minimumfax ci fa conoscere Chris Offutt – segatura racconto da osservatoriocattedrale

«Oggi, è opinione diffusa che New York sia la capitale letteraria degli Stati Uniti. Ma è davvero così? Che cosa può aspettarsi di trovare a New York, uno scrittore alle prime armi?»

Così scriveva Saul Bellow in un magnifico saggio sul futuro del romanzo.

A New York e dintorni sono confluiti, nel corso dei decenni, quasi tutti i maggiori scrittori americani, alimentando una narrativa elegante, metropolitana e liberal, che è stata esportata e imposta in tutto il mondo.

C’è però chi ha preferito rimanere testardamente rintanato nelle province dell’impero, convinto che le storie di reietti e perdenti potessero dirci tanto sull’America e sul suo destino.

Con Nelle terre di nessuno, raccolta di esordio di Chris Offutt cominciamo l’esplorazione di un’altra America: quella che stenta a sopravvivere, che tira avanti tra mille affanni, che dorme con una pistola sotto il cuscino.

Segherie abbandonate; vecchie baracche dove si gioca a poker e le partite rischiano di finire a colpi di pistola; bar fumosi in cui tutti gli avventori si conoscono, e molti coltivano antichi rancori. Figli senza padri, alla deriva; famiglie nelle quali nessuno lavora, ma che l’assistenza sociale sembra aver dimenticato.

Paesaggi di brutale bellezza, alcol e fucili, rabbia e rassegnazione. E ad aleggiare su tutto, l’amore lancinante e doloroso per una terra da cui si parte – ma quasi sempre per farvi ritorno e rimanere – e una testarda, assurda, commovente speranza di riscatto.

Con Nelle terre di nessuno, la grande tradizione del racconto americano si arricchisce di un nuovo, potente capitolo.

Le storie di Offutt, dure ma cariche di emozione, ci guidano in un Kentucky solo apparentemente marginale, e sanno narrarci con profonda empatia la sublime desolazione, il culto della violenza e la fame d’amore che si nascondono nell’America più ignota e dimenticata; in quei paesi che, come scriveva Mark Strand, nessuno visita mai.

https://www.minimumfax.com/blog/magazine-1/post/luca-briasco-racconta-chris-offutt-1367

Nel sud degli Stati Uniti il whiskey si fa con il granturco e si chiama Bourbon. Se si rispettano tutte le regole stabilite dall’autorità federale sulla procedura di produzione (il tipo di botte usato, gli ingredienti prescelti, il tempo e la zona di invecchiamento) allora lo si può chiamare Kentucky Straight, che in inglese significa molte cose: liscio, dritto, diretto, giusto, puro, onesto, leale. Chris Offutt dice di non essere molto bravo a scegliere i titoli e che di solito li fa scegliere al suo coinquilino dell’università, ma difficilmente si potrebbe trovare un nome diverso per la sua raccolta di racconti.

Pubblicata in Italia da Minimum Fax e tradotta da Roberto Serrai con il titolo Nelle terre di nessuno, il libro raccoglie nove storie brevi di persone che vivono tra le montagne e le colline degli Appalachi, lo stesso luogo in cui è nato e cresciuto lo scrittore. Bifolchi, redneck, melungeon, hillibilly, negri e minatori neri per il carbone. Vecchie e vecchi avvizziti, donne timorose di Dio e ragazzini sporchi. Sono i posti dove la gente di città non va, dove la gente vive nelle case mobili, dove la gente prende il sussidio ma odia il governo. Relitti, ma tutti veri e onesti abitanti del Kentucky, nati, vissuti e spesso molto presto morti tra i ruscelli e le foreste di una delle regioni più periferiche d’America.

