Aleida Assmann by roberto-crosio.net e 2 pdf su forme strutturali della memoria

Aleida Assmann

Memoria funzione e memoria archivio

Nel contestare i modi attraverso cui tradizionalmente si tende a contrapporre storia e memoria, Aleida Assmann, storica e critica letteraria, propone una diversa distinzione, quella fra storia archivio e storia funzione: la prima (in un certo senso analoga alla mneme dei greci) intesa come accumulo indeterminato delle tracce del passato che la seconda (una sorta dianamnesis) assume nella misura in cui tali ‘depositi’ risultano organici a ben precise funzioni identitarie, individuate dall’autrice nella legittimazione, nella delegittimazione e nella differenziazione.

La teorie della memoria di Nietzsche, Halbwachs e Nora sottolineano il carattere costruttivo e di sostegno all’identità che il ricordo possiede e ne riaffermano i diritti contro una scienza storica oggettiva e neutrale. In tutti e tre i casi l’opposizione fondamentale è tra memoria corporea e incorporea o, se vogliamo, tra memoria vivente e memoria astratta. La memoria appartiene a portatori viventi con prospettive di parte; la storia al contrario appartiene «a tutti e a nessuno», è oggettiva e perciò neutrale per l’identità. I criteri alla base di questa opposizione si possono riassumere come segue.

La memoria vivente

La memoria astratta-

è legata a un portatore che può essere costituito

da un gruppo, da un’istituzione o da un singolo;

– non è legata a un portatore specifico;

– getta un ponte tra passato presente e futuro;

– separa radicalmente passato presente e futuro;

– si comporta in maniera selettiva dal momento

che ricorda una cosa e ne dimentica un’altra;

-si interessa a tutto; ogni dato ha la stessaimportanza;

-trasmette valori che fondano il profilo dell’identità e le norme etiche.

– trasmette la verità e non si preoccupa di valori e norme etiche.

Pur avendo messo in chiaro questa antinomia nel modo più esplicito, dobbiamo al contempo rilevare che col passare del tempo l’opposizione tra storia e memoria diventa sempre meno significativa. Tutti riconoscono ormai che non esiste narrazione storica che non sia, al contempo, anche un lavoro di ricostruzione basato sulla memoria e, quindi, inevitabilmente legato alle condizioni dell’interpretazione, alla parzialità e all’identità. […] La rigida contrapposizione fra storia e memoria mi sembra altrettanto inadeguata che la loro completa identificazione. […] Per superarel’impasse, contrapposizione o identificazione tra storia e memoria, bisogna fare un passo in avanti e intendere il funzionamento di memoria vivente e memoria astratta come due diverse modalità del ricordo. Propongo di definire «memoria funzionale» la memoria vivente. Le sue caratteristiche peculiari sono: l’essere inerente al gruppo, la selettività, l’eticità e l’orientamento verso il futuro. Le discipline storiche si interessano invece a un secondo tipo di memoria: una sorta di memoria delle memorie, che include tutto quanto abbia già perduto una relazione vitale con il presente. Propongo di definire «memoria-archivio» questamemoria delle memorie. […]

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Elena Agazzi Aleida Assmann ha dedicato alla … – Studi Culturali

Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale

Aleida Assmann

Descrizione

Aleida Assmann in questo studio ha distillato una ricerca che attraversa le epoche e le letterature, sulle diverse modalità di rapporto con il passato utilizzate dagli individui e dalle culture. Il volume è diviso in tre parti: la prima indaga le funzioni della memoria culturale; la seconda, basata in larga parte su esempi letterari, è dedicata ai mezzi attraverso i quali questa memoria si conserva; la terza infine, dedicata alle forme dell’archiviazione, unisce la riflessione sui processi di conservazione del patrimonio culturale a una serie di esempi tratti dall’arte contemporanea, dove entrano in gioco gli strumenti della memoria culturale

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Aleida Assmann – Le forme strutturali del ricordo

