballardiana spazio e tempo custituiscono i parametri obbligati di un confronto dell’uomo moderno con se stesso, con il suo passato, con il suo futuro; spazialità e temporalità sono connessi in un modo inestricabile con la vicenda arcaico-collettiva dell’uomo nella quale confluiscono le memorie individuali, le singole storie interiori. Vale quindi il rapporto spazio/tempo nell’interpretazione di Gaston Bachelard:

Lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo: lo spazio serve a questo scopo.

[. . j Attraverso lo spazio, nello spazio rinveniamo i bei fossili della durata, concretizzati da lunghi soggiorni. L’inconscio soggiorna, i ricordi sono immobili, tanto più solidi quanto più e meglio vengono spazializzati (10).

In questa prospettiva possiamo interpretare “Chronopolis” come il racconto del tempo spazializzato, giacché la modellizzazione spaziale mette in evidenza gli aspetti psichici del viaggio di Newman verso il cuore della metropoli abbandonata. Anche qui, insomma, lo spazio si divide secondo il paradigma INTERNO/ESTERNO, il decadente paesaggio metropolitano opponendosi ai nuovi insediamenti rurali sparsi lungo il perimetro della città disabitata.

Il protagonista di “Chronopolis”, Conrad Newman, è in cerca di un tempo significativo da contrapporre al monotono andamento della vita quotidiana; in questo caso però la semanticità viene data dalla possibilità di stabilire dei confini cronologici alla giornata.

Dunque l’eroe ballardiano è ossessionato dal problema della misurazione del tempo in una società in cui è stato vietato l’uso e persino la semplice immagine dell’orologio e di qualsiasi strumento capace di indicare l’ora. A ben gnardare, l’ossessione di Newman cela, a un livello più profondo, una fondamentale esigenza conoscitiva del destino personale e collettivo: si tratta, in breve, di scoprire non solo il fascino del meccanismo dell’orologio, ma anche e soprattutto il passato socio-culturale e psichico di una civiltà che aveva affidato le sue sorti al funzionamento di quello strumento meccanico e massificante. Il recupero cioè di un’identità che l’abbandono della città del tempo ha voluto negare alle nuove generazioni, di cui Newman è un rappresentante. Pertanto, la dimensione temporale cercata è solo apparentemente chronos, se è vero che l’eroe ballardiano tenta, con il suo gesto di rivolta, di dare forma e significato a una vita senza senso, conferendole un inizio e una fine. Sotto questo a-spetto “Chronopolis” si configura come “an escape from chronicity” (11), per cui la conquista del primo orologio avvia nel protagonista i meccanismi che presiedono inconsciamente alla rappresentazione del paesaggio interiore:

what he needed was an internal timepiece, an unconsciously operating psychic mechanism regulated, say, by his pulse or respiratory rhythms (C, p. 187).

Se da un lato l’eroe ballardiano è affascinato dalla oggettiva misurazione del tempo, dall’altro egli cerca di andare ben oltre l’attuazione di un progetto che sostanzialmente appartiene al mondo esterno, ad una realtà cioè estranea all’uomo; per questo Newman mira alla realizzazione di un sistema temporale personale teso a fornire un supporto psichico e un punto di riferimento umanizzato nel suo viaggio conoscitivo. In questo senso si può affermare che la tipica forma circolare dell’orologio acquista, agli occhi del personaggio, le sembianze di un vero e proprio mandala, che, secondo la definizione junghiana, si configura come simbolo di “un an ampliamento della sfera della coscienza e della vita psicologica cosciente” (12). Nel caso della narrativa ballardiana, il processo psicologico della “individuazione” vuoI dire anzitutto ritorno alle forze archetipico-collettive mediante una serie di esperienze di rottura con l’ordine stabilito. Concetto, questo, sviluppato anche da Carl G. Jung quando scrive che:

L’individuazione è sempre più o meno in contrasto con le norme collettive, giacché essa è separazione e differenzazione dalla generalità e sviluppo del particolare […] (13).

