W i fuochi di S. Antonio !

La festa di S. Antonio Abate e il suo simbolismo

A riscaldare l’aria gelida di metà gennaio giunge a proposito la festa di S. Antonio Abate con il falò, la corsa, il Carnevale.

“Nevicò ancor prima di sera – scrive con struggente nostalgia Gerardo Acierno – e prima ancor che cumbà Saverio suonasse le campane per la funzione, la fanoia ardeva incredibilmente alta: la festa di Sant’Antonio era iniziata”1.

E sì, la festa di S. Antonio inizia a Pignola – e non solo a Pignola – con la fanoia2. Voce greca che significa ‘lanterna, lume, face’, e nel dialetto pignolese è passata a denominare il ‘falò’.

La fanoia è fuoco. Fuoco intenso che ci riporta ad antichi culti, miti, riti. Ad antichi significati che, a saperli decifrare, sopravvivono, incredibilmente, fino ai nostri giorni.

S. Antonio – dice ancora Gerardo Acierno – è il “protettore del fuoco”.

Il fuoco si accende la vigilia. Arde finché non si consuma la legna questuata. La questua, in sé e per sé, è mortificazione, che, in questo caso, diventa atto penitenziale. Diventa rito sacrificale a cui partecipa tutta la comunità: tanto chi chiede quanto chi dà. Quando le fiamme scemano, i mulattieri, vigili guardiani del fuoco, permettono, finalmente, che la brace venga raccolta e portata a casa da chiunque. Se il fuoco è guardato a vista, significa che possiede un valore sacro; e la sua brace ha perciò potere apotropaico. Terrà infatti lontane le sciagure e neutralizzerà le forze malefiche sempre in agguato. E forse, in tal guisa, si cerca di esorcizzare antiche e nuove paure.

S. Antonio protettore del fuoco! Titolo che, in realtà, gli deriva da alcune leggende.

Secondo una leggenda, principalmente sarda, S. Antonio avrebbe rubato il fuoco per permettere agli uomini di riscaldarsi e farne buon uso. Sarebbe sceso all’inferno e, dopo aver acceso il suo bastone, sarebbe tornato sulla terra3.

Su questa funzione attribuita a S. Antonio non tutti gli studiosi sono d’accordo. Vi si oppone, per esempio, Raffaele Corso, che definisce infondata l’opinione per la quale si vorrebbe ravvisare un travestimento, in chiave cristiana, del mito di Prometeo. “Infatti – osserva l’etnologo calabrese – le ricorrenze in cui figurano le fiammate, oltre quella del nostro santo, sono numerosissime”4.

Secondo una leggenda lucana S. Antonio nacque da madre sterile, la quale, pur di avere un figlio, strinse un patto con il diavolo. All’età di dodici anni, come convenuto, Antonio, o meglio Anduonë, dovette abbandonare la madre e andare a vivere con i diavoli, che lo nominarono protettore dell’inferno5.

La stessa leggenda, con una variante, ce la trasmette la tradizione abruzzese. Un bel giorno i genitori del santo decisero di recarsi in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela e, come voleva il costume del tempo, si sarebbero dovuti astenere dai rapporti sessuali per tutta la durata del viaggio; ma il diavolo ci mise la coda e così, senza accorgersene, cedettero ai piaceri della carne. Quando la donna si rese conto di essere incinta, credette bene di punire la sua leggerezza con l’offrire a Satana il nascituro6.

Altri studiosi, invece, l’abbiamo già visto a proposito del Carnevale, considerano il Santo col maialino un epigono delle divinità ctonie, in quanto “il significato di questi fuochi – afferma Annabella Rossi -, generalmente interpretato come purificatore, può essere anche un segno preciso di relazione con il mondo degli inferi, con la morte; esso fa parte di quel viaggio sotterraneo nel corso del quale gli uomini eseguono una serie di riti propiziatori per favorire la germinazione del seme”7. E l’antropologa ribadisce questo concetto sottolineando che il “legame bastone-fuoco, fuoco-sesso è tematica diffusissima nella psicologia moderna. Questo fuoco di S. Antonio Abate, santo collegato strettamente al ciclo di carnevale, è attributo solare di una divinità che muore e risuscita, segno ambivalente che implica la morte e nello steso tempo la vita, la fertilità”8. Per cui S. Antonio, per dirla con il Di Nola, risulta uno di quei “santi ambigui i quali hanno alcuni tratti che li avvicinano alle potenze demoniache”9.