Gli abitanti dei racconti di Chris Offutt sanno come gira il loro mondo, lo hanno imparato a proprie spese. Un negro non può bere dalla stessa bottiglia di un bianco, pensano sotto la pioggia i rumorosi spettatori del meraviglioso Tirar su case; se ti insultano la famiglia dovrai fare a botte, lo sa benissimo il protagonista di Segatura; se non vuoi farti seguire in qualche posto dai tuoi cani da caccia dovrai ammazzarne uno davanti agli altri e seppellire lì il suo cadavere, hanno insegnato all’uomo di Luna Calante. Sanno sempre cosa fare: che si tratti di mentire alla polizia come i bambini di Blue Lick, come aiutare un ferito, come sparare, quali piante raccogliere, come scaldarsi d’inverno, oppure di eseguire un rito scaramantico per liberarsi di una vecchia strega.

Come i personaggi di Hemingway conoscono, vivono e lottano nella Natura in modo agonistico: prima hanno ucciso tutti gli orsi, poi tutti i puma, poi le linci e i lupi, hanno tagliato gli alberi e scavato gallerie per estrarre il carbone. Allo stesso tempo però loro – i puri, i dritti – non sono in grado di evitare in alcun modo le sventure e le violenze che li aspettano. Sono in grado di affrontarle o sopportarle, persino di prevederle, ma persistono con incredibile determinazione a battere la strada della propria rovina. A quasi tutti è morto qualche parente stretto prima del tempo, il sangue scorre abbondante nel fango, sono ubriaconi, incestuosi e ignoranti e per quanto ci provino – ci raccontano in Palla 9 – come gli eroi omerici hanno una strada da percorrere e per quante deviazioni incontreranno lungo la strada, torneranno sempre alla loro casa tra le colline del Kentucky.

«Il figlio non deve essere per forza come il padre».
«Da queste parti succede quasi sempre».
«Voi siete messi male quanto noi».
«Può darsi», disse Mercer. «Non conosco molti altri con cui fare il confronto».
Distolsero entrambi lo sguardo, mentre gocce di pioggia picchiettavano il fango. Coe guardava nella nebbia, e pensava che non era vero, che a quella gente era andata molto peggio. Coe sapeva come vivevano i neri. Sapeva come era successo e a chi dare la colpa. Quei bifolchi sulle montagne, invece, ignoravano tutto.

E allora forse è vero che questi personaggi vivono Nelle terre di nessuno, perché le compagnie minerarie stanno letteralmente spianando le cime delle montagne per estrarre il carbone e le valli già poco abitate si svuotano lentamente, drenando a valle verso le città sulle rive dell’Ohio. Quindi non è strano che i racconti meno riusciti siano proprio quelli con cui Chris Offutt prova a cercare una comunione magica e soprannaturale con la Natura. Anche se alcuni provano a darsi degli antenati Cherokee, non possederanno mai la terra su cui camminano. Quando invece l’autore si limita a raccontare le vite ostinate di questi abitatori delle colline con il suo stile esatto, l’estrema rarefazione degli aggettivi e le ipnotiche ripetizioni della narrazione orale, allora quello che ottiene sono sempre storie dritte, giuste, oneste, di gente rassegnata che continua a lottare.

«Verrà giù tutta la collina», disse Mercer.
«Se la casa mobile finisce sulla strada», disse Aaron, «io ce la lascio, e col trattore ci apro una strada tutto intorno. Io voglio vivere a Crosscut Ridge, e basta». Sospirò e guardò al cielo. L’acqua gli colava dalle sopracciglia. «Oggi fa buio presto».

https://treracconti.it/terre-nessuno-chris-offutt/

In libreria la raccolta Nelle terre di nessuno di Chris Offutt, pubblicata da Minimum Fax. Uno tra gli esordi più fulminanti degli ultimi decenni, che aggiunge alla grande tradizione del racconto americano un nuovo, potente capitolo. La traduzione è di Roberto Serrai.
Cattedrale pubblica il primo racconto della raccolta, ringraziando l’editore per la gentile concessione.