Nella sua forma geometricamente regolare e compiuta, il cerchio chiuso si configura come “l’antidoto tradizionale a uno stato mentale caotico” (14), giacché in esso sembra realizzarsi la sintesi tra dimensione spaziale e dimensione temporale; e ciò che accade al biologo Powers, protagonista del racconto “The Voices of Time”, che, al centro del suo mandala – significativamente definito un “orologio cosmico” – riesce a conquistare il passato arcaico del genere umano:

The vast age of the landscape, the inaudible chorus of voices resonating from the lake and from the white hills, seemed tu carry him back through time, down endless corridors to the first threshold of the world(15).

A questo punto si può senz’altro dire che Chronopolis, descritta come “an enorrnous ring, five miles in width, encircling a vast dead centre forty or fifty miles in diameter” (C, p. 195), ha la forma di un grande mandala temporale, il cui potere centripeto si esercita sull’intraprendente Conrad Newman che vive nella costante ricerca di “a compass charting his passage through the future” (C, p. 192). E, d’altro canto, significativo che l’eroe ballardiano decida di addentrarsi nel territorio vietato, nonostante esso si presenti sulla carta geografica come “a flat, uncharted grey, a massive terra incognita” (C, p. 195). In effetti, il viaggio esplorativo non riguarda tanto la scoperta di “a wilderness of concrete and frosted glass” (C, p. 197), quanto il disvelamento delle regioni inesplorate della psiche umana. Non per nulla Newman è convinto che:

a calibrated timepiece added another dimension to life, organizzed its energies, gave the countless activities of everyday existence a yardstick of signiflcance (C, p. 192).

Di qui anche il grande sogno di restituire alla vita la città del tempo cominciando proprio a mettere in movimento i suoi orologi arrugginiti, che, agli occhi dell’eroe, si configurano come l’anima e la cifra dell’enorme macchina metropolitana:

lf one could only start the master clock the entire city would probably slide into gear and come to life, in an instant be repeopled with its dynamic jostling millions (C, p. 201).

Newman, proveniente dai centri rurali, guarda meravigliato e piacevolmente stupefatto al disegno architettonico della città, alle precise geometrie delle sue piazze e delle vie, alla complessa gerarchia che un tempo governava tutta l’organizzazione sociale ed economica di quell’universo tecnologicamente e demograficamente avanzato:

“There seems to be plenty of dignity here. Look at these buildings, they’ll stand for a thousand years [. . .] think of the beauty of the system, engineered as precisely as a watch” (C, p. 202).

L’immagine di una città mostruosa e affascinante al tempo stesso trova conferma, del resto, nel tessuto linguistico del racconto che, ricorrendo all’uso insistito di taluni lessemi – enormous, large, vast, wide, massive, high – enfatizza nel lettore la contrastante visione di un microcosmo individuale alle prese con una realtà complessa e smisurata come quella di Chronopolis, definita ” a fantastically complex social organism” (C, p. 198).

A ben guardare, la metropoli, nei suoi aspetti disumanizzanti, rappresenta uno dei temi ricorrenti dei racconti ballardiani e, sul piano della imagery, conferisce alla scrittura dell’autore inglese una peculiare unitarietà e coerenza poetico-immaginativa. In questo senso, si veda il racconto “The Ultimate City” (UC), ove si narra di un grande insediamento urbano che “like a thousand others around the globe, had gradually come to a halt and shunt itself down for ever” (16) in un’epoca in cui “the huge urban populations of the late twentieth century had dwindled” (UC, p. 14). Compiendo lo stesso gesto di Conrad Newman, il protagonista di questa storia, Hollway, con l’ausilio di un aliante si reca verso l'”ultima città” nel tentativo di rianimarla. In questo caso però, l’emblema della civiltà tramontata non è l’orologio ma l’automobile, che, agli occhi del personaggio, appare come “a fitting womb” (UC, p. 19), vale a dire una cavità uterina attraverso la quale raggiungere lo spazio psichico dell’uomo proto-industriale, di cui non resta traccia nella “sophisticated Arcadia” (UC, p. 16) delle Città Giardino. Per questa ragione, Hollway, trasgredendo una legge che definisce terra di nessuno la metropoli abbandonata, si stabilisce nel cuore della vecchia città e comincia a riparare i motori arrugginiti di vecchie carcasse di automobili, spinto dalla convinzione che in tal modo la morta civiltà risorgerà per riacquistare l’antica grandezza, la straordinaria esperienza che, nel bene o nel male, essa dispiegava quotidianamente:

