Dino Buzzati : . IL BAMBINO TIRANNO, Rigoletto , All’idrogeno + altro

30. IL BAMBINO TIRANNO

Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia.

Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle proprie armi nei seguenti termini: per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti per la verità, che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile). Oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare; dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile di tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranìo. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare. L’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente.

Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnificenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. “No, non toccare tu che hai le mani sporche… Ti piace eh? Dà qua, dà qua, se no finisci per guastarlo… E tu, dimmi, te ne hanno regalato uno anche a te? ” (ben sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta, genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: ” Che caro ” sussurravano. ” è proprio un omettino, ormai… Sentitelo come si stima!… Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli, eh ci tiene all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna! ” Quasi che l’essere geloso dei balocchi fosse per un bimbo una virtù straordinaria.

Basta. Un conoscente portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era un ” camion del latte “, perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in uniforme che si potevano mettere e levare, le portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina che, aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso.

Ebbene, un pomeriggio il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare dell’anima sua passando dinanzi all’armadio dei giocattoli, tirò quasi per caso, come succede, la manopola dello sportello. Sentì che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso a chiave come al solito, ma l’anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per dimenticanza non era stata fissata coi catenacci in alto e in basso. E così entrambe si aprirono.

” Che cosa fai, Giorgino? ” disse infine con voce spenta il nonno. “Non è ora di fare la nanna?” “La nanna?” fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo. ” E perché non giochi allora? ” osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli preferibile una rapida catastrofe. ” No ” fece il bimbo dispettoso ” di giocare non ho voglia. ” Immobile, aspettò circa mezz’ora, quindi annunciò: ” Io vado a letto “. E uscì col camioncino sotto il braccio.

Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare dentro.

Il nonno viveva sulle spine. ” Giorgio ” disse più di una volta ” ma perché ti porti sempre dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi vedere le belle bottigliette! ” Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli pesava il tormento dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile. “No, non ho voglia. è mio o non è mio il camion? E allora lasciami stare. ”

La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi discutevano. ” E tu diglielo! ” diceva il padre al nonno ” piuttosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive più per questo maledetto camion! ” ” Maledetto? ” protestava la nonna. ” Non dirlo neanche per scherzo… il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero tesoro! ” Il papà non le badava: ” E tu diglielo! ” ripeteva esasperato. ” Avrai il coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no? ”

Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe trattenersi: ” Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi? Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il braccio! “. Allora il bambino si ingrugnò come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una commedia?). Poi si mise a gridare, singhiozzando: ” Io ne faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no che basta?… Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi… Là… là, guarda! “. Con le due mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per terra, poi coi calcagni gli saltò sopra, sfondandolo. Divelto il tetto, il camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra.

Qui Giorgio all’improvviso si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti interne del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca. Inviperito, si guardò intorno, livido: ” Chi? ” balbettò. ” Chi è stato? Chi ci ha messo le mani? Chi l’ha rotto? ”

Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino. ” O Giorgino, anima mia ” supplicò la mamma. ” Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino mio! ”

Intervenne anche la nonna: ” Ah no, creatura, hai ragione tu. Fagli totò al brutto nonno che ti rompe tutti i giocattoli… Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono che sia buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno! ”

Di colpo Giorgio ritornò tranquillo. Guardò lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricomparve sulle labbra.

” L’ho detto io ” fece la mamma; ” L’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella! ”

Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. ” E guardàtelo che stella… e guardàtelo che stella!… ” cantarellò, facendo il verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. ” E guardàtelo che stella! ” ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero.

31. RIGOLETTO

Alla rivista militare per l’anniversario dell’indipendenza sfilò per la prima volta in pubblico un reparto dell’arma atomica.

Era un giorno chiaro ma grigio di febbraio ed una luce uniforme batteva sui polverosi palazzi del corso da cui sventolavano le bandiere. Dove io mi trovavo, il passaggio dei formidabili carri armati che aprivano il corteo rombando strepitosamente sul selciato di pietra non ebbe il solito effetto elettrizzante sulla folla. Pochi e svogliati gli applausi all’apparire delle magnifiche macchine irte di cannoni, dei bellissimi soldati che spuntavano dalla sommità delle torrette coi loro caschi di cuoio e di acciaio. Gli sguardi andavano tutti laggiù, verso la piazza del Parlamento, donde la colonna muoveva, in attesa della novità.

immaginate il fumo contenuto in un alto camino di fabbrica, ma senza il camino che lo racchiuda. Adesso le inquietanti torri di fitto pulviscolo, come fantasmi, si elevavano per una trentina di metri sopravanzando i tetti dei palazzi, e da una cima all’altra vedemmo altrettanti ponti della stessa nebulosa materia colore della fuliggine. Si formò così una intelaiatura di immense rigide ombre che si prolungava a perdita d’occhio in corrispondenza del corteo. E i cani chiusi nelle case continuavano a latrare. Che accadeva? La sfilata si fermò, e il gobbino, sceso dal suo veicolo, risalì di corsa la colonna gridando complicati ordini che parevano in lingua straniera.

Con malcelata ansietà i militari armeggiarono intorno ai loro apparecchi.

Ormai i minareti di nebbia o pulviscolo – evidenti emanazioni dei carri atomici – incombevano altissimi sopra la folla, con rigore di linee quanto mai sinistro. Un’altra frotta di topi balzò fuori dal lucernario dandosi a pazza fuga. Come mai non oscillavano al vento, come le bandiere, questi pinnacoli di malaugurio?

Benché inquieta, la folla ancora taceva. Dinanzi a me, al terzo piano, si aprì di schianto una finestra e vi comparve una giovane donna scarmigliata. Rimase un istante, estatica, a fissare i picchi di inspiegabile nebbia e gli aerei ponti che li congiungevano. Portò le mani ai capelli in atto di spavento e un grido desolato uscì dalla gola: ” Madonna! Oh, Madonna!”.

Che voce! Cercando di dominarmi mi trassi indietro. In un ultimo sguardo vidi i militari febbrilmente agitarsi intorno agli apparecchi come se non riuscissero più a dominarli (più tardi compresi che, pur pallidi e brutti, erano anch’essi dei veri soldati). Avrei fatto in tempo? A veloci passi dapprima, attento a non farmi notare, svelto, sempre più svelto, finché mi gettai fuori della calca, infilando una strada laterale.

Udivo alle mie spalle il rombo della folla, finalmente inorridita, sotto l’urto del panico. A trecento metri circa ebbi la forza d’animo di voltarmi indietro a guardare: sopra il nero selvaggio tumulto della moltitudine in fuga, le torri di ombra rossiccia adesso dondolavano, i ponti fra l’una e l’altra contorcendosi lentamente: in uno sforzo supremo, si sarebbe detto. Il loro allucinante moto accelerava sempre più, diventando frenetico. Allora un urlo tenebroso ed atroce tuonò tra le case.

Poi accadde ciò che tutti sanno.

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