Segatura

Sulla collina nessuno ha finito le superiori. Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente. Io non vado a caccia, non vado a pesca e nemmeno lavoro. I vicini dicono che penso troppo. Dicono che sono come mio padre, e Mamma ha paura che abbiano ragione. Quand’ero piccolo avevamo un cane da procione che si era incartato con una puzzola e poi era stato così sfacciato da infilarsi sotto la veranda. Stava lì al buio, uggiolava e non voleva uscire. Papà gli sparò. Questo non lo fece puzzare di meno, ma Papà si sentì meglio. Disse a Mamma che se non sapeva distinguere un procione da una puzzola meritava di essere ucciso. «Però l’hai lasciato sotto la veranda», disse Mamma. «Lo so», disse Papà. «Anch’io gli volevo bene a Tater. Non ce la faccio mica a sotterrarlo». Guardò me e mio fratello. «Non pensarci nemmeno a mandare i ragazzi sotto la veranda», esclamò Mamma. «Il cane è tuo e lo tiri fuori tu».
Sparì dietro la casa, turandosi il naso. Papà ci guardò di nuovo. «Voi sentite qualcosa?» Avevo le lacrime agli occhi, ma feci di no con la testa. «Io li odio gli animali morti», disse Warren. «Anche le mogli te le raccomando», disse Papà, e mi passò il fucile. «Prendi, Junior. Mettilo a posto e portami la canna col mulinello». Corsi in casa a prenderla. Quando tornai fuori Papà si era messo in ginocchio e puntava la torcia sotto la veranda. In fondo, in un angolo, c’era il vecchio Tater, morto stecchito. «Tocca lanciare alla cieca», disse Papà. «Magari mi diverto pure». Allargò le gambe, fece scattare il polso, mandò la lenza sotto la veranda e la recuperò. Aveva agganciato un vecchio straccio. Lanciò di nuovo e stavolta agganciò Tater, ma quando recuperò era rimasto solo un ciuffo di peli. Al terzo lancio gli si impigliò la lenza. Diede un bello strattone e la spezzò. La canna partì come una frusta e prese Warren in faccia. Quando lo sentì gridare Mamma arrivò di corsa. «E ora che hai fatto?», disse. «Ho spezzato la lenza», disse Papà. «Reggeva fino a quattro chili. E c’era pure un bel piombo». «Perché non fai un buco nel pavimento, come quando peschi sul ghiaccio?» «Non trovo più la sega». «E meno male, perché sennò l’avresti fatto davvero!» Prese Warren, salì i gradini di legno grigio e lo trascinò in casa. Papà si ruppe la canna da pesca sul ginocchio. «Era meglio che non li facevo, i figli», disse, e gettò i pezzi della canna nel campo. Una ghiandaia si alzò in volo strillando. Papà mi prese per le spalle e si chinò a guardarmi in faccia.
«Io volevo fare il veterinario e curare i cavalli», disse. «La sai una cosa, però?» Scossi la testa. Lui strinse più forte. «Dopo le elementari ho smesso di andare a scuola perché non avevo niente da mettermi. Come tutti i miei parenti. Tutti fino all’ultimo». Mi lasciò andare e guardai la sua schiena curva che spariva tra gli alberi. Le grandi foglie dei pioppi gli si chiusero dietro con un fruscio. Qualche anno dopo Papà diede via il fucile e cominciò ad andare in chiesa. Regalò a Warren un cucciolo che cadde dalla veranda e si ruppe una zampa. Papà pianse tutto il giorno. Mi faceva paura, Mamma però disse che se piangeva era segno che la testa aveva ricominciato a funzionargli, e che dovevo essere orgoglioso. La domenica, in chiesa, Papà salì in piedi sulla panca durante la messa. Pensai che il Signore l’avesse toccato e che si sarebbe messo a parlare in un’altra lingua. Il pastore interruppe il suo sermone. Papà si guardò intorno e giurò su Dio che avrebbe guarito la zampa rotta del cucciolo o sarebbe morto nel tentativo. Mamma lo fece rimettere a sedere e gli disse di chiudere la bocca. Mi fece di nuovo paura. Dopo la messa Papà portò il cucciolo sul crinale, vicino a un albero di noce, e cercò tutto il giorno di sistemargli la zampa. Ce l’aveva ancora con Dio, quando Mamma ci mandò a letto. Il mattino dopo lo trovò lei. Si era sfilato la cinta e si era impiccato. Per terra, ai suoi piedi, c’era il cucciolo con tutte e quattro le zampe rotte. Era ancora vivo.