Al fuoco dei falò segue, il giorno della festa, la corsa, che si compie in tre giri attorno alla chiesa dedicata appunto a S. Antonio. Perché si fanno tre giri nessuno lo sa: si è fatto sempre così, è la risposta consueta.
La stessa domanda Nicola Martelli l’ha posta a un contadino di Tricarico. A Tricarico non si fa la corsa, ma gli animali compiono ugualmente tre giri attorno alla chiesa. “È quello della benedizione. Infatti, tutti quelli che passano con gli animali – spiega l’intervistato -, chi un mulo, chi un cavallo, fanno i tre giri e se ne vanno”10. Il contadino, evidentemente, intuisce il magico ma non sa spiegarselo.

“Si fanno tre giri intorno alla chiesa – dice un altro contadino a Martelli – e così passa il male all’animale”.
L’usanza è antica e diffusa. La troviamo a Napoli all’inizio dell’Ottocento e il canonico De Iorio ce la tramanda con queste parole: “Nel giorno 17 del mese di Gennajo si celebra la festa di S. Antonio Abate nella sua chiesa, ed in tutte le domeniche, che capitano fino al primo di Quaresima. In tali giorni i Napolitani vi conducono i cavalli ben ornati di nastri, e dopo averli fatti benedire, ed arricchiti di collane di ciambelle di ogni specie, fanno tre volte il giro della chiesa, e tutti allegri se ne tornano nelle proprie case”11.

Il racconto del De Iorio ci fa venire in mente che una tradizione locale vuole che a Pignola la prima corsa antonina si svolse in onore della regina Giovanna II d’Angiò, la quale, essendo avvezza a venire da queste parti, ebbe a cuore la costruzione della cappella di S. Antonio.

Ma perché tre giri, e non due o quattro? I tre giri acquistano, in questo caso, un preciso significato simbolico e rituale. I numeri hanno infatti una loro valenza magica, sacra. Il tre, in ambito cristiano, rappresenta la Trinità, il “puro spirito astratto”. Tre erano, in origine, i bracci della croce: poi diventarono quattro (e il quattro è il numero della “corporeità”, della “totalità”). E tre rebbi ha il tridente di Nettunio e il tridente (trisciula in sanscrito) del dio indiano Šiva.

Il tre ha anche implicanze sessuali: tre sono gli attributi sessuali maschili; e il tre, per i pitagorici, rappresenta l’unione dell’uomo con la donna. Il suo multiplo nove rappresenta la gravidanza compiuta. Ai tre giri della corsa possiamo quindi attribuire significato sessuale, potere fecondante. Significato che viene ancor più rafforzato dal cavalcare a pelo.

Anche il girare attorno alla chiesa nasconde un suo significato simbolico: giro ci viene dal greco gyros, che significa “cerchio”. Si presuppone che il giro si compia, almeno idealmente, su un percorso circolare. Anche il cerchio ha un suo valore magico, sacro. Ha, infatti, forma circolare il sole, l’orizzonte, i mandala buddisti e cristiani. Abbiamo poi il cerchio zodiacale e il cerchio magico che traccia per terra il mago prima di compiere le sue magie. Il cerchio – insegna Jung – simboleggia la totalità12. Quindi la perfezione, il supremo, il divino. La corsa attorno alla chiesa ha la funzione di delimitare lo spazio sacro. È necessario, perché l’atto magico abbia effetto, separare il sacro dal profano. E, poi, non possiamo non notare che il rincorrersi degli animali sembra imitare il rincorrersi delle stagioni, il fluire del tempo. Non a caso il tempo trova la sua rappresentazione simbolica nell’uroboros, il serpente dell’eternità che si morde la coda.