Ricordare – Forme e mutamenti della memoria culturale

La rivoluzione tecnologica digitale cambia profondamente le condizioni della memoria culturale.  Se da un lato la gestione dei dati diviene sempre più facile, dall’altro la deperibilità dei supporti è una minaccia per la conservazione a lungo termine delle informazioni.  In questo nuovo contesto non possiamo non riconsiderare le forme e i meccanismi che regolano la sedimentazione e la trasmissione sociale del patrimonio culturale.  Che cosa porta alla costituzione di quella memoria culturale che tanta parte ha nella formazione dell’identità personale e collettiva?  Attraverso quali processi i ricordi, che nascono sempre in prima istanza come ricordi individuali, divengono poi collettivi?  Qual è l’effetto che le differenze fra libro a stampa, fotografia e trascrizione elettronica hanno sulla struttura e sulla qualità della memoria?  Attraversando i confini fra le epoche e le letterature, fra i paesi e le discipline, Aleida Assmann indaga nella prima parte del libro le funzioni della memoria culturale; nella seconda, basata in larga parte su esempi letterari, i mezzi attraverso i quali questa memoria si conserva (scrittura, pittura, luoghi, il corpo stesso); nella terza infine, dedicata alle forme dell’archiviazione, collega in maniera originale la riflessione sui processi di conservazione del patrimonio culturale a una serie di esempi tratti dall’arte contemporanea.

Aleida Assmann insegna letteratura inglese e Teoria generale della letteratura nell’Università di Costanza.  Tra i suoi libri, «Zeit und Tradition» (1991), «Arbeit am nationalen Gedáchtnis» (1993), «Die Legitimitát der Fiktion» (1980).

Introduzione all’edizione del 1999

«Si parla della memoria solo perché non esiste più»: così recita una frase molto citata di Pierre Nora, un’affermazione coerente con un modo di pensare secondo cui un fenomeno, per poter essere recuperato pienamente alla coscienza, deve prima sparirne.  In generale la coscienza si sviluppa «sotto il segno del distacco».  Questa logica si adatta bene al carattere regressivo del ricordo, che si sedimenta solo quando si ha ormai dietro le spalle l’esperienza dalla quale scaturisce.  Esaminiamo subito la seconda parte della frase di Nora, e cioè la tesi che la memoria non esiste. E’ proprio così?  Davvero non esiste più memoria?  E quale tipo di memoria sarebbe scomparso?

Chi identifichi, ad esempio, il sapere autentico con il sapere mnemonico dovrà riconoscere che oggi, con esso, non si va molto lontano.  Studiare a memoria poesie di diverse strofe non rientra nemmeno più nei programmi scolastici.  Certo esistono ancora virtuosi della memoria che ogni anno, a Londra, si sfidano in una gara di memoria e cercano di entrare nel Guinness dei primati con prestazioni spettacolari, ma bisogna riconoscere che la stagione migliore di quest’arte è sicuramente conclusa.  Nell’antichità questo talento veniva ritenuto prerogativa di generali, politici e governanti, oggi invece il virtuoso della memoria è un fenomeno da varietà televisivo che rasenta addirittura il patologico: tra virtuosismo e fanatismo il passo è breve.  E perché, poi, si dovrebbe imparare a memoria ciò che si trova comunque a portata di mano nei libri?  La svalutazione del sapere mnemonico coincide con la repentina crescita delle possibilità di archiviazione esterna dei dati offerta dai moderni elaboratori elettronici ma il suo valore era già in atto molto prima che i computer si candidassero a sostituire la memoria umana.  Perfino Platone aveva sostenuto che il sapere mnemonico non è vero sapere e, nel Fedro, aveva non solo criticato la scrittura ma anche messo in ridicolo la nuova tecnica sofistica che avrebbe dovuto fornire un aiuto alla memorizzazione dei testi scritti.  La storia della mnemotecnica è accompagnata sin dalla nascita da un problema fondamentale: non sempre ciò che rimane più impresso coincide con gli standard della ragione e della prassi. «Ti stacco dal cuore le vecchie nonne» (veteres avias tibi de pulmone revello), dice Persio in una delle sue satire e, a metà del Seicento, il medico e teologo Thomas Brown congeda l’alleanza di tradizione, memoria e sapere scrivendo: «La conoscenza è fatta di oblio, e per acquisire un chiaro e affidabile corpo di verità dobbiamo dimenticare e separarci da ciò che conosciamo».  Nel Rinascimento, che segnò una rivalutazione della mnemotecnica, si rinnovò anche la teoria della memoria.  Harald Weinrich ha attirato l’attenzione su questa tradizione, alla quale appartengono tra gli altri Cervantes e Montaigne.  Il Don Quijote si può leggere, a suo avviso, come manifesto della «sostanziale dissociazione tra spirito e memoria» e nel suo saggio si trova altresì una radicale «negazione della pedagogia mnemonica».  D’altra parte negli autori moderni è attestata una costante svalutazione della memoria in nome della ragione, della natura, della vita, dell’originahtà, dell’individualità, del progresso e di tutti gli altri numi tutelari della modernità.  Weinrich constata:

E’ sicuramente degno di nota che l’inimicizia tra ragione e memoria, segnalata per la prima volta da Huarte, abbia condotto in tutta Europa, dall’illuminismo in poi, a una guerra generalizzata contro la memoria dalla quale è uscita vincitrice la ragione illuminista.  Da allora, e senza dovercene vergognare, ammettiamo di avere una memoria fallace; l’altra ammissione, quella di avere un intelletto limitato, si sente invece meno spesso.