Io e Warren smettemmo di andare a scuola. Lui trovò un lavoro e cominciò a mettere da parte i soldi. Io andavo nel bosco a raccogliere funghi, ginseng e radici d’ogni genere. M’infilavo dappertutto, roba che nemmeno un coniglio. Lo scorso autunno Warren ha portato una roulotte in una valletta e ci è andato a vivere. Ha detto che se c’era una cosa che sapevo fare era occuparmi di Mamma. Due volte alla settimana andavo all’ufficio postale di Clay Creek, ai piedi della collina. Avevamo solo quello e la chiesa, l’uno accanto all’altra, tra il torrente e la strada. Quasi tutti li bazzicavano entrambi, io e Mamma ce li eravamo divisi. A me arrivava più posta, lei andava in chiesa anche per me, e per tutto il resto della contea. Ero abbonato a un sacco di riviste e leggevo tutto due volte, anche la posta dei lettori e i consigli per le casalinghe. A un certo punto non sono più arrivate perché non pagavo mai. A volte andavo all’ufficio presto e mi mettevo a guardare le fotografie dei delinquenti ricercati dal governo. Ce n’erano sessanta spillate insieme come il calendario di un negozio di mangimi, ed erano tutte facce di gente qualsiasi. Sotto c’era scritto l’elenco dei reati commessi dal tizio, se aveva delle cicatrici e se era bianco o nero. Mi sembrava strano mettere la fotografia di un uomo e poi scrivere di che colore aveva la pelle. Da queste parti ce l’abbiamo quasi tutti marrone. Io non avrei problemi a parlare con qualcuno che ce l’ha di un altro colore, ma quelli non vengono mai da queste parti. Qua non ci viene mai nessuno, casomai se ne vanno via. Un pomeriggio vidi un cartello all’ufficio postale su una cosa che si chiama ged. Chiunque poteva fare questo test in un centro in città gestito da volontari, e mi venne da pensare a quello che diceva Papà sullo smettere di andare a scuola. Lui aveva letto solo la King James e almeno un centinaio di carte geografiche. Le collezionava come tanta gente prende i cani: grandi e piccole, quelle che gli piacevano e quelle che teneva tanto per tenerle. Lo guardavo studiarle, seduto su un ceppo, anche col buio pesto. Voleva sapere dov’era il paese di Nod e quali erano i suoi abitanti. Il pastore gli aveva detto che era andato distrutto nel diluvio universale. Papà non era convinto. «Se è un posto, da qualche parte sarà», diceva sempre. Il ged mi tenne sulle spine per tre giorni, trascorsi passeggiando nel bosco. Stavo quasi per mettere un piede su un serpente corridore che prendeva il sole su un sasso. Ci guardammo per un po’, lui che tirava fuori la sua piccola lingua biforcuta, e io che non riuscivo a pensare ad altro che al test. Quasi tutti quando vedono un serpente scappano senza nemmeno chiedersi se è velenoso o anche solo se è vivo. Col ged era la stessa cosa. Se non lo passavo non succedeva niente, se lo passavo tutti sulla collina avrebbero saputo che non ero come credevano loro. Magari avrebbero cambiato idea anche su Papà. La mattina dopo feci l’autostop fino a Rocksalt e mi fermai sul marciapiede. La gente mi guardava dalle macchine. Avevo la mano sulla maniglia e grondavo di sudore. Aprii la porta. L’aria era fresca e le pareti bianche. Dietro una scrivania di metallo c’era una signora che si dipingeva le unghie di rosa. Mi guardò, poi tornò a concentrarsi sulle unghie. «Il barbiere è qui accanto», disse. «Non devo tagliarmi i capelli, signora. Magari ne ho bisogno, ma non è che sono venuto in città per questo». «Non è che», disse, come se volesse prendermi in giro. Parlava in fretta e si mangiava le parole. Chissà cosa l’aveva portata sulle colline. Eravamo messi proprio male, se la gente di città veniva a cercare lavoro qui. «Voglio fare il ged», dissi. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno». Mi guardò a lungo con gli occhi sgranati. Agitava la mano come per scacciare le mosche e quando lo smalto fu asciutto aprì un cassetto e mi diede un libro. Era grande come una rivista, con la copertina di plastica nera. «Torna quando sei pronto», disse. «Sono qui per aiutare quelli come te». Ci vollero cinque ore per tornare a casa e il caldo non lo sentii per niente. Quando arrivai, qualcuno mi aveva visto giù in città e lo aveva detto a un vicino, che lo aveva detto a Mamma all’incontro di preghiera. Da noi funziona così. Fai uno sternuto, e prima che torni a casa lo sanno tutti. «Dicono che ti dai un sacco di arie e vuoi farci passare da ignoranti», disse. «Visto che ci sei, potresti pure leggere la Bibbia». «Già fatto. Due volte». «Almeno non ho cresciuto un miscredente». Dopo cena mi buttai sugli esercizi. La lettura andava alla grande, ma la matematica era un disastro. Cioè, uno prende un casino di numeri e dice che è uguale a qualcos’altro. Magari è per questo che a certi gli piace la matematica, ma un mucchio di legna non è uguale a un albero. E la segatura? Dove la mettiamo la segatura? Tutti questi calcoli e poi niente che dimostri che hai lavorato, niente che devi pulire, niente da vedere. Una fila di numeri è come una cacca di gufo su un sentiero. Si capisce che è passato un uccello, ma non da che parte andava. Warren arrivò sul prato col pick-up a trazione integrale e suonò il clacson. Prima lavorava in città, poi hanno aperto uno stabilimento a Lexington. Ora tra andare e tornare si fa tre ore di macchina al giorno. Ha la parabola, il microonde e il videoregistratore.
Sentii i suoi stivali sulla veranda e la porta che sbatteva. Entrò nella nostra vecchia stanza. «E insomma, Junior? Tutto da solo. Avevi paura a dirlo?» Scossi la testa. Dopo la morte di Papà Warren aveva cercato in tutti modi di farsi accettare dagli altri. Io l’esatto contrario. «Ho sentito che hai beccato il virus dell’intelligenza», disse. «E fai quel test in città, quello della scuola». «Ci sto pensando». «Dovresti lasciar perdere e provare a lavorare. Allora potrai metterti stivali di coccodrillo come questi». Tirò su la gamba dei pantaloni. «Dove li hai presi?», dissi. «A Lex. C’è un centro commerciale grosso come due pascoli uno di seguito all’altro. Li ho visti in vetrina e li ho comprati. E ho pure pagato in contanti». «Ti hanno fregato, Warren. Sono quasi dieci anni che non fanno più niente coi coccodrilli. Il governo li protegge». «E tu come le sai, tutte queste cose?» «L’ho letto su una rivista». Warren mise il broncio. Lui dà retta solo alla tv. Quelli della pubblicità per lui sono persone vere. Sapevo che si stava arrabbiando perché aveva le vene del collo grosse come lombrichi. «Ora con questi stivali ti ci prendo a calci nel culo». «Restano comunque taroccati». «Ma almeno sono nuovi». Il calcio lo diede ai miei scarponi, che avevo comprato per posta sul catalogo Sears and Roebuck. «Per Dio, hai sempre questi cazzo di scarponi dal catalogo di Natale». «Warren!», strillò Mamma dalla cucina. Lei non si fa scrupoli con le parole, ma nominare il nome di Dio invano è troppo pure per lei. Papà glielo faceva apposta, per ripicca.
«Lo sai che significa ged?», disse Warren. «Grezzo E Deficiente». Uscì sbattendo i piedi, accese il motore, ingranò la marcia e diede gas. Si lasciò dietro una nuvola di polvere che sembrava fumo. Guardai la luna che saliva sopra Redbird Ridge. La notte arrivò strisciando nella conca. Uscii e andai a sedermi sul ceppo di Papà, quello delle carte geografiche. Tanto tempo fa avevo paura del buio, poi Papà mi disse che la notte era la stessa cosa del giorno, solo che l’aria aveva un colore diverso.

