La Tenerezza di Gianni Amelio

La tenerezza: gli schiaffi, le carezze, la famiglia da riconquistare

Sembra quasi un dono avuto in dotazione, dato per scontato all’inizio di ogni vita. Ce lo affidano da bambini, poi, da adulti, lo dimentichiamo per cercarlo negli altri. Infine, in molti lo ritrovano da anziani. La tenerezza è difficile da definire, perché cambia a seconda del tatto di ognuno, si adegua alla singola capacità di ascoltare, sentire, amare. Facile accostarla a precisi tempi di vita, affibbiarla agli infanti, ai genitori, ai nonni, proprio come abbiamo appena fatto. Però Gianni Amelio non è d’accordo. Gianni Amelio è venuto a sussurrarci nell’orecchio che non è così. Che nel mondo degli affetti niente va dato per scontato, e che le stagioni umane non conoscono emozioni prestabilite.

Dotato di una forza lieve ma potente, che scardina ogni rassicurazione legata alla famiglia, La tenerezza ti scuote con dolcezza, sedimenta nello stomaco dello spettatore portando persino ad una nausea benevola. Un film che sa essere disturbante quando getta macchie di oscurità forse indelebili nel cuore dei nonni, dei padri e dei figli. E allora la tenerezza cos’è? È un miraggio, è un’utopia, oppure è qualcosa di facilissimo. È dentro il sorriso di una sconosciuta, nella mano stretta di un nipote, nello stare a guardare qualcuno per ore e ore in un letto d’ospedale. Di questo vive La tenerezza: di sfumature, di attimi e piccole cose. Sprazzi di vite impregnate di pentimenti, di parole non dette per troppo che, finalmente, vengono a galla. Con violenta tenerezza.

La famiglia di fronte

Tredici anni dopo Le chiavi di casa, Gianni Amelio ritorna a parlare di paternità, di genitori erranti, perché sbagliano, perché camminano cercando di ritrovare un calore ormai perduto. Proprio come si affidasse a noi due chiavi di casa, il regista calabrese ci fa entrare nelle stanze di due famiglie. Lo fa in punta di piedi, con discrezione, per presentarci due focolari forse agli antipodi. Una famiglia spezzata, logorata, l’altra giovane, in apparenza felice e compatta. La tenerezza parla di questo, di famiglie allo specchio dove non mancano crepe. Nonostante l’impostazione corale, però, l’opera di Amelio è soprattutto la storia di un uomo, il ritratto impietoso di un padre, di un marito e di un professionista pieno di pentimenti. È la storia di Lorenzo, un anziano avvocato di Napoli, che ha problemi al cuore. In tutti sensi. Cardiopatia a parte, questo burbero signore si è ritirato dal mondo: vive in una grande casa vuota, piena solo di vecchi ricordi, per starsene da solo, lontano dagli altri. Persino dai suoi due figli a cui non vuole più parlare, che forse ha smesso di amare. Un giorno, di ritorno da un ricovero ospedaliero, Lorenzo incontra Michela, giovane madre un po’ sbadata con la quale nasce subito un affetto sincero. Dentro Lorenzo, allora, il cuore funziona ancora. Da questo incontro avvenuto per caso, su un pianerottolo, parte una lenta e inevitabile resa dei conti. Dei padri troppo assenti, dei nonni non abbastanza amati, dei figli che si sentono orfani senza esserlo.

Il senso della misura

C’è un secondo titolo nascosto che spiega molto de La tenerezza. È il titolo del romanzo di Lorenzo Marone da cui è tratto il film: La tentazione di essere felici. Una frase che fotografa alla perfezione lo stato emotivo dei personaggi raccontati da Amelio, tutti impauriti dalla possibilità di tornare a sorridere davvero. Per ognuno di loro la felicità appare perduta e forse irraggiungibile, ma se c’è una dimensione da cui ripartire, quella è proprio la tenerezza, l’affetto istintivo nei confronti di qualcuno. La tenerezza è una storia di ricerca, e di ogni indagine riprende la lentezza e l’amore per i dettagli. Svelando poco alla volta il vissuto dei suoi protagonisti, Amelio ispeziona con naturalezza e severità l’animo fallibile (e a tratti mostruoso) delle persone comuni, senza adagiarsi sulle etichette sociali dove troppo è dato per scontato. Non è scontato che un padre ami suo figlio, non è scontato che tutti sappiano essere genitor

Attraversato da questa amarezza latente e ambientato in una Napoli quotidiana (né miserabile né criminale), l’opera di Amelio nonostante qualche sprazzo di ironia, arriva nello stomaco con tutto il suo dolore. Un dolore che esplode a tratti, ma che abita soprattutto nei silenzi, nei rimorsi, nella presa di coscienza che l’amore più tenero è quello che non si adagia sui legami di sangue, ma che va conquistato e alimentato di continuo. Al centro di questo dramma familiare pieno di perdite e di preziose riconquiste c’è la capacità attoriale di tutti gli interpreti in scena, perfettamente dotati del giusto senso della misura. Renato Carpentieri con il suo essere ispido e vibrante, Elio Germano per il malessere alienante che conserva nel petto, Giovanna Mezzogiorno per l’amore che traspare dagli occhi, Micaela Ramazzotti per i sorrisi illuminanti, Greta Scacchi a cui basta una scena per rimanere impressa. Impressa come questo storia umana, imperfetta, che sicuramente è la fuori da qualche parte. Oppure accanto a noi.

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