Quei ragazzi che guardano come se fosse un film by la stampa : Susan Sontag i post

Quei ragazzi che guardano come se fosse un film

Al cinema quella scena non sarebbe accettata, nella realtà sì

Pubblicato il 15/08/2017

Ultima modifica il 15/08/2017 alle ore 07:27

ferdinando camon

«Me l’hanno ucciso come un cane» dice il padre di Niccolò Ciatti, il 22enne di Scandicci ammazzato a calci e pugni davanti a una discoteca spagnola, sulla Costa Brava, da tre ceceni, per motivi stupidi e idioti. C’è un video sul feroce massacro, e il padre confessa di averlo guardato fino a metà, perché più oltre non lo reggeva. Ho visto lo stesso video, nel sito di questo giornale, e confesso che è intollerabile, è difficile reggerlo per più di un minuto o due. Ti disumanizza, quel che vedi te lo fa sentire estraneo all’umanità. Se fosse la macellazione di un agnello, dovrebbe avvenire in un luogo chiuso, invisibile, segreto. Invece questo massacro di un ragazzo di 22 anni, per mano di tre ragazzi suoi coetanei, avviene in pubblico, in mezzo a una folla che si stringe in cerchio intorno alla scena, per vederla meglio, e si avvicina a una distanza di due metri, per cogliere tutti i dettagli. Questi uomini che guardano il massacro non lo guardano, ma vi partecipano. È come se venisse ucciso un cane? No di certo. Se fosse massacrato così un cane, cinque, sei, tanti spettatori interverrebbero per impedirlo, protesterebbero, griderebbero per fermare gli uccisori. L’uccisione di un cane fa inorridire. L’uccisione di un uomo, lentamente, con tante percosse, da più persone, con metodo e ferocia, paralizza. Tutti guardano e nessuno fa niente. Quindi, tutti permettono, o, con altra parola, difficile da usare ma qui inevitabile, accettano.

«Tutti, tutti sono stati a guardare impotenti» dice ancora il padre. E ancora una volta viene da correggerlo: non sono «impotenti», impossibilitati a fare qualcosa, ma molto semplicemente non fanno nulla. Guardano il massacro come se non fossero in una piazza ma in un cinema. Ma anche questa espressione è sbagliata. Se fossero in un cinema proverebbero disgusto. Non è detto che un film con una scena del genere avrebbe un successo di pubblico. Il pubblico è una strana bestia, ha una sua sensibilità, una sua ritrosia, fugge ciò che lo disturba. La folla non ha di queste delicatezze. Stava vedendo e voleva vedere. E, lo ripeto, c’è un modo di guardare che equivale a partecipare. È questo modo, il modo che vediamo in questo filmato. Perciò i ragazzi di questo pubblico non sono affatto «impotenti», il loro potere sta nel contemplare, la loro potenza sta nel lasciar fare.

Formano un cerchio perfetto intorno alla scena del massacro, stanno tutti alla distanza esatta di un paio di metri. L’ideale per vedere e sentirsi dentro, l’ideale per non intervenire e sentirsi fuori. L’ideale per poter incamerare quella scena nel cervello e custodirla per tutta la vita come in una cineteca, per poter in ogni momento richiamarla in superficie e rivederla a piacimento. «Bastava che uno intervenisse», dice il padre, «per risparmiare a mio figlio quelle pedate sulla testa e quelle botte al cuore»: da padre, ha una visione emotiva della scena, che è poi la visione morale, che rende l’uomo migliore. L’uomo migliora quando, vedendo la violenza, s’identifica con la vittima e vorrebbe che la violenza cessasse di colpo, perché è lui che la patisce, che sente le pedate e le botte. L’uomo che vede la violenza e la contempla indifferente o «partecipe», come se fosse uno spettacolo estetico, peggiora. Finito quello spettacolo, è più malvagio di prima.

L’estate è la stagione dei viaggi, degli spostamenti, degli incontri e degli scontri, dei contatti fra gente che prima neanche si conosceva. L’estate accelera le incomprensioni e le reazioni. Io non so chi siano questi giovani che, a centinaia, guardano senza far niente un ventenne massacrato da tre ventenni, ma so che, quando a fine estate torneranno a casa, saranno peggiori di quando sono partiti.

http://www.lastampa.it/2017/08/15/italia/cronache/quei-ragazzi-che-guardano-non-sono-affatto-impotenti-Lwt4gyDDtr2dvNfexhZekI/pagina.html

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Le immagini evocate da Woolf in realtà non mostrano ciò che la guerra, la guerra in quanto tale, produce. Mostrano un modo particolare di condurre una guerra, un modo all’epoca descritto abitualmente come «barbarico», in cui il bersaglio sono i civili. Il generale Franco stava utilizzando le stesse tattiche di bombardamento, massacro, tortura, uccisione e mutilazione dei prigionieri che, da comandante, aveva perfezionato in Marocco negli anni Venti. Allora, cosa più accettabile per le autorità costituite, le sue vittime erano state i sudditi di una colonia spagnola, per giunta scuri di pelle e infedeli; ora si trattava di compatrioti. Leggere in quelle immagini, come fa Woolf, soltanto la conferma di una generica avversione per la guerra significa rinunciare a fare i conti con la Spagna in quanto paese segnato da una storia. Significa liquidare la politica.