Dopo una settimana avevo fatto tutti gli esercizi due volte ed ero pronto a impegnarmi sul serio. Sulla collina lo sapevano tutti. Il pastore garantì a mia madre un bel posto in paradiso per questa croce che doveva portare sulla terra. Disse che ero troppo testardo per cavarne qualcosa di buono. Ci pensavo mentre ero nel bosco e decisi che forse non era poi così male. Non sono uno che coglie i fiori di campo e li porta in casa, dove muoiono quasi subito. E non taglierei mai un albero che fa ombra d’estate per bruciarlo in inverno. Col ged era la prima volta che mi intestardivo a fare qualcosa, invece che a non farla. Ecco in cosa eravamo diversi, io e Papà. Anche lui era testardo, ma solo quando la sua opinione non contava niente. La mattina scesi dalla collina ed ero già a metà strada per la città quando trovai un passaggio fino in centro. La signora fu sorpresa di vedermi. Scrisse il mio nome su un modulo e mi chiese quindici dollari per il test. Io non dissi niente. «Lo sai che ci vogliono quindici dollari?», domandò. «Non ce li ho». «Un lavoro ce l’hai?»
«No». «Vivi con la tua famiglia?» «Con Mamma». «E lei lavora?» «No». «Lo prendete il sussidio?» «No, signora». «E come tirate avanti tu e tua madre?» «In silenzio, più che altro». Strinse le labbra e scosse la testa. Parlava lentamente e a voce alta, come se fossi sordo. «Dove li trovate i soldi, tu e tua madre?» «Non ne abbiamo un gran bisogno». «E per mangiare?» «Abbiamo l’orto». La signora posò la matita e si sporse per guardare qualcosa. Sul muro alle sue spalle c’era il ritratto del governatore, con la cravatta. Guardai dalla finestra il negozio di ferramenta sul marciapiede di fronte. Papà era morto che doveva ancora finire di pagare la nuova catena per la motosega. Dopo il funerale ci arrivò il conto e Mamma, per pagare il debito, vendette una trapunta che aveva fatto la sua prozia. Mi misi d’impegno, ma non mi venne in mente granché. Non avevo niente da vendere. Warren me li avrebbe anche dati, i quindici dollari, ma non sarei mai riuscito a chiederglieli. Mi voltai e feci per andarmene. «Junior», disse la signora. «Puoi comunque fare il test». «Non ho bisogno del suo aiuto». «È gratis, quando si è poveri». «Ve li devo», dissi. «Pagherò prima che cominci a nevicare».
Mi accompagnò per una porta in una stanzetta senza finestre. Mi infilai in un banco di scuola e lei mi diede quattro matite gialle e i fogli del test. Quando ebbi finito mi disse di tornare dopo un mese, per vedere se l’avevo passato. Mi disse, a voce bassa, che potevo fare il test tutte le volte che serviva. Feci cenno di sì, e uscii dalla città per tornare a casa. Non pensavo né sentivo niente. Camminare però mi faceva bene.