Probabilmente Nora intende per memoria non tanto quella tipica della mnemotecnica – che presiede all’apprendimento, quanto la tradizione culturale nel suo complesso, la memoria primaria in base alla quale una regione o una nazione si costituiscono come insieme omogeneo.  Sulle pagine culturali dei quotidiani leggiamo spesso recriminazioni sulla sparizione della memoria culturale e troviamo tesi, come quella sostenuta ad esempio da Joachim Fest, secondo cui «l’entusiasmo della distruzione» non è un fenomeno nuovo.  Nella Germania otto – novecentesca i vincoli culturali e politici sarebbero andati distrutti «ora per estenuazione ora per equivoco» e da ultimo il movimento giovanile el 1968 avrebbe cancellato “accanto ad obsolescenze, autoritarismi e tabù anche eredità culturali e ricordi”  Albrecht Schöne, germanista e studioso di Goethe, rileva al contrario una strisciante rivoluzione culturale, «uno spostamento epocale» nel quale «un intero continente culturale, e spirituale» va alla deriva:

Ciò che si spezza nella cultura di base e va perduto a livello collettivo, cioè i presupposti della comprensione e la sua stessa possibilità fra generazioni diverse, non riguarda solo le grandi opere antiche.  Vale anche per i diari dei nostri bisnonni e le lettere delle nostre nonne.

Quando un certo sostrato di conoscenze comuni si perde, si spezza la comunicazione tra epoche e generazioni.  Come «i testi sacri» della letteratura, ad esempio il Faust di Goethe, sono comprensibili solo alla luce di un background di altri testi più antichi come ad esempio la Bibbia, che William Blake chiama tbe great code of art, così le scritture dei nostri nonni e bisnonni sono comprensibili solo attraverso la lente della storia di famiglia tramandata oralmente.  C’è dunque un collegamento tra la memoria culturale, che si trasmette da un’epoca all’altra attraverso i testi canonizzati e quella comunicativa, che generalmente comprende le memorie di tre generazioni trasmesse oralmente. Schöne diagnostica la scomparsa della memoria ad entrambi i livelli sia comunicativo sia culturale.

Per Nora la crisi della memoria è uno sganciamento del presente dal passato, che descrive come un progressivo decadimento in un passato irrevocabilmente morto, uno sradicamento di ciò «che del vissuto ancora si radicava nel calore della tradizione, nel silenzio dei costumi e nella ripetizione del tramandato» e individua anche la forza distruttiva qui in atto: «sospinta da un’onda sotterranea di storicità».  Ciò che oggi si vede della memoria «è il suo scomparire nel fuoco della storia». Questa frase potrebbe riferirsi alla crisi della memoria vivente quale che si verificherà con il prossimo cambiamento generazionale, quando tutti i testimoni oculari della più grande tragedia di questo secolo, la Shoah, saranno ormai morti.  A questo proposito lo storico Reinhart Koselleck osserva:

Con il cambiamento generazionale si modifica anche il punto di vista.  Dal presente storico dei sopravvissuti, che hanno vissuto in prima persona queste esperienze, si arriverà ad un passato puro che si è ormai separato dal vissuto. Con il dileguarsi del  ricordo soggettivo la distanza non sarà solo maggiore, cambierà di qualità.  Presto parleranno solo i documenti ufficiali, integrati ed arricchiti da foto, filmati e biografie”.

Koselleck descrive la trasformazione del presente storico in passato puro come dissolvimento dell’esperienza storica vissuta in oggetto di studio storiografico.  Cosa vuol dire tutto questo?

I criteri di ricerca scientifica saranno più lucidi ma anche o forse incolori; meno pregnanti, pur garantendo una migliore conoscenza ed una maggiore obiettività.  Nell’ottica della singola indagine storiografica e delle analisi condotte sulla base di ipotesi la condanna morale o la segreta ricerca delle attenuanti, le accuse e l’attribuzione delle colpe, tipiche del metodo storiografico – tutti questi modelli interpretativi del passato – perdono la loro carica politico – esistenziale, sbiadiscono.