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II

Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una caratteristica ed essenziale esperienza moderna, risultato complessivo delle opportunità che da oltre un secolo e mezzo ci offrono quei turisti di professione altamente specializzati noti come giornalisti. La guerra è ormai parte di ciò che vediamo e sentiamo in ogni casa. Le informazioni su quel che accade altrove, definite «notizie», mettono in risalto i conflitti e la violenza – «Il sangue in prima pagina» recita la collaudata linea guida dei tabloid e dei notiziari televisivi che danno informazioni flash ventiquattr’ore su ventiquattro – di fronte ai quali reagiamo con compassione, indignazione, curiosità o approvazione, man mano che ciascuna miseria ci si para dinanzi agli occhi.

[…]

La consapevolezza del cumulo di sofferenze prodotte da un numero selezionato di guerre lontane è in qualche modo frutto di una costruzione. E, soprattutto nella forma registrata su pellicola, balugina all’improvviso, viene condivisa da molte persone, e poi svanisce. Contrariamente a un resoconto scritto – che, a seconda della complessità delle idee, dei riferimenti e del lessico, è indirizzato a una cerchia di lettori più o meno estesa – una fotografia possiede una sola lingua ed è potenzialmente destinata a tutti.

[…]

Un evento diventa reale – agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto «notizia» – perché viene fotografato. Ma anche una catastrofe di cui si ha esperienza diretta finisce spesso per sembrare stranamente simile alla sua rappresentazione. L’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001 è stato descritto come «irreale», «surreale», «simile a un film», in molte delle prime testimonianze fornite da chi era scappato dalle torri o aveva osservato da vicino quanto stava accadendo. (Dopo quarant’anni di film catastrofici hollywoodiani ad alto costo, l’espressione «sembrava un film» pare aver sostituito la formula con cui i sopravvissuti a una catastrofe erano soliti esprimere l’impossibilità di assimilare in tempi brevi ciò che avevano vissuto: «Sembrava un sogno».)

L’incessante susseguirsi delle immagini (televisione, streaming video, film) domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermo-immagine; la sua unità di base è l’immagine singola. In un’epoca di sovraccarico di informazioni, le fotografie forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare. Una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio. Ognuno di noi ne immagazzina centinaia nella propria mente, e può ricordarle all’istante. Provate a citare la più famosa fotografia scattata durante la Guerra civile spagnola, il miliziano repubblicano «immortalato» dall’obiettivo di Robert Capa nell’attimo in cui viene colpito da un proiettile nemico, e quasi tutti coloro che sanno qualcosa di quella guerra potranno richiamare alla memoria la granulosa immagine in bianco e nero di un uomo in camicia bianca e maniche rimboccate che si rovescia all’indietro su una collinetta, il braccio destro teso dietro di sé mentre allenta la presa sul fucile nel momento in cui sta per cadere, morto, sulla propria ombra.

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Crudeltà e sventure paragonabili a queste si sono avute in passato anche in Europa. Appena sessant’anni fa, il Vecchio Continente è stato teatro di orrori che superano per dimensioni e mostruosità qualunque cosa ci venga oggi mostrata delle aree povere del mondo. Ma l’orrore sembra essere svanito dall’Europa, svanito per così tanto tempo da far apparire inevitabile la pacificazione attuale. (Il fatto che cinquant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale siano ricomparsi sul suolo europeo dei campi di sterminio, si siano visti un assedio e migliaia di civili massacrati e gettati in fosse comuni, ha conferito un particolare, anacronistico interesse alla guerra in Bosnia e al programma di uccisioni di massa condotto dai serbi in Kosovo. Anche se uno dei modi più diffusi per spiegarsi i crimini di guerra commessi nell’Europa sud orientale negli anni Novanta è stato dire che i Balcani, dopotutto, non hanno mai fatto parte dell’Europa.) In genere, i corpi gravemente feriti che ci mostrano le fotografie pubblicate appartengono ad asiatici o ad africani. Si tratta di una consuetudine giornalistica che eredita la prassi secolare di mettere in mostra esseri umani esotici – vale a dire, colonizzati: dal XVI secolo fino all’inizio del XX, africani e abitanti di remoti paesi asiatici sono stati esibiti come animali di uno zoo nelle esposizioni etnologiche allestite a Londra, a Parigi e in altre capitali europee. Nella Tempesta, il primo pensiero di Trinculo quando si imbatte in Calibano è che lo si potrebbe mettere in mostra in Inghilterra: «La domenica, qualsiasi furfante pagherebbe uno scudo d’argento per vederlo… magari non danno un soldo bucato a un povero zoppo, ma ne cavano dieci per vedere un indiano morto». L’esibizione fotografica delle crudeltà inflitte a individui dalla pelle più scura in paesi esotici continua questo genere di offerta, ignorando le considerazioni che scoraggiano comportamenti simili quando le vittime della violenza sono nostre; poiché l’altro, anche quando non è un nemico, è considerato soltanto come qualcuno da vedere, e non qualcuno che (come noi) vede. Eppure, possiamo esserne certi, anche il soldato talebano ferito che implorava per la propria vita, il cui destino è stato raffigurato con tanto risalto sul «New York Times», aveva moglie, figli, genitori, sorelle e fratelli, i quali potrebbero un giorno imbattersi nelle tre fotografie a colori del marito, padre, figlio, o fratello che viene trucidato – se già non hanno avuto modo di vederle.

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