Eugenio Montejo -La lenta luce del tropico by filidaquilone.it

 

La lenta luce del tropico (Le Lettere, 2006), trad. it. L. Rosi

EUGENIO MONTEJO
La lenta luce del tropico

a cura di Antonella Ciabatti

La storia dell’umanità è anche la storia della nostra relazione con l’ambiente in cui viviamo. Fiumi, alberi, pietre, animali hanno alimentato la nostra fantasia e dato vita a una miriade di significati simbolici, in un fitto tessuto di racconti, credenze, miti, creazioni artistiche. Nel corso dei secoli la difficile, necessaria, convivenza fra natura e cultura, ha subito una continua alternanza di segno e abbiamo a turno considerato l’una o l’altra benevola o matrigna, fondante o devastatrice.
Infine, natura ha finito per diventare sinonimo di realtà oggettiva opposta all’opera umana, in un rapporto che va facendosi sempre più conflittuale. Abbiamo modificato e costretto molti, troppi, processi naturali piegandoli alle nostre sempre nuove necessità. E se pure siamo, forse, riusciti a generare progresso, abbiamo nel contempo provocato inquinamento ed estinzione di specie animali e vegetali, fino al rischio di esaurimento di molte risorse. Ma, come un contrappunto a questo atteggiamento, le nuove istanze ecologiste, sempre più forti e diffuse, premono affinché le nostre pretese produttive si adattino ai ritmi della natura e non viceversa.

In questo contesto, come dice Martha Canfield nell’introduzione all’antologia poetica La lenta luce del Tropico, “… la poesia di Eugenio Montejo giunge con la forza prorompente di una profezia e di una promessa”. Eugenio Montejo nel suo universo referenziale privilegia il mondo naturale: pietre alberi animali divengono il segno della bellezza e della pienezza dell’essere. Lui stesso, nell’intervista con Marina Gasparini Lagrange, ci parla delle emozioni forti e propizie che il contatto con il mondo naturale gli offre e ci offre: “Il mare, la foresta, la presenza di fiumi, tutto ciò fortifica lo spirito della contemplazione e dell’arte”.
Avvicinarsi a questa poesia è entrare in contatto con un paesaggio lussureggiante di colori e di suoni, “Palmeti azzurri e bianchi” “splendente sole marino sulla costa” “fascio di fluttuanti colori” “immenso il grido” “il gorgoglio dello stagno” “incessanti clamori” “magia del tropico assoluto”; e poco a poco ce ne appropriamo, in un concerto di analogie, corrispondenze, simboli, dove alberi uccelli galli rane cicale trascendono la loro appartenenza al mondo naturale. Perché nei versi di Eugenio Montejo la poetica della natura non è che una prima istanza espressiva che conduce a una riflessione sulla poesia, sul linguaggio, sull’arte in generale, e permette di articolare una concezione della vita fondata su di una prospettiva complessa e ricca.

E così il canto del gallo, ad esempio, assume un valore più interiore che descrittivo, è come la poesia che goccia a goccia cade nel poeta e riflette su sé stessa:

Il canto sta riempiendo, incontenibile,
il gallo come fosse un’anfora;
riempie le sue piume, la sua cresta, i suoi speroni,
fino a straripare e si ode immenso il grido.

Poesia che canta il canto, insieme con una vaga nostalgia per un passato più vicino al mondo naturale sempre vivo nella memoria. Una memoria affettiva persistente che evoca antichi paesaggi, la città dell’infanzia, volti e voci familiari, e abolisce le frontiere fra passato, presente e futuro, in una contemporaneità emozionale e temporale che nega l’irreversibilità dell’istante, “Il tempo può girare intorno, / dipende dalla pioggia, dal vento tra gli alberi” e che ignora il confine fra vita e non-vita:

nascerò dopo, porto scritta la mia data;
sono qui con loro fino a quando non se ne andranno;
senza che possano guardarmi mi fermo:
voglio chiudere dolcemente i loro occhi.