Diventare incolore, perdersi, sbiadire: sono perifrasi per l’inarrestabile processo di oblio che, secondo Koselleck, è conseguenza dell’ottica scientifica.  Ne consegue che i ricordi del vissuto personale si contrappongono all’indagine storica astratta condotta su basi scientifiche.  Secondo questa tesi la storia deve essere lettera morta nelle menti, nei corpi e nei cuori degli interlocutori prima di poter risorgere, come la fenice dalle ceneri, in qualità di conoscenza scientifica dell’esperienza.  Finché esistono i protagonisti – e con loro le concrete emozioni, le aspirazioni e i pregiudizi – ogni ricerca storica corre il rischio di essere di parte.  L’obiettività pertanto, non è solo una questione di metodo e di standard critici ma è anche un problema di mortificazione, di morte, di sbiadimento del dolore e del coinvolgimento soggettivo.

Si è tentati di dire che oggi avviene l’esatto contrario di quanto descritto da Kosefleck: col passare del tempo, l’Olocausto come fatto in sé non è diventato affatto incolore, né tantomeno risulta sbiadito bensì, anzi, paradossalmente, più vitale e a noi più vicino.  Affermazioni di questo tipo: «Più ci allontaniamo da Auschwitz, più il ricordo di quei fatti e di quei crimini ci rimane dentro» non sono affatto inconsuete.  Oggi abbiamo a che fare non con l’autoannullamento ma con l’acutizzazione del problema della memoria, vale a dire con la necessità che la memoria vivente dei testimoni oculari, per non disperdersi, venga tradotta in memoria culturale per la posterità.  La memoria vivente si stempera in una memoria sorretta da mediatori perché si lega a supporti materiali quali monumenti, luoghi di commemorazione, musei ed archivi.  Mentre il meccanismo del ricordo individuale avviene nel complesso in modo spontaneo e secondo le leggi generali della psicologia, a livello collettivo ed istituzionale questo processo viene pilotato da una precisa politica del ricordo, o, più precisamente, da una precisa politica dell’oblio.  Non esiste memoria culturale capace di autodeterminarsi: essa deve necessariamente fondarsi su mediatori e politiche mirate.  Nella trasformazione della memoria individuale, in sé legata al vissuto, in memoria culturale, in sé artificiale, è insito il rischio della distruzione, della parzialità, della manipolazione e della falsificazione della sua autenticità.  Tali strettoie e sclerotizzazioni possono però essere colte solo se congiunte ad una aperta riflessione critica e ad un esame attento.

L’affermazione di Nora sull’attuale scomparsa della memoria è contraddetta dalla tesi sostenuta in un libro da un gruppo di studio americano composto da medici, psicologi e studiosi della cultura.  Essi sottolineano il ruolo crescente assunto dal ricordo nella vita quotidiana ed il nuovo, finora sconosciuto, valore che la memoria ricopre nella cultura contemporanea.

Il ricordo è oggi, come mai in passato, al centro di un vasto dibattito teorico: ad esso si fa appello per discolpare, incolpare e giustificare; esso è diventato essenziale per la fondazione dell’identità individuale e collettiva e si pone come luogo privilegiato sia della conflittualità sia dell’immedesimazione”.

Se alcuni tipi di memoria – come la memoria che presiede all’apprendimento o la memoria primaria e, in relazione alla Shoah, la memoria vivente – perdono terreno, acquistano un nuovo significato altre forme, quella dei mediatori e quella politica.  Il passato, dal quale col passare del tempo ci allontaniamo sempre di più, non è appannaggio solo degli storici di professione ma esercita anche un’influenza sul presente in forma di diritti e doveri contrapposti: oltre alle sintesi totalizzanti della storia al singolare esistono oggi memorie diverse, in parte tra loro contraddittorie, che rivendicano il diritto al riconoscimento sociale.  Nessuno potrà negare che esse, con le esperienze e le aspirazioni di cui sono portatrici, sono divenute una parte vitale e incontrovertibile della nostra cultura.