Ogni sera Mamma diceva di essere preoccupata, che per superbia disprezzavo le mie origini. Warren non mi parlava più. Andavo in giro per le colline, pensavo alle cose che avevo imparato sul bosco. So riconoscere un uccello dal nido e un albero dalla corteccia. L’odore di cetriolo vuol dire che vicino c’è un serpente mocassino. Le more più dolci sono quelle più vicine a terra e i migliori pali per i recinti si fanno con la robinia. Trovavo divertente che avessi dovuto fare un test per scoprire che ero povero. Forse è perché lo sapeva, che Papà alla fine aveva mollato. Quando morì, Mamma bruciò tutte le sue carte geografiche, ma io tenni quella del Kentucky. Il posto dove abitiamo noi non c’è. Rimasi nel bosco tre settimane di fila. Quando alla fine andai all’ufficio postale, la posta non era ancora arrivata. Era il primo del mese e un sacco di gente aspettava il sussidio. I più anziani erano seduti dentro, per ripararsi dal sole, e tutti noialtri eravamo all’ombra dei salici lungo il torrente. Un ragazzo, uno dei Monroe, diede una gomitata al fratello e mi indicò. «Guarda il Dottore», disse, «che si prende una pausa dai libri». «Ehi Dottore, vuoi diventare ricco e intelligente?» «Sicuro», disse il fratello. «Aprirà un bordello e lo manderà avanti con una mano sola».
Risero tutti, anche un paio di vecchie con due crocchie grosse come pigne. Decisi di lasciar perdere la posta e tornare a casa. Poi quel ragazzino mi fece incazzare. «Il mio cucciolo sta male, Dottore. Lei è bravo com’era suo padre?» Per come funziona qui da noi, picchiare qualcuno a volte non basta. A volte si sta buoni un anno, prima di sparare a un cane per vendicarsi del padrone, ma così, davanti a tutti, non potevo andarmene e basta. Andai al loro pick-up e con un calcio spaccai un fanale. Il più piccolo dei Monroe arrivò di corsa ma lo feci inciampare e rotolò nella polvere. L’altro mi saltò sulla schiena e mi prese un orecchio tra i denti. Mi stringeva con le gambe e non riuscivo a levarmelo di dosso. Continuava a colpirmi sul lato della testa. Caddi all’indietro sul cofano del pick-up e allora mi lasciò andare. Due vecchi trattenevano l’altro ragazzo. Attraversai il torrente e salii sulla collina ripida fino a casa, sputando sangue per tutto il tragitto. Mamma non disse una parola, quando seppe il motivo della rissa. La sera dopo arrivò Warren. «Li ho presi uno al torrente e l’altro in cima a Bobcat Holler», disse. «Non diranno più certe cose». «Gliele hai suonate?» «Beh, diciamo che se ne sono accorti». Warren aveva preso un paio di cazzotti sulla mascella, e le vene del collo gli si erano gonfiate di nuovo. Non lo buttavi a terra nemmeno con una traversina. «Lo fai lo stesso il ged?», disse. «Venerdì escono i risultati». «Mi voglio comprare una tv a batterie». «Per far che?»
«Per sedermi e guardarla». «Anch’io, Warren. Anch’io». Si toccò un bubbone sotto allo zigomo. Abbassò le spalle. «Farei sempre a botte per te, Junior. E anche per Papà. Ma non ho mai capito che cosa avete in testa, nessuno dei due». Uscì, e aprì lo sportello del pick-up coi pollici. Si era ferito alle nocche di entrambe le mani, e se piegava le dita gli si staccavano le croste. Una già perdeva un po’ di sangue. Accese il motore in seconda, per non dover cambiare, e si allontanò guidando col palmo. Lo guardai finché la polvere della strada non tornò a posarsi.

