Cronache di un Indie: We are Augustines

Ci sono dei periodi in cui la vita vi saluta con il volto sorridente di Bob Dylan nella copertina di Nashville Skyline, dei momenti in cui ogni nuova canzone che scoprite sembra avere l’arguzia lirica di Conor Oberst e il tocco di chitarra di Bert Jansch. Capita a volte che persino quel ragazzo che avete incontrato in metropolitana, che a una prima occhiata sembrava un tamarro di dimensioni Israel Kamakawiwo’ole-iche, alla fine alzi la testa dal libro che sta leggendo e vi mostri così il titolo: La Nausea, di mister Jean-Paul Sartre.
Speranza.

Ma questo non è uno di quei momenti. Anzi.
E in metropolitana leggono tutti Cinquanta Sfumature di Qualcosa.

La giornata di ieri è iniziata in maniera tragica. La mia sveglia, normalmente impostata per suonare con il classico, fastidioso, innocuo “bip-bip”, si è non so come spostata sua sponte sulla funzione di radiosveglia. Così mi sono alzato al suono della voce di Lana Del Rey. Lo so.
Ma ci vuole ben altro per scoraggiarmi: mi sono lavato le orecchie con dell’acido cloridrico e sono uscito, andando incontro alla brezza mattutina con la mente pronta per una nuova giornata. È stato un errore. Avrei dovuto capirlo che quello era un segno, un urlo disperato dell’Universo che mi diceva “No, non farlo. Non oggi. Stai sotto le coperte. Guarda un film, non lo sai? È sempre tempo di Truffaut.” E invece niente: all’avventura. Macchina da scrivere in spalla, cuffie nelle orecchie, la voce rauca di Billy McCarthy, chitarrista e cantante dei We Are Augustines, mi accompagnava nel mio vagare solitario. “I guess you’re headin’ somewhere or endin’ up somewhere.” “Immagino che o sei diretto da qualche parte o finisci per trovarti da qualche parte”. Vero. E questa volta, Billy, io una meta non ce l’avevo. Volevo svoltare a caso, magari prendere un pullman al volo e scendere dopo qualche fermata, scattare due foto a una panchina, osservare scene di vita quotidiana per trarne aforismi da postare su Facebook, trovare un luogo inusuale per sedermi e scrivere qualcosa. In sostanza, cercavo ispirazione. Quello che non cercavo era la gente. Quello che avrei voluto evitare era tanta gente. Quello che neanche mi sarei potuto immaginare era un flash-mob di quattrocento persone che avevano deciso di riunirsi per ballare Gangnam Style in quel parco.
Non mi accorsi di ciò che stava per accadere finché non accadde: camminando e cantando ero giunto, ignaro, al centro di quello schieramento di persone sparse. Poi la musica partì.
Oppan Gangnam Style!
Più di cinquecento milioni di visualizzazioni di YouTube mi colpirono in pieno petto. Uno dei cinque video più visti di sempre, il trionfo del mainstream. Io sono abituato alle 43 visualizzazioni di quei gruppi che suonano in lavanderia a Bristol il martedì pomeriggio.  Il panico.
Cominciai a correre, con tutta la velocità permessa dai miei pantaloni attillati. Colpii con violenza uno dei ballerini con la macchina da scrivere, mandandolo al tappeto per liberarmi il passaggio, ne fotografai altri due applicando all’istante un filtro fumettato e loro si disintegrarono trasformandosi in polvere, sconfitti nella loro scontatezza dalla mia insormontabile Verve creativa.  Gli altri incominciarono a inseguirmi. Riuscii a mantenere un po’ di distanza allontanandoli urlando strofe di John Martyn, e finalmente raggiunsi il dehor di un bar. Una ragazza seduta intorno a un tavolino stava leggendo Bukowski.
La guardai, con le lacrime agli occhi, la baciai e le strappai il libro di mano. Mi girai verso la folla inferocita che ormai mi aveva raggiunto ed iniziai a declamare pezzi di “Compagno di Sbronze”, realizzando così un esorcismo. Tutti dimenticarono il loro rapper sudcoreano e iniziarono a discutere di Baudelaire, di Schopenhauer, dei panorami di Canaletto e dell’assurdo di Bunuel.
Le mie cuffie si trasformarono in uno stereo e l’aria fu intrisa della musica dei We Are Augustines. Vittoria.
Ancora visibilmente spaventato poggiai la mia vecchia Olivetti sul tavolino, mi costrinsi a smettere di tremare e incominciai a scrivere: “Ci sono dei periodi in cui la vita…”

Have you ever heard of… We Are Augustines?

I We Are Augustines sono una band alternative rock newyorkese composta da Billy McCarthy, Eric Sanderson e Rob Allen, rispettivamente chitarrista e cantante, bassista, e batterista. Il loro album Rise ye Sunken Ships è uscito nell’estate del 2011 (worldwide 2012) ed è stato una piacevole sorpresa.
Il cantante arriva da una storia famigliare molto triste, e i testi e la musica di questi ragazzi sembrano dover lottare per venire fuori e trovarsi un posto nel mondo. Una voce strozzata, che spesso dipinge strofe malinconiche, ma in cui non manca mai la speranza: i We Are Augustines decisamente non si piangono addosso. E sicuramente non si arrendono.
Un album personale, che parla della depressione, quella vera, ma anche e soprattutto di come provare a sconfiggerla. L’invito insomma è quello del titolo: riemergi, nave affondata.
Magari avrete già sentito Chapel Song e Book of James (in caso contrario provvedete), e quindi io faccio l’Indie fino in fondo e allego una canzone che non è nell’album e il cui video ho messo io stesso su YouTube.

E io ne aggiungo qualche altro 😉

http://www.outsidersmusica.it/recensione/cronache-di-un-indie-we-are-augustines/



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