Precisare la prima parte della frase di Nora che abbiamo citato è molto più semplice.  Che da una decina d’anni si discuta molto sulla memoria lo dimostra una letteratura sempre più vasta e approfondita.  L’interesse per la memoria va ben oltre la fase congiunturale di un tema d’indagine di moda.  La sua persistente fascinazione sembra essere un indizio dell’intrecciarsi di diversi nodi problematici – culturali, naturalistici e informatici – che si stimolano e si approfondiscono l’un l’altro. Il computer, con la sua infallibile memoria artificiale, e le acquisizioni scientifiche sulla costruzione e distruzione della rete neuronale nel cervello umano costituiscono un orizzonte significativo di problematiche culturali.  Questa molteplicità di approcci al tema della memoria dimostra che nessuna disciplina può pretendere il monopolio in questo campo.

Il fenomeno della memoria, nella molteplicità dei suoi aspetti, non è solo interdisciplinare, nel senso di non poter essere oggetto di studio di una sola disciplina, ma anche controverso e contraddittorio all’interno delle singole discipline che se ne occupano. «Memory is ínexplicable» afferma Virginia Woolf. Questo lavoro è sostenuto dal desiderio di consentire il più ampio numero possibile di punti di vista sul complesso fenomeno della memoria e di disegnare contestualmente linee evolutivi e continuità problematiche di più ampio respiro. Verranno successivamente fatte interagire tradizioni – mnemotecnica e problema dell’identità, prospettive – della memoria individuale, collettiva e culturale, mediatori – testi, immagini e luoghi, approcci – letteratura, storia, arte, psicologia etc.  Nelle pagine che seguono si cercherà invano una teoria unitaria perché essa è smentita dalla contraddittorietà stessa degli esiti, che è essa stessa parte fondamentale del problema.

I would enshrine the spirit of the past

for future restoration

(Prelude, XI, 342-343)

[chiudere in un tabemacolo lo spirito del passato

per trarne salute in futuro]

scriveva il poeta Wílliam Wordsworth, ma T.S. Eliot sembra volerlo contraddire di proposito:

T’here’s no memory you can wrap in camphor

but the mots wifl get in

non c’è naftalina che tenga

nella memoria arrivano sempre le tarme “.

E ancora un altro esempio ci è fornito da Svevo che all’inizio del Novecento scriveva:

Il passato è sempre nuovo: Come la vita procede esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell’oblio mentre altre scompaiono perché oramai poco importanti.  Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori.  Gli occorrono questi o quei suoni, non altri.  E perciò il passato sembra ora tanto lungo ed ora tanto breve.  Risuona o ammutolisce.  Nel presente riverbera solo quella parte ch’è richiamata per illuminarlo o per offuscarlo”.

Quasi contemporaneamente Marcel Proust ribadiva « il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l’unico libro nostro»

La descrizione di Svevo si inscrive all’interno di una sistematica teoria della memoria secondo cui il passato è una libera costruzione che si realizza a partire dal presente.  Nella concezione proustiana della memoria, al contrario, è il presente ad essere forgiato in un certo modo, a partire da un passato che si sottrae alla disposizione soggettiva.  Da questo punto di vista, il presente è in una relazione molto più complessa col passato.  Proust paragona tale presenza del passato nella coscienza ad un negativo del quale è impossibile dire in anticipo se verrà sviluppato o meno.

Per spiegare la continua fascinazione e la nuova rilevanza del tema della memoria si adducono motivi diversi: gli esiti di una filosofia della storia che pone l’accento sul compimento del presente e sulla speranza di futuro, quelli di una filosofia del soggetto che si concentra sull’individuo razionale e sovrano, quelli di una teoria della conoscenza disciplinare e di sempre maggiore specializzazione.  In questa ottica la tematica culturale della memoria si rivela non solo un campo controverso ma una modalità peculiare di affrontare nodi problematici di interesse sociologico generale. Eppure tali chiarimenti non bastano a cogliere appieno questo fervore, quasi ossessivo, degli studi sul tema cui si dedica anche questo lavoro.

Diversamente da una tradizione che evolve e progredisce con continuità, i movimenti della memoria sono estemporanei e fragili ed avvengono normalmente sotto tensione.  Il ricordo ha sempre bisogno di un pretesto; secondo Heiner Müller il processo del ricordare si avvia in seguito a uno shock.  Nulla ha dato maggior impulso al ricordo quanto la tragedia della distruzione e dell’oblio della metà del Novecento. E’ pertanto logico che gli avvocati della memoria scendano in campo per rivisitare i luoghi della catastrofe, come Simonide nella leggenda romana, oggi che, dal punto di vista degli europei e soprattutto dei tedeschi, si riconosce uno spiegamento, finora misconosciuto, della forza distruttiva.  Se si assume come premessa questa interdipendenza di ricordo e distruzione, non si può continuare a ritenere paradossale la prima parte dell’affermazione di Nora: nella tematizzazione della memoria si riconoscerà la forma in cui le nuove generazioni ereditano ed elaborano gli orrori del Novecento.