Il venerdì andai in città seguendo la cresta, sopra al torrente. Rocksalt si trova in un’ampia vallata tra le colline. Non l’avevo mai vista dall’alto e sembrava davvero piccola, niente di cui aver paura. Scesi giù, attraversai il torrente e arrivai sul marciapiede. Rimasi a lungo davanti al centro dove avevo fatto il test. Potevo andarmene, e non sapere mai se lo avevo passato o no. Entrambe le cose mi facevano paura. Aprii la porta e misi la testa dentro. «Congratulazioni», disse la signora. Mi diede un certificato dello Stato che diceva che avevo il diploma delle superiori. Il mio nome era scritto con l’inchiostro nero. Sotto c’erano un sigillo dorato e la firma del governatore. «Ho i moduli per cercare lavoro», disse. «Non ti prometto niente, ma adesso hai tutto quello che serve. Se vuoi andartene da qui, il prossimo passo è trovare un lavoro». «Mi basta questo certificato». «Non lo vuoi un lavoro?» «No, signora».
Sospirò e guardò per terra, stropicciandosi gli occhi. Si appoggiò allo stipite della porta. «A volte non so che ci sto a fare qui», disse. «Non lo sa nessuno», risposi. «Qui quasi tutti aspettano di morire e basta». «Non è divertente, Junior». «No, ma la cosa divertente è che tutti si alzano comunque con le galline». «A me piace dormire fino a tardi», disse lei. Sorrideva ancora quando mi chiusi la porta alle spalle. Non potevo arrivare più vicino di così a finire la scuola, e non era una brutta sensazione. Prima di uscire dalla città mi voltai a guardare la fila di edifici a due piani. Papà diceva sempre che un uomo intelligente la città la lascia perdere, ma adesso so che si sbagliava. Ci possono andare tutti, ogni volta che vogliono. La città è solo un gruppo di persone che vivono insieme nell’unico punto dove c’è abbastanza spazio tra le colline. Lasciai la strada e attraversai l’erba alta fino alla sponda del torrente. Era un buon modo per trovare bottiglie vuote, e dovevo ancora restituire quindici dollari.