DIECI POESIE DI EUGENIO MONTEJO
da La lenta luce del tropico
(Antologia poetica – Le Lettere, 2006 – traduzione di Luca Rosi)

LOS ÁRBOLES

Hablan poco los árboles, se sabe.
Pasan la vida entera meditando
y moviendo sus ramas.
Basta mirarlos en otoño
cuando se juntan en los parques:
sólo conversan los más viejos,
los que reparten las nubes y los pájaros,
pero su voz se pierde entre las hojas
y muy poco nos llega, casi nada.

Es difícil llenar un breve libro
con pensamientos de árboles.
Todo en ellos es vago, fragmentario.
Hoy, por ejemplo, al escuchar el grito
de un tordo negro, ya en camino a casa,
grito final de quien no aguarda otro verano,
comprendí que en su voz hablaba un árbol,
uno de tantos,
pero no sé qué hacer con ese grito,
no sé cómo anotarlo.

(de Algunas palabras, 1976)

GLI ALBERI

Parlano poco gli alberi, si sa.
Passano tutta la vita meditando
e muovendo i loro rami.
Basta guardarli in autunno
quando si riuniscono nei parchi:
soltanto i più vecchi conversano,
quelli che donano le nuvole e gli uccelli,
ma la loro voce si perde tra le foglie
e assai poco percepiamo, quasi niente.

È difficile riempire un piccolo libro
coi pensieri degli alberi.
Tutto in essi è vago, frammentario.
Oggi, ad esempio, mentre ascoltavo il grido
di un tordo nero, di ritorno verso casa,
grido ultimo di chi non attende un’altra estate,
ho capito che nella sua voce parlava un albero,
uno dei tanti,
ma non so cosa fare di quel grido,
non so come trascriverlo.

(da Alcune parole, 1976)

    ***

TERREDAD

Estar aquí por años en la tierra,
con las nubes que lleguen, con los pájaros,
suspensos de hora frágiles.
A bordo, casi a la deriva,
más cerca de Saturno, más lejanos,
mientras el sol da vuelta y nos arrastra
y la sangre recorre su profundo universo
más sagrado que todo los astros.

Estar aquí en la tierra: non más lejos
que un árbol, no más inexplicables;
livianos en otoño, henchidos en verano,
con lo que somos o no somos, con la sombra,
la memoria, el deseo, hasta el fin
(si hay un fin) voz a voz,
casa por casa,
sea quien lleve la tierra, si la llevan,
o quien la espere, si la aguardan,
partiendo juntos cada vez el pan
en dos, en tres, en cuatro,
sin olvidar la parte de la hormiga
que seimpre viaja de remotas estrellas
para estar a la hora en nuestra cena
aunque las miga sean amargas.

(de Terredad, 1978)

TERRITUDINE

Essere qui per anni sulla terra,
con le nuvole che arrivano, con gli uccelli,
sospesi ad ore fragili.
A bordo, quasi alla deriva,
più vicini a Saturno, più lontani,
mentre il sole gira e ci trascina
e il sangue percorre il suo profondo universo
più sacro di tutti gli astri.

Essere qui sulla terra: non più lontani
di un albero, non più inspiegabili;
lievi in autunno, rigonfi in estate,
con ciò che siamo o non siamo, con l’ombra,
la memoria, il desiderio, fino alla fine
(se c’è una fine) voce a voce,
casa per casa,
sia chi porta la terra, se la portano,
sia chi l’aspetta, se l’aspettano,
ogni volta spezzando insieme il pane
in due, in tre, in quattro,
senza dimenticare gli avanzi della formica
che viene sempre da remote stelle
per essere puntuale all’ora della nostra cena
benché amare siano le briciole.