Questo lavoro si divide in tre parti: la prima dedicata alle funzioni, la seconda ai mediatori e la terza ai depositi della memoria culturale.  La prima parte si apre e si chiude con precisazioni concettuali, poiché le diverse funzioní della memoria si proiettano in teorie e discorsi diversi.  La distinzione tra «deposito» e «ricordo» corrisponde a quella tra memoria come tecnica e come facoltà.  Da essa dipendono, come si dimostrerà, due diverse tradizioni interpretative indipendenti: da una parte la famosa tradizione retorica della mnemotecnica, dall’altra la tradizione psicologica, che vede nella memoria una delle tre facoltà dell’anima o sensi interni.  Mentre la prima tradizione mira all’organizzazione ed all’ordine formale del sapere, l’altra indaga l’interazione di memoria, immaginazione e ragione.  Questa differenziazione della memoria in ars e vis viene trattata in generale nella prima parte, perché è interesse precipuo del libro far rilevare che nella memoria, oltre alla funzione ordinatrice della mnemotecnica, ne esistono molte altre che convergono nell’interdipendenza di ricordo e soggettività.

Commemorazione dei morti, fama postuma e memoria storica sono tre modi di relazionarsi al passato, differenziatisi all’inizio dell’epoca moderna in forme diverse e concorrenziali di memoria culturale. I capitoli terzo e quarto illustrano attraverso esempi letterari due forme di politica del ricordo, intesa nel senso più ampio del termine.  In entrambi i casi si tratta del ruolo assunto dai ricordi nel progetto di fondazione dell’identità.  Nei drammi storici di Shakespeare la memoria storica fonda l’identità nazionale, nel Preludio di Wordsworth, invece, la memoria biografica fonda l’identità individuale.  In entrambi i casi è centrale il valore del ricordo che viene rievocato attraverso un processo di ricostruzione e che quindi presuppone sempre l’oblio come sua parte fondamentale.  Il capitolo quinto, «I contenitori della memoria», si interroga sulle modalità della scelta e sul valore dei contenuti della memoria.  Che cosa è importante e cosa è trascurabile?  E a quali condizioni è possibile conservare ciò che è veramente importante?  Qui si paragona la memoria ad un’arca, attrezzata in modo da poter contenere in un unico spazio spirituale tutto il sapere fondamentale del cristianesimo; ma anche ad uno scrigno che Heine ha concepito come involucro di testi fondamentali per la vita (e per la morte); e infine al naufragio di una cassa di libri che scompare nell’abisso con il peso di una memoria culturale nozionistica e nemica della vita.  E capitolo sesto affronta il problema della capacità di scelta e di archiviazione e propone la distinzione tra «memoria funzionale» e «memoria archivio», che fa riferimento sia alla distinzione di memoria come ars e vis, sia a quanto affermato nell’ultima parte del libro.

Nella misura in cui la memoria venga studiata dal punto di vista psicologico o fisiologico, può essere legittimo concentrarsi sulla dimensione organica dei processi e della struttura neuronale, ma, non appena si affronti il tema dal punto di vista culturale, ci si imbatte nel problema dei suoi mediatori tecnici e funzionali.  I semiologi russi della scuola di Tartu Jurij Lotman e Borís Uspenskíj definiscono la cultura «una memoria non ereditaria del collettivo» e con ciò sottolineano la necessità di ricondurla a pratiche e mediatori di un certo tipo”.  Questa memoria non si perpetua automaticamente ma deve essere sempre riplasmata, sancita, comunicata e adattata.  Individui e culture la costruiscono interattivamente attraverso la comunicazione linguistica, le immagini e la ripetizione rituale.  Sia i singoli individui sia le diverse culture organizzano la loro memoria grazie a mediatori di deposito e pratiche culturali.  Senza il loro ausilio non è possibile dar vita ad alcuna memoria generazionale o epocale e ciò significa che poiché il loro stadio di sviluppo può variare in conformità ad esso varia anche la capacità della memoria. I mediatori tecnici appartengono a diversi sistemi di segni: dall’Ottocento in poi, non si limitano più solo alla mediazione verbale ma comprendono la mediazione per immagini e, dal Novecento, anche quella acustica della voce e del tono.