La corsa è finita: “la folla ora si accalca sui gradini della casa di Leonilde o sul ferro che delimita la piazza – continua a raccontare la vivace penna di Gerardo Acierno, nel suo amarcord pignolese -, si attende il vincitore, si esulta, si commenta, qualcuno piange e altri ridono mentre Nozzi e Chiapparò, vestiti da parati assaporano vermicelli e salame nel bianco pisciaturo: è entrato Carnevale!”13.

E come non poteva non entrare Carnevale. Le feste sono anelli di catena che si articolano in una sequenza logica, non casuale. Quindi tutto lo lasciava presagire: l’insieme degli elementi che abbiamo analizzato palesa la sua ambivalenza di morte e pulsione generativa. Perché qualcosa si rigeneri è giusto che prima muoia: la fenice brucia per rinascere più bella, il seme marcisce per rinascere fiore. Il Carnevale non è vita: è morte. È la morte che viene esorcizzata con il riso, lo sberleffo, l’osceno.

Sebastiano Rizza

NOTE
1. Gerardo Acierno, Pignolerie, 1987, p. 29.
2. Fucanoië a Picerno (Maria Teresa Greco, Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito, Napoli, 1990.
3. Carlo Lapucci, La bibbia dei poveri, Milano, 1985, p. 237.
4. Raffaele Corso, s. v. S. Antonio, in “Enciclopedia Italiana Treccani”, 1949, vol. III, p. 564.
5. Alberto Latronico, I Coribandi superstiti, in “Le vie d’Italia”, Milano, aprile 1922.
6. Alfonso M. Di Nola, Il diavolo, 1980, p. 147.
7. Annabella Rossi e Roberto De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, 1977, p. 61.
8. Annabella Rossi e Roberto De Simone, op. cit., p. 63.
9. Alfonso M. Di Nola, op. cit., p. 151.
10. Nicola Martelli, Contadini e cultura, Potenza, 1994, p. 114.
11. Andrea De Iorio, Indication des choses les plus remarquables qui existent à Naples et dans ses environs, Napoli, 1818.
12. Sul simbolismo del cerchio si veda: Evhen Onatsky, Il circolo magico nelle credenze e negli usi del popolo ucraino, in “Nuova Antologia”, Roma, 16 ottobre 1930.
13. Gerado Acierno, op. cit., p. 31

http://digilander.libero.it/cultura.popolare/pignola/tradizioni/santantonio.html

SANT’ANTONIO TRA PROVERBI E STORIA

Bisogna ammettere che la maggior parte delle feste popolari di origine religiosa, rischiano spesso di diventare pagane. E’ forse interessante cercare di capire chi era questo Santo di nome Antonio che oggi celebriamo dopo circa 1800 anni dalla sua morte.

La festa di Sant’Antonio Abate era in passato una delle ricorrenze più sentite nelle comunità contadine. Anche oggi è piuttosto diffusa, soprattutto nelle zone rurali e nei paesi della provincia dove le tradizioni sono molto più radicate che nelle grandi città. Il Santo spesso era rappresentato con lingue di fuoco ai piedi e aveva in mano un bastone alla cui estremità era appeso un campanellino; sul suo abito spiccava il tau, croce egiziana a forma di “T”, simbolo della vita e della vittoria contro le epidemie, cosa a cui sembra alludere anche il campanello. Malgrado tutte queste connotazioni “agresti” attribuitegli da una tradizione secolare, in realtà Antonio aveva poco o nulla a che fare col mondo contadino: era infatti un eremita ed un asceta tra i più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico.

Antonio, nacque in Egitto, a Coma intorno all’anno 250. Malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste ed ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione, e alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri. Compiuta la sua scelta di vivere come un eremita, si ritirò dunque in solitudine a lavorare e a pregare. Trascorse molti anni vivendo in un’antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se fosse rimasto nel mondo. A queste provocazioni Antonio rispondeva con digiuni e penitenze di ogni genere, riuscendo sempre a trionfare. Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, fu molto longevo: la morte lo colse infatti all’età di 105 anni, il 17 gennaio del 355 (o356). La sua tomba fu subito oggetto di venerazione.

