CAMILLE CLAUDEL 1915 e lo “strano” cinema di BRUNO DUMONT

Un ritratto rigoroso e dolente della scultrice Camille Claudel nei suoi anni di reclusione psichiatrica

Giancarlo Zappoli

Inverno 1915. Camille Claudel è stata reclusa dai suoi familiari in una casa di cura psichiatrica. Ha dovuto abbandonare Parigi e porre fine alla sua attività di scultrice. Ora attende la visita del fratello maggiore Paul nutrendo la speranza di poter finalmente uscire dall’istituto e fare ritorno a casa.

Nata nel 1864 nel nord della Francia Camille Claudel fu dapprima allieva di Auguste Rodin divenendo la sua compagna per 15 anni, fino a quando i due si separarono nel 1895. Nel 1913, in seguito alla morte del padre e dopo aver passato dieci anni praticamente asserragliata nel proprio studio, la madre la fece internare a Ville Evrard. Vi morirà nel 1943 senza aver mai più fatto ritorno in famiglia.

Nel 1988 Bruno Nuytten aveva già affrontato, dandogli il volto di Isabelle Adjani, il personaggio della scultrice. Aveva però scelto di focalizzare l’attenzione sul suo tormentato rapporto con Rodin. Bruno Dumont ci presenta invece Camille quando il suo allontanamento dal mondo è già avvenuto. Non è sicuramente un caso che il film si apra con la scena del bagno. La donna viene spogliata dalle infermiere e lavata. È quanto accadrà nel film: Camille sarà messa a nudo nella sua fragilità così come verrà portato in luce il lato più oscuro della concezione dell’arte da parte della borghesia del tempo. Dumont fa di Juliette Binoche una Camille consumata dal timore (ha paura che la si voglia avvelenare con il cibo). Disponibile ad aiutare le compagne di sofferenza gravemente turbate sul piano mentale ma anche distaccata e quasi abitante di un mondo diverso e lontano. È forse questo l’unico modo per lei di conservare un barlume di speranza per un possibile rientro nella società che peraltro i medici ritengono possibile. Chi invece ha tutt’altro punto di vista è lo scrittore e poeta Paul Claudel, fratello di Camille. La sua concezione dell’arte è quanto di più retrivo si possa pensare. Ritiene infatti che essa non possa essere dominata dalla sorella in quanto troppo fragile, quasi che si dovesse stilare una graduatoria in cui poter inserire chi possa e invece non possa dedicarsi all’attività creativa. La vera follia si rivela così non quella dei pazienti della clinica ma piuttosto quella di una parte dominante della società che si ritiene in diritto di dettare regole assurde confinando a vita una personalità tanto dotata quanto originale come quella di Camille. Dumont ne fa un ritratto rigoroso e dolente. Resta solo la perplessità sull’utilizzo nel corso delle riprese, per quanto sotto controllo dei medici, di veri pazienti affetti da turbe psichiche che Dumont giustifica con l’esigenza di un realismo che nessun attore avrebbe potuto restituire sullo schermo.

http://www.mymovies.it/film/2013/camilleclaudel1915/

CAMILLE CLAUDEL 1915

di Bruno Dumont

TRAMA

Inverno 1915. Internata in una casa di cura nel sud della Francia, Camille Claudel non può più scolpire. Vorrebbe tornare ad esercitare la sua arte, ma nessuno, a cominciare dal fratello Paul, sembra intenzionato a volerne assecondare il desiderio.

RECENSIONE

Ancor prima che donna ostracizzata perché donna e artista che ha avuto il torto di sfidare l’Istituzione-Auguste Rodin, Camille è un enigma che scruta, grida, piange. Sola. Un anno, il 1915, distante dalle passioni e dai tumulti narrati da Bruno Nuytten e vissuti da Isabelle Adjani nel classicamente biografico film del 1987. Rigettata, reclusa, questa Camille Claudel non ha più niente da vivere. Sconta il vissuto e scolpisce la natura con lo sguardo. Il suo isolamento, simbolicamente quasi ovvio per le ragioni di cui sopra, non lo è dal punto di vista narrativo. Perché continuare a frustrare il desiderio dell’artista di tornare a creare, a forgiare? A contatto con altre marginalità, Camille scopre non soltanto quanto e come la società annichilisca ogni forma di alterità non categorizzabile, stigmatizzandola come follia da reprimere e emendare, ma quanto e come essa legittimi strumentalmente forme di psicosi tollerabili perché funzionali e produttive. Come quella del fratello Paul, il cui Dio onnipotente è più amante che amato, più ossessiva e mentale presenza che silenziosa, e pascaliana, assenza.

Al suo primo film con un’attrice professionista francese in tête d’affiche (Juliette Binoche), Bruno Dumont cesella un anti-biopic giansenista e apsicologico, tra il più volte evocato Robert Bresson e il Maurice Pialat di Sotto il sole di Satana e Van Gogh: la contemplazione rigorosa di un volto che esprime un dolore indicibile; lo stridente conflitto tra un artificio naturalizzato (la recitazione al tempo stesso trattenuta e esplosiva della Binoche) e un’umanità colta nella sua terribile “naturalezza“. La grande forza del film risiede proprio in questo: nella relazione disforica che si dispiega fin da subito (senza spiegare e “piegare“) tra drammaturgie, situazioni e stati differenti. Da un lato, l’attrice riconosciuta e il suo personaggio storico riconoscibile, anche se in parte disidentificato. Dall’altro, il popolo dei malati, dei “pazzi“, dei marginali: gli autentici abitanti di una casa di cura. La messa in relazione di questi due universi, l’uno pienamente funzionale, anche se non riconciliato e non riconciliante, l’altro pulsante e capace di liberare una “realtà” di destabilizzante evidenza, crea un corto circuito semantico che è il cuore pulsante del film e, forse, di tutto il cinema di Dumont.

E il corto circuito sprigiona una generale impressione di “verità” su un personaggio che è al tempo stesso storico (incorniciato storicamente dal titolo e dalla didascalia finale) e transtorico, in grado di rigettare ogni appellativo, ogni etichetta, le pesanti vesti dell’Artista-Donna per indossare quelle mitiche di capro espiatorio. La Claudel di Dumont/Binoche è una presenza le cui lacrime dicono parole non univoche; è un corpo appesantito da un fardello imponderabile, un occhio che scruta, osserva, un volto che si abbandona a piaceri minimali: il calore del sole che attenua il pallore, nel cortile della casa di cura; il vento che anima le fronde degli alberi e suggerisce a quell’essere (rin)chiuso che la natura è l’ultimo rifugio dei reietti. Nell’impossibilità di forgiare nuove forme marmoree, Camille continua, nonostante tutto, a creare, scolpendo il tempo con lo sguardo. Sublime paradosso: lei che fissò il movimento dei corpi, si ritrova immobilizzata a cercare di bloccare il dolce movimento delle cose.

Manuel Billi
(09/07/2013)

http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4802



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