(da Territudine, 1978)

    ***

GÜIGUE 1918

a Juan Liscano

Ésta es la tierra de los míos, que duermen, que no duermen,
largo valle de cañas frente a un lago,
con campanas cubiertas de siglos y polvo
que repiten de noche los gallos fantasmas.
Estoy a veinte años de mi vida,
no voy a nacer ahora que hay peste en el pueblo,
las carretas se cargan de cuerpos y parten;
son pocas las zanjas abiertas;
las campanas cansadas de doblar
bajan y cavan.
Puedo aguardar, voy a nacer muy lejos de este lago,
de sus miasmas;
mi padre partirá con los que queden,
lo esperaré más adelante.
Ahora soy esta luz que duerme, que no duerme;
atisbo por el hueco de los muros;
los caballos se atascan en fango y prosiguen;
miro la tinta que anota los nombres,
la caligrafía salvaje que imita los pastos.
La peste pasará. Los libros en el tiempo amarillo
seguirán tras las hojas de los árboles.
Palpo el temblor de llamas de las velas
cuando las procesiones recorren las calles.
No he de nacer aquí,
hay cruces de zábila en las puertas
que no quieren que nazca;
queda mucho dolor en las casas de barro.
Puedo aguardar, estoy a veinte años de mi vida,
soy el futuro que duerme, que no duerme;
la peste me privará de voces que son mías,
tendré que reinventar cada ademán, cada palabra.
Ahora soy esta luz al fondo de sus ojos;
ya naceré después, llevo escrita mi fecha;
estoy aquí con ellos hasta que se despidan;
sin que puedan mirarme me detengo:
quiero cerrarles suavemente los párpados.

(de Terredad, 1978)

GÜIGÜE 1918

a Juan Liscano

Questa è la terra dei miei, che dormono, che non dormono,
lunga valle di canne di fronte a un lago,
con campane ricoperte di secoli e di polvere
che ripetono di notte i galli fantasmi.
Sono a vent’anni dalla mia vita,
non nascerò adesso che c’è la peste nel villaggio,
i carretti sono carichi di corpi e partono;
sono poche le fosse aperte;
le campane, stanche di suonare,
scendono e scavano.
Posso attendere, nascerò molto lontano da questo lago,
dai suoi miasmi;
mio padre partirà con i sopravvissuti,
lo aspetterò più avanti.
Adesso sono questa luce che dorme, che non dorme;
spio dai fori nei muri;
i cavalli sprofondano nel fango e proseguono;
osservo l’inchiostro che annota i nomi,
la calligrafia selvaggia che imita i pascoli.
La peste passerà. I libri nel tempo giallo
verranno dietro le foglie degli alberi.
Avverto il tremore delle fiamme delle candele
mentre le processioni percorrono le strade.
Non nascerò qui,
ci sono croci di aloè sulle porte
che non vogliono che io nasca;
resta molto dolore nelle case di argilla.
Posso attendere, sono a vent’anni dalla mia vita,
sono il futuro che dorme, che non dorme;
la peste mi priverà di voci che sono mie,
dovrò reinventare ogni gesto, ogni parola.
Adesso sono questa luce nel fondo dei loro occhi;
nascerò dopo, porto scritta la mia data;
sono qui con loro fino a quando non se ne andranno;
senza che possano guardarmi mi fermo:
voglio chiudere dolcemente i loro occhi.

(da Territudine, 1978)

    ***

CREO EN LA VIDA

Creo en la vida bajo forma terrestre,
tangible, vagamente redonda,
menos esférica en sus polos,
por todas partes llena de horizontes.

Creo en las nubes, en sus páginas
nítidamente escritas
y en los árboles, sobre todo al otoño.
(A veces creo que soy un árbol).

Creo en la vida como terredad,
como gracia y desgracia.
– Mi mayor deseo fue nacer,
a cada vez aumenta.

Creo en la duda agónica de Dios,
es decir, creo que creo,
anque de noche, solo,
interrogo a las piedras,
pero non soy ateo de nada
salvo de la muerte.