[…] it had been filled with more than a million people, the streets packed with traffic and the skies with helicopters, a realm of ceaseless noise and activity, competition and crime (UC, pp. 50-51).

Risulta evidente che questa “ultima città” non è affatto differente da Chronopolis, entrambe essendo testimonianza di un passato in cui la volontà umana veniva del tutto piegata alle esigenze dell’insaziabile e assurdo mostro metropolitano. Ma se è verò, come ha notato Clifford D. Simak, che un tempo la città era “il prodotto dell’evoluzione della nostra civiltà, e per molti secoli servì ottimamente all’uomo” (17), ben comprendiamo come il viaggio degli eroi ballardiani abbia un carattere eminentemente psichico, sia cioè la ricerca di una storia culturale e socio-psicologica anteriore alle temperie del decadimento urbano. Per cui vediamo che Hollway, non diversamente da Newman, agisce nella speranza di rinvenire ” the missing sections of his mind” (UC, p. 35), di conquistarsi un’identità che le comunità rurali delle Città Giardino avevano da tempo rimosso completamente.

Vale la pena di ricordare che, sia per Newman che per Hollway, la spinta verso la trasgressione delle norme sociali e la rivisitazione della civiltà perduta trae origine dal disperato tentativo di ricostruire la personalità dei genitori scomparsi attraverso un contatto affettivo con le reliquie del loro passato. Cosi, nel caso del protagonista di “Chronopolis” leggiamo:

After his mother died he spent Iong days in the attic, going through her trunks and old clothes, pIaying with the bric-a-brac of hats and beads, trying to recover something of her personality.
In the bottom compartment or her jewellery case he came across e small flat gold-cased object, equipped with a wrist strap. The dial had no hands but the twelve-numbered face intrigued him and he fastened it to his wrist (C, p. 188).

Anche nel caso di Holloway il messaggio psichico giunge dagli oggetti dell’età scomparsa, oggetti che acquistano il valore di un indispensabile cifrario per entrare in sintonia con un universo negato dalla società presente, ma ancora esistente grazie a una surrettizia forza psichica:

The shelves were filled with relics of his father’s restless mind – antique gear-boxes and carburettors, mementoes of the vanished petroleum age, and the designs for a series of progressively more ambitious sailplanes. The half-completed skeleton of a small glider still lay on its trestles in the workshop (UC, p.9).

Nei racconti di Ballard non si tratta, quindi, di movimenti avventuroso-sensazionalistici ma, al contrario, di terribili drammi interiori e di angosce della mente; per questo ha ragione Brian W. Aldiss quando, a proposito degli short stories ballardiani, nota che “they hinge upon inaction, their world is the world of loss and surrender” (18). In effetti proprio in “Chronopolis” notiamo come uno dei momenti potenzialmente avventurosi – la fuga di Newman dal suo insegnante-poliziotto-del-tempo che lo ha accompagnato attraverso l’enorme labirinto della metropoli – sia smorzato di ogni sensazionalismo con la riduzione all’essenziale di tutto l’episodio. Né va dimenticato che il tema dell’inazione entra sin dalle prime battute del racconto quando viene mostrato il protagonista in prigione, in attesa della sentenza che dichiari la sua innocenza o colpevolezza per avere infranto le leggi del tempo. Ed è significativo che Newman trovi la possibilità di una sorta di evasione morale attraverso la costruzione di una meridiana che sfrutta i raggi di sole che penetrano nella cella. Fuga o viaggio che sia, i personaggi ballardiani sono sempre calati in contesti in cui l’unica realtà possibile e quella del paesaggio fossile, della foresta cristallizzata – una realtà cioè che riflette l’esperienza arcaica dell’uomo, proprio come si legge in The Crystal World (1966):