https://www.osservatoriocattedrale.com/racconti-dautore-in/2017/12/15/segatura-di-chris-offutt

Kentucky straight is bourbon with no mixer. Kentucky Straight is Kentucky seen without nostalgic gloss. These riveting, often heartbreaking stories, take us through country that is unmapped. They are set in a nameless Appalachian community too small to be called a town, a place where wanting an education is a mark of ungodly arrogance and dowsing for water a legitimate occupation; where hunting is not a sport but a means of survival. These are stories of coal miners and backwoods medicine men, of gamblers and marijuana farmers, tales of real tragedy and unutterable strangeness that convey their sense of place so vividly that we feel its ground rise beneath our feet.

Offutt has received a James Michener Grant and a Kentucky Arts Council Award.

https://books.google.it/books/about/Kentucky_Straight.html?id=EIQ3xY0f44IC&redir_esc=y

Out of the Woods: Stories

Simon and Schuster, 16 feb 2016 – 176 pagine
From the critically acclaimed author of the novel The Good Brother and memoir My Father the Pornographer, Out of the Woods is Chris Offutt’s fiercely original short story collection the New York Times calls “a magical book”.

Arriving seven years after Offutt’s debut collection Kentucky Straight, Out of the Woods returns a masterly writer to the form which garnered him not only critical praise but many prestigious awards. Offutt, who “draws landscape and constructs dialogue with the eyes and ears of a native son” (The Miami Herald), is on strong home turf here, capturing those who have left the Kentucky hills and long to return. These nine stories of gravediggers and drifters, gamblers and truck drivers a long way from home, are tales so full of hard edges they can’t help but tell some hard truths.
https://books.google.it/books?id=0ceOCwAAQBAJ&hl=it&source=gbs_book_similarbooks

è nato a Lexington, Kentucky. Oltre a Nelle terre di nessuno, ha scritto un’altra raccolta di racconti, Out of the Woods, un romanzo, The Good Brother, e tre memoir: The Same River Twice, No Heroes: A Memoir of Coming Home, e My Father, the Pornographer. Ha ricevuto, nel 1996, il Whiting Award per la narrativa e la saggistica, ed è stato incluso da Granta tra i venti migliori narratori delle ultime generazioni.
https://www.minimumfax.com/autore/chris-offutt-2615

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.