(de Terredad, 1978)

CREDO NELLA VITA

Credo nella vita sotto forma terrestre,
tangibile, vagamente rotonda,
meno sferica ai poli,
dappertutto piena di orizzonti.

Credo nelle nuvole, nello loro pagine
nitidamente scritte
e negli alberi, soprattutto d’autunno.
(Talvolta mi pare d’essere un albero).

Credo nella vita come territudine,
come grazia o disgrazia.
– Il mio desiderio più grande fu quello di nascere,
e ogni volta continua ad aumentare.

Credo nel dubbio agonico di Dio,
vale a dire, credo che credo,
anche se la notte, da solo,
interrogo le pietre,
ma non sono ateo rispetto a nulla,
tranne che alla morte.

(da Territudine, 1978)

    ***

TRÓPICO ABSOLUTO

Palmares azules y blancos,
nítido sol marino a la orilla de la costa,
viento yodado, cuerpos desnudos, oleajes…
Estoy contemplando esta tierra como si la viese por primera vez
o fuese a dejarla.
Me aferro a ella, celebro su antiguo deseo
en cada roca, en cada pequeño guijarro.
El mismo paisaje modulando las voces
tantas veces oídas en ciudades y aldeas,
el mismo sol que ardía
en las absortas retinas de mis padres.
Ya no sé si la veo desde otro mundo
y vago ausente ahora
a través de los aires soñando.
Esta luz me compendia la vida y la muerte
en un haz de flotantes colores
que mi silencio me dibuja en palabras.
En esta luz la falsa perla del truhán,
la negra de turbante que se santigua,
los harapos del niño buhonero,
el alcatraz, la cigarra, el bochorno de las marismas,
se me despliegan en un vasto arco iris
donde la magia del trópico absoluto
crece en un grito al fondo de mi sangre.

(de Trópico absoluto, 1982)

TROPICO ASSOLUTO

Palmeti azzurri e bianchi,
splendente sole marino sulla costa,
vento iodato, corpi nudi, mareggio…
Sto contemplando questa terra come se la vedessi per la prima volta
o stessi per lasciarla.
Ad essa mi afferro, celebro l’antico desiderio
in ogni roccia, in ogni piccolo ciottolo.
È lo stesso paesaggio che modula le voci
tante volte sentite in città e villaggi,
lo stesso sole che bruciava
nelle assorte retine dei miei genitori.
Non so più se questa terra la vedo da un altro mondo
e ora vago assente
attraverso i tratti del sogno.
Questa luce ha in sé la vita e la morte
in un fascio di fluttuanti colori
che il mio silenzio mi disegna in parole.
In questa luce la falsa perla del truffatore
la donna nera col turbante che si fa il segno della croce,
gli stracci del bimbo venditore ambulante,
l’alcatraz, la cicala, la calura delle maremme,
mi appaiono in un ampio arcobaleno
dove la magia del tropico assoluto
cresce in un urlo nel profondo del mio sangue.

(da Tropico assoluto, 1982)

    ***

ALFABETO DEL MUNDO

En vano me demoro deletreando
el alfabeto del mundo.
Leo en las piedras un oscuro sollozo,
ecos ahogados en torres y edificios,
indago la tierra por el tacto
llena de ríos, paisajes y colores,
pero al copiarlos siempre me equivoco.
Necesito escribir ciñéndome a una raya
sobre el libro del horizonte.
Dibujar el milagro de esos días
que flotan envueltos en la luz
y se desprenden en cantos de pájaros.
Cuando en la calle los hombres que deambulan
de su rencor a su fatiga, cavilando,
se me revelan más que nunca inocentes.
Cuando el tahúr, el pícaro, la adúltera,
los mártires del oro o del amor
son sólo signos que no he leído bien,
que aún no logro anotar en mi cuaderno.
Cuánto quisiera al menos un instante
que esta plana febril de poesía
grabe en su transparencia cada letra:
la o del ladrón, la t del santo
el gótico diptongo del cuerpo y su deseo,
con la misma cósmica piedad
que la vida despliega ante mis ojos.