La seconda parte è dedicata ai mediatori che fondano e facilitano la memoria culturale offrendole un supporto concreto e interagiscono con la memoria umana.  Oggi la memoria individuale è circondata da una serie di mediatori tecnici che cancellano il confine tra processo intrapsichico ed extrapsichico.  D’altra parte, l’insieme delle metafore utilizzate da filosofi, artisti e scienziati per descrivere il funzionamento della memoria umana dimostra che questo confine è in sé difficile da delineare.  Persino nelle descrizioni della memoria più antiche, le metafore sono realizzate nell’ambito semantico del linguaggio tecnico e la loro evoluzione riflette di pari passo quella dei mediatori: dalla tavoletta di cera alla pergamena, alla fotografia, al film, al Pc.  In questo campo si sta oggi verificando un cambiamento epocale perché la scrittura, che per oltre due millenni era stata la metafora principe della memoria, viene dissolta dalla grande metafora della rete cibernetica: scrivere diventa sempre di più utilizzare una tastiera.  In che direzione vanno svolgendosi le premesse fondamentali della teoria della memoria?  Sin dai primordi della scrittura nell’Egitto del II secolo a.C. ci sono testimonianze che la considerano il mediatore privilegiato della memoria e che la celebrano come il più affidabile garante della sopravvivenza nel tempo.  Questo orizzonte culturale della sopravvivenza nel tempo sembra essere strettamente collegato con la metafisica della scrittura di provenienza orientale che concepisce lo spirito come una sostanza incorporea e astorica e vede nella fissazione scritta del testo il suo mediatore più congeniale.

Al contrario oggi, per l’influenza della tecnologia di archiviazione computerizzata, riemerge nella concezione della memoria il concetto di sovrascrivibilità permanente e di ricostruibilità del ricordo.  Nelle tecniche di archiviazione e negli studi sulla struttura del cervello umano viviamo in questo momento una fase di trasformazione paradigmatica nella quale all’idea di ritenzione permanente si sostituisce il principio di una continua sovrapposizione dei dati mnestici.

Ogni mediatore consente un approccio specifico alla memoria culturale.  La fissazione scritta del testo, che riproduce la lingua, archivia in modo diverso dalle immagini, che, a loro volta, raccolgono impressioni ed esperienze indipendenti dal linguaggio verbale.  Sin dalla mnemotecnica romana ai cosiddetti imagines agentes viene attribuita grande efficacia nella mediazione della memoria.  Successivamente la si è attribuita ai simboli ed agli archetipi che convogliano il mondo onirico individuale e l’inconscio collettivo.  Anche il corpo può fungere da vero e proprio mediatore, perché i processi psichici e mentali del lavoro mnestico sono ancorati a fattori sia neuronali, sia corporei.  Il corpo stabilizza il dato mnestico attraverso l’abitudine e lo intensifica attraverso le emozioni che possono essere considerate in sé ambivalenti: possono infatti valere sia come garanzia di autenticità, sia come motivo di falsificazione.  Quando un ricordo, profondamente impresso nella memoria corporea, viene completamente rimosso dalla coscienza, si parla di trauma e cioè di un’esperienza imprigionata nel corpo, che si manifesta in sintomi, della quale non è tuttavia precluso il recupero mnestico.  Alla categoria dei mediatori esterni della memoria appartengono infine anche i luoghi teatro di avvenimenti significativi dal punto di vista religioso, storico o biografico.  Questi luoghi hanno la capacità di conservare e garantire la memoria anche dopo una fase di oblio collettivo.  Dopo una rottura con la tradizione, turisti e pellegrini ritornano ai luoghi per loro significativi, dove ritrovano paesaggi, monumenti e rovine.  Con ciò si ottiene una «rianimazione», perché il luogo riattiva il ricordo, almeno tanto quanto il ricordo riattiva il luogo.  La memoria biografica e culturale però, non si lascia circoscrivere in un luogo, pertanto il processo mnestico può avvenire soltanto con l’ausilio di altri mediatori della memoria.  Ogni volta che una tradizione si interrompe nascono luoghi spirituali dedicati al libero gioco dell’immaginazione o del recupero del rimosso.

Nella terza parte vengono descritti luoghi della memoria di tutt’altro tipo: i depositi.  Mentre la memoria si concretizza a livello sensibile nel corpo e nel luogo, l’archivio è indipendente da essi e perciò astratto e di valore generale.  Perché esso diventi un magazzino della conoscenza, sono necessari supporti materiali di codifica dei dati, primo fra tutti la scrittura.  L’archivio dipende quindi da mediatori tecnici.  La stessa possibilità di archiviazione dei dati, cresciuta repentinamente con il proliferare di nuovi linguaggi come la fotografia, il cinema, il registratore, il video, pone l’archivista di fronte a nuovi problemi di custodia.