[…] this illuminated forest in some way reflects an earlier period of our life, perhaps an archaic memory we are born with of some ancestral paradise where the unity of time and space is the signature of every leaf and flower (19).

Che le città ballardiane segnino il momento di una straordinaria sintesi spazio-temporale, appare evidente nel racconto “Concentration City” (1967), ove si assiste al tentativo infruttuoso di un personaggio che va alla ricerca di uno spazio libero al di là dei confini metropolitani: la città diviene in questo racconto un’entità mostruosa e sconfinata proprio come chronos:

“[…] You accept that time has no beginning and no end. The City is as old as time and continuous with it” (20).

Alla fine del suo viaggio il protagonista di “Concentration City” si ritrova al punto di partenza e non gli resterà nulla se non la certezza che l’insediamento urbano, non meno del tempo, è una prigione dalla quale è impossibile fuggire. D’altra parte, alla stessa conclusione perviene anche Newman che, nel chiuso della sua cella, per la prima volta si rende conto che Chronopolis, la città degli orologi, non potrà mai dare un significato e una forma alla vita umana semplicemente perché l’orologio è uno strumento capace di registrare soltanto il tempo esteriore degli accadimenti, non certo le intime e individuali esperienze dell’animo umano. Per ironia della sorte, l’eroe ballardiano viene condannato ad ascoltare per vent’anni l’incessante e ossessivo ticchettio di un orologio:

He was still chuckling over the absurdity of it all two weeks later when for the first time he noticed the clock’s insanelysirritating tick… (C, p. 211).

Con queste parole, che, in un certo senso, segnano la vittoria di chronos sul tempo significativo, si conclude un racconto imperniato sull’impossibilità di avere una dimensione temporale umanizzata in una struttura sociale sostanzialmente disumanizzante, ove l’unico tempo che può esistere è quello ricordato, con grande enfasi, dall’insegnante-poliziotto:

“Time! Only by synchronizing every activity, every footstep forward or backward, every meal, bus-halt, and telephone call, could the organism support itself. Like the cells in your body, which proliferate into mortal cancers if allowed to grow in freedom, every individual here had to subverse the overriding needs of the city or fatal bottlenecks threw it into total chaos […]” (C, p. 199).

In ultima analisi, risulta fittizia l’opposizione tra il mondo di Chronopolis (IN) e quello in cui è vietata la misurazione del tempo (ES); conseguentemente appare anche inesistente – alla luce della semiotica lotmaniana sui modelli spaziali (21) l’antitesi ordine (IN) vs caos (ES), se è vero che le parole dell’insegnante-poliziotto mettono a nudo come Chronopolis non avesse un ordine a misura d’uomo, ma al contrario un caos mascherato, grazie all’orologio, con una superficiale vernice di ordine. Sotto questa prospettiva potremmo definire la Chronopolis ante lapsum nei termini bunyaniani di “città della distruzione”, soprattutto perché la sua perfetta e cronometrica organizzazione imposta dall’alto e il consegnente caos latente divengono le coordinate fondamentali di un potenziale psichico autodistruttivo. In fondo, la terra incognita esplorata da Conrad Newman è proprio questo inner space, che, per quanto costringa il personaggio alla totale resa, si pone come I’unico grande locus psicologicamente e, ancor più, letterariamente significativo.

© Francesco Marroni

 

http://www.intercom.publinet.it/cs/1CS4.htm

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