(de Alfabeto del mundo, 1986)

ALFABETO DEL MONDO

Invano mi attardo a decifrare
l’alfabeto del mondo.
Leggo nelle pietre un oscuro singhiozzo,
echi soffocati tra torri e palazzi,
grazie al tatto indovino la terra
piena di fiumi, paesaggi e colori,
ma quando li copio mi sbaglio sempre.
Per scrivere devo aggrapparmi a una linea
sul libro dell’orizzonte.
Disegnare il miracolo di quei giorni
che galleggiano avvolti nella luce
e si liberano in canti di uccelli.
Quando in strada gli uomini che oscillano
dal rancore alla fatica, cavillosi,
mi si rivelano più che mai innocenti.
Quando il baro, il furfante, l’adultera,
i martiri dell’oro o dell’amore
sono soltanto segnali che non ho saputo leggere,
che ancora non riesco ad annotare nel mio quaderno.
Quanto vorrei che almeno per un istante
questa pagina febbricitante di poesia
incidesse ogni lettera nella sua trasparenza:
la o del ladro, la t del santo
il gotico dittongo del corpo e del suo desiderio,
con la stessa scrittura del mare sulle sabbie,
la stessa cosmica pietà
che la vita distende davanti ai miei occhi.

(da Alfabeto del mondo, 1986)

    ***

EL CANTO DEL GALLO

a Adriano González León

El canto está fuera del gallo;
está cayendo gota a gota entre su cuerpo,
ahora que duerme en el árbol.
Bajo la noche cae, no cesa de caer
desde la sombra entre sus venas y sus alas.
El canto está llenando, incontenible,
al gallo como un cántaro;
llena sus plumas, su cresta, sus espuelas,
hasta que lo desborda y suena inmenso el grito
que a lo largo del mundo sin tregua se derrama.
Después el aleteo retorna a su reposo
y el silencio se vuelve compacto.
El canto de nuevo queda fuera
esparcido a la sombra del aire.
Dentro del gallo sólo hay vísceras y sueño
y una gota que cae en la noche profunda,
silenciosamente, al tic-tac de los astros.

(de Alfabeto del mundo, 1986)

IL CANTO DEL GALLO

a Adriano Gonzàlez Leòn

Il canto è al di fuori del gallo;
goccia a goccia sta cadendo nel suo corpo,
ora che dorme sull’albero.
Sotto la notte cade, non smette di cadere
dall’ombra tra le sue vene e le sue ali.
Il canto sta riempiendo, incontenibile,
il gallo come fosse un’anfora;
riempie le sue piume, la sua cresta, i suoi speroni,
fino a straripare e si ode immenso il grido
che attraverso il mondo si sparge senza tregua.
Poi il battito delle ali torna alla sua quiete
e il silenzio si addensa.
Nuovamente il canto resta fuori
diffuso all’ombra dell’aria.
Dentro al gallo ci sono solo viscere e sonno
e una goccia che cade nella notte profonda,
silenziosamente, al ticchettio degli astri.

(da Alfabeto del mondo, 1986)

    ***

LAS RANAS

No más teorías: me sumo al coro de las ranas.
Quiero oírlas croar esta noche, rodeándome.
En su alfabeto percibo una sola vocal
y las burbujas del pantano.
El piano que nos dieron marca las mismas notas
ya demasiado repetidas. Basta.
Tal vez sea un ángel esa sombra
que se eleva a la puerta de mi caverna.
No me consta.
La oscuridad de Dios nunca deja ver nada claro.
El tiempo puede girar en redondo,
depende de la lluvia, del viento entre los árboles.
No más teorías: ya oímos al espectro,
acallemos al Príncipe Hamlet.
Por hoy me bastan las voces de las ranas,
quiero oírlas croar esta noche más cerca
dejando que me llenen los sentidos
con su taoísmo solitario
hasta que se borren los enigmas del mundo.
En sus coros me entrego a la máxima gracia.