L’archivio non è solo il posto in cui vengono conservati i documenti del passato ma anche il luogo in cui il passato viene costruito e creato.  Questa operazione dipende sia da interessi sociali, politici e culturali, sia, soprattutto, dai mezzi di comunicazione e dai sistemi di codifica vigenti.  L’archivio è nato con la fissazione scritta del testo che codifica le informazioni in modo tale da renderle leggibili per la posterità.  La sua struttura si modifica radicalmente con il passaggio ad un sistema di codifica computerizzato e perciò dinamico.  Scaffali, comparti e contenitori su cui si accumula la polvere dei secoli saranno sostituiti da sofisticati elaboratori elettronici capaci di immagazzinare quantità crescenti di dati e di renderli disponibili sempre più velocemente.  Probabilmente l’era digitale darà vita a nuove forme di archiviazione e archivierà la nozione stessa di archivio come ormai obsoleta.

Eppure l’attuale crisi della memoria culturale non è legata solo alla problematicità dei nuovi mediatori, lo dimostrano le opere di quattro artisti e artiste nati dopo la seconda guerra mondiale che si trovano davanti una memoria culturale frantumata.  Essi mettono la loro attività artistica al servizio di un lavoro mnestico autoriflessivo che riscopre nel magazzino, nel libro e nell’archivio nuove forme di rappresentazione artistica.  Ci si accorge che, nel momento in cui assume la memoria a suo oggetto, mentre la società ne minaccia la distruzione o la rimozione, l’arte si potenzia.  Tematizzando memoria e oblio, il processo mnestico dell’arte non rappresenta però, a sua volta, un archivio: è la simulazione dell’archivio.  Agli artisti non interessa l’archiviazione tecnicamente intesa ma il Leidschatz nel quale riconoscono un patrimonio artistico.  Questa forma d’arte assomiglia a uno specchio, nella fattispecie, come sottolinea Heiner Múher, a un indice dello stato attuale dell’oblio e della rimozione nella coscienza collettiva.  Non si può parlare dunque di sparizione progressiva della memoria culturale.  Oggi è soprattutto l’arte ad assumere come tema la crisi della memoria e a scoprire le nuove forme in cui nella nostra cultura si modella la dinamica del ricordo e dell’oblio.

All’esterno dell’archivio circolano gli oggetti d’uso e si depositano i rifiuti.  L’aumento dei rifiuti, vale a dire di ciò che non viene collezionato e che quindi si accumula come residuo di una civiltà, è chiaramente un’immagine inversa dell’archivio. I rifiuti sono una sorta di «archivio al contrario», che è tanto un emblema dello smaltimento e dell’oblio, quanto una nuova immagine per la memoria latente che si colloca nell’interfaccia tra memoria funzionale e memoria-archivio, rimanendo in bilico, in una sorta di terra di nessuno, tra presenza e assenza, di generazione in generazione.  Il confine tra archivio e deposito di rifiuti è in continuo movimento.  A questo proposito Krzysztof Pomian osserva che l’essere scartato non rappresenta necessariamente l’ultimo gradino nella carriera di un oggetto.  La trasformazione in rifiuto rappresenta semplicemente una fase di defunzionalizzazione nella quale un oggetto perde il suo valore d’uso.  Successivamente a questa neutralizzazione esso può riacquistare valore o, più precisamente, può assurgere a simbolo di un valore.  In questo modo il rifiuto privo di valore diventa un «semioforo», vale a dire un segno visibile per qualcosa di invisibile e non percepibile concretamente come il passato o l’identità di una persona”.

Anche se una prospettiva storica o artistica può riuscire a mutare la prosa del residuato nella poesia del ricordo, tuttavia rimane sempre moltissimo che non si vuole o non si riesce a recuperare.  Il residuato è ciò che rimane a disposizione e con ciò si può intendere sia l’archivio sia la spazzatura.  I residuati però non si possono mai recuperare integralmente.  Per l’archivio i rifiuti sono strutturalmente almeno tanto importanti quanto l’oblio per la memoria.  Questo è quanto portano alla coscienza le opere d’arte plastica ed i racconti fantastici, che tentano l’esperimento mnestico di un’archiviazione globale della spazzatura.

http://www.roberto-crosio.net/1_intertestualita/assmann_memoria.htm

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