I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di Sant’Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio Abate un vero e proprio “santo del popolo”. Egli è considerato il protettore per eccellenza contro le epidemie di certe malattie, sia dell’uomo, sia degli animali. E’ infatti invocato come protettore del bestiame (che durante la festa viene benedetto), dei macellai e dei salumieri e la sua effigie era in passato collocata sulla porta delle stalle. Il santo veniva invocato anche per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes nota appunto come “fuoco di Sant’Antonio”. Questo morbo invase ripetutamente l’Europa tra il X e il XVI secolo, e fu proprio in questo periodo che si diffuse la credenza nei suoi poteri contro questo male.

La festa di Sant’Antonio è ancora oggi molto viva in molte parti di Italia, tra cui la nostra Bagnaia, ma anche in Brianza, dove la si celebra tra frittelle e vino brûlé, ed ovviamente tra i falò. Antonio infatti era considerato il patrono del fuoco. Secondo alcuni i riti attorno alla sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica presso i quali è nota l’importanza che rivestiva il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante. Una festa, dunque, di origini antichissime, festeggiare la quale significava e significa, ogni anno, scatenare le forze positive e, grazie all’elemento apotropaico del fuoco, sconfiggere il male e le malattie sempre in agguato. Una festa di buon auspicio per il futuro e all’insegna dell’allegria, in passato ma anche oggi.

In molte parti di Italia, la figura e la celebrazione della festa del Santo si accompagna con l’ uso di detti proverbiali diffusi a livello popolare tramite i quali lo si invoca. Questi modi di dire si declinano in varietà differenti secondo i dialetti e le tradizioni della popolazione. Facciamo un breve giro di Italia per ricordarne alcuni tra i più famosi.

Nel Sud dell’ Italia è molto diffuso “Sant’Antonio di velluto, fammi ritrovare quello che ho perduto” in quanto si è diffusa nel tempo a livello popolare una sorta di giaculatoria scaramantica, nella quale si invoca il Santo per ritrovare qualcosa che si è smarrito. A Varese invece, in Lombardia, la festività di Sant’Antonio Abate è molto sentita: qui il detto si trasforma in “Sant’Antoni dala barba bianca famm’truà che’l che ma manca, Sant’Antoni du’l purscel famm’truà propri che’l” ossia “Sant’Antonio dalla barba bianca fammi trovare quello che mi manca, Sant’Antonio fammi trovare proprio quello”. In Piemonte invece si dice: “Sant’Antoni fam marié che a son stufa d’tribilé” ossia “Sant’Antonio fammi sposare che sono stufa di tribolare”, invocazione che le donne in cerca di marito fanno al Santo per potersi presto sposare.

In Serrano, dialetto parlato in provincia di Foggia, si dice “A Sènt’Endòn ‘llong n’or”, con riferimento al fatto che a partire dal 17 gennaio, la durata media del giorno, inteso come ore di luce, è di un’ora più lunga rispetto al giorno più corto, tradizionalmente fissato nel giorno di Santa Lucia, ossia il 13 dicembre. Nel Comune di Teora in provincia di Avellino invece si usa dire “Chi bbuon’ carnuval’ vol’ fà da sant’Antuon’ adda accum’enzà”, ossia “Chi buon carnevale vuole fare da sant’Antonio deve iniziare” e “Sant’Antuon… masc’ch’re e suon'” ovvero “Sant’Antonio….. maschere e suoni”. In Veneto vige il detto “A Nadal un passo de gal e a Sant’Antonio un passo del demonio” riferendosi al progressivo allungamento delle giornate. Nella tradizione contadina umbro-marchigiana troviamo invece “A Natale ‘na pedeca de cane, a Sant’Antò un’ora ‘vò” che sarebbe “A Natale un passo di cane, a Sant’Antonio un’ora in avanti”.

In Napoletano infine si usa: “Chi festeggia Sant’Antuono, tutto l’anno ‘o pass’ bbuon”. Ed è proprio a quest’ ultimo proverbio che in conclusione vogliamo affidarci con l’auspicio di passare anche noi un piacevole 2015. Sarà quindi il caso di dirlo alla bagnaiola “Chi festeggia Sant Antonio, tutto ell’anno le passa bono”. E chi più ne ha, più ne metta!Evviva Sant’ Antonio!

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