(de Alfabeto del mundo, 1986)

LE RANE

Non più teorie: mi unisco al coro delle rane.
Voglio sentirle gracidare stanotte, circondandomi.
Nel loro alfabeto percepisco una sola vocale
e il gorgoglio dello stagno.
Il piano che ci hanno dato suona le medesime note
fin troppo ripetute. Basta.
Forse è un angelo quell’ombra
che s’innalza all’entrata della mia caverna.
Non mi risulta.
Le tenebre di Dio mai lasciano vedere qualcosa chiaramente.
Il tempo può girare intorno,
dipende dalla pioggia, dal vento tra gli alberi.
Non più teorie: abbiamo già ascoltato lo spettro,
zittiamo il Principe Amleto.
Per oggi mi bastano le voci delle rane,
voglio sentirle gracidare stanotte più vicine
lasciando che riempiano i miei sensi
con il loro taoismo solitario
fino a cancellare i misteri del mondo.
Con i loro cori mi abbandono all’estrema grazia.

(da Alfabeto del mondo, 1986)

    ***

PARTITURA DE LA CIGARRA

XII

La cigarra no canta por ocio,
no vino a distraerse,
su grito forestal no es el adorno
de algún aire bucólico,
el canto ha sido siempre su trabajo.
Está escrito en su errante partitura,
el mismo de ayer y de mañana,
el canto que escuchamos en ella y en su ausencia,
el que no cesa de sonar en su ceniza,
el mismo que los muertos siguen escuchando.

No hay sosiego en su grito,
no hay vanidad ni gota de mentira,
el canto es ella misma,
está atado a su cuerpo como un ala.
Hacerlo oír, traerlo aquí a la tierra,
a quienes ya no están pero lo oyen
y a quienes más tarde no estaremos,
prodigarlo en el mundo es su trabajo.

Siempre tendremos más canto que cigarra,
(se gasta el cuerpo en breve,
desaparecen ojos, alas, sombras,
pero nos queda intacto lo cantable),
siempre tendremos más tierra que existencia
y más canto que tierra
y más ausencia que nostalgia.

Ya sé que un día no volveré a estos bosques,
nadie sabrá a qué espacio mi vida se retira
hasta quedar oculta en el misterio,
rodeada de clamores incesantes,
y será como ayer, como mañana o nunca,
sin horas ni deshoras sino un íngrimo grito
que crezca con la noche y me acompañe.

(de Partitura de la cigarra, 1999)

PARTITURA DELLA CICALA

XII

La cicala non canta per ozio,
non è venuta per distrarsi,
il suo grido forestale non è l’addobbo
di una qualsiasi aria bucolica,
il canto è sempre stato il suo lavoro.
Esso è scritto nella sua errante partitura,
il solito di ieri e di domani,
il canto che ascoltiamo da lei e in sua assenza,
quello che nella sua cenere ancora suona,
lo stesso che i morti continuano a sentire.

Non c’è riposo nel suo grido,
né vanità né goccia di menzogna,
il canto è lei stessa,
è legato al suo corpo come un’ala.
Farlo ascoltare, portarlo sulla terra,
per coloro che non ci sono più eppure l’ascoltano,
per chi come noi più tardi mancheremo,
diffonderlo nel mondo: è questo il suo lavoro.

Avremo sempre più canto che cicala,
(il corpo si consuma presto,
scompaiono occhi, ali, ombre,
ma ci rimane intero il cantabile),
avremo sempre più terra che esistenza
e più canto che terra
e più assenza che nostalgia.

So bene che un giorno non tornerò in questi boschi,
nessuno saprà in quale spazio la mia vita si ritira
fino a restare occulta nel mistero,
circondata da incessanti clamori,
e sarà come ieri, come domani o come mai,
senza ore opportune o inopportune, solo con un grido
solitario che cresce nella notte e viene via con me.

(da Partitura della cicala, 1999)

    ***

MIENTRAS GIRE AL TIERRA

Déjame que te ame mientras gire la tierra
y los astros inclinen sus cráneos azules
sobre la rosa de los vientos.
Flotando, a bordo de este día
en que al azar, por un instante,
despertamos tan cerca.
Pude vivir en otro reino, en otro mundo,
a muchas leguas de tus manos, de tu risa,
en un planeta remoto, inalcanzable.
Pude nacer hace ya siglos
cuando en nada existías
y en mis angustias de horizonte
adivinarte en sueños de futuro,
per mis huesos a esta hora
ya serían árboles o piedras.
No fue ayer ni mañana, en otro tiempo,
en otro espacio,
ni ocurrirá ya nunca,
aunque la eternidad cargue sus dados
a favor de mi suerte.
Déjame que te ame mientras la tierra siga
gravitando al compás de sus astros
y en cada minuto nos asombre
este frágil milagro de estar vivo.
No me abandones hasta que ella se detenga.

(de Papiros amorosos, 2003)

FINO A QUANDO GIRERÁ LA TERRA

Lascia che ti ami fino a quando girerà la terra
e gli astri inchinino i loro cranei azzurri
sulla rosa dei venti.
Galleggiando, a bordo di questo giorno
nel quale per caso, per un istante,
ci siamo destati così vicini.
Ho potuto vivere in un altro regno, in un altro mondo,
a molte leghe dalle tue mani, dal tuo sorriso,
su un pianeta remoto, irraggiungibile.
Sono potuto nascere secoli fa
quando non esistevi in nulla
e nelle mie ansie di orizzonte
potevo indovinarti in sogni di futuro,
ma le mie ossa a quest’ora
non sarebbero che alberi o pietre.
Non è stato ieri né domani, in un altro tempo,
in un altro spazio,
né giammai accadrà
quantunque l’eternità lanci i suoi dadi
a favore della mia fortuna.
Lascia che ti ami fino a quando la terra
graviterà al ritmo dei suoi astri
e ad ogni istante ci stupisca
questo fragile miracolo di esser vivi.
Non abbandonarmi fino a quando essa non si fermerà.

(da Papiri amorosi, 2002)

EUGENIO MONTEJO

È nato a Caracas, Venezuela, nel 1938, dove vive tutt’ora. Come diplomatico ha lavorato spesso all’estero. È uno dei fondatori del gruppo letterario che fin dal 1971 pubblica la rivista “Poesía”. La sua vasta opera è dedicata soprattutto alla poesia, non soltanto come poeta in proprio, ma anche come studioso e critico.

Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche:

  • 1967 Élegos (Venezuela)
  • 1972 Muerte y Memoria (Venezuela)
  • 1976 Algunas Palabras (Venezuela)
  • 1978 Terredad (Venezuela)
  • 1982 Trópico absoluto (Venezuela)
  • 1986 Alfabeto del mundo (antologia uscita in Messico, che contiene una nuova raccolta, la stessa che dà il titolo al libro, con prefazione di Américo Ferrari)
  • 1992 Adiós al siglo XX (Venezuela)
  • 1999 Partitura de la cigarra (Spagna)
  • 2003 Papiros amoros (Spagna)

Come Pessoa, Montejo si crea alcuni eteronimi e scrive delle raccolte con caratteristiche specifiche: El cuaderno de Blas Coll (1981) e Guitarra del horizonte (1991).

Ha scritti diversi libri di saggi e ha ricevuto vari premi, tra i quali quello del Consejo Nacional de la Cultura (Venezuela, 1981), il “Premio nazionale di letteratura” (Venezuela, 1998) e il “Premio internazionale di poesia e saggistica Octavio Paz” (Messico